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Narcos e fiction paccottiglia
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Articolo di Redazione
26 settembre 2016 16:37
 

  Devo riconoscerlo: alcuni di noi sono molto lenti di comprendonio. Con la prima stagione di “Narcos”, uno si sentiva soddisfatto per la bellezze visuali del telefilm. Mi spiego: nelle narconovelle -le soap opera dedicate a questo argomento- non appare questa verde natura selvaggia, neanche gli arazzi illuminati che stanno dietro alle possibilita' e tentazioni delle grandi citta'. Come nella fotografia, la realizzazione mette “Narcos” nella gamma alta della narcofiction.
E si tratta di fiction, non c'e' da dubitarne. Prima di leggere le accuse fatte dal figlio di Pablo Escobar, uno spettatore mediamente informato ha da reprimere costantemente il proprio coinvolgimento: “ma questa e' una bufala! Non e' la realta'. Non e' esistito questo personaggio”. Nello stesso tempo “”Narcos” ha tutte le intenzioni di rafforzare la sua verosimilitudine con l'inserimento di informazioni, fotografie, filmati artigianali.
La prima serie e' risultata un po' travolgente: ancora con dieci capitoli, era carente di pellicola che fosse sufficiente a narrare una storia tanto complessa come l'ascesa di un “paisa” (ndr - una sorta di contadino che vive in citta' ma che conserva tutti i suoi modi inurbani) come Escobar alla guida del suo business e nella lista tanto deprecata dei “piu' ricchi del mondo”. Noi ci rendiamo conto del grado di rispettabilita' acquisita: per esempio, sarebbe stato istruttivo evidenziare il suo incontro -protocollarlo, non mi fraintendano i maligni- a Madrid con Felipe Gonzalez, che aveva appena vinto le elezioni del 1982. Nella seconda serie di “Narcos”, la narrazione non e' molto sacrificata. Pablo cerca di scappare dal suo carcere balneare che si chiama La Catedral e si era convertito, come si suole dire, in un morto che cammina. Tanto che abbiamo sperato che prima di tutto si convertisse in un protagonista, e secondariamente, si esplorassero i suoi sentimenti e le sue motivazioni. Ma al contrario, cio' che poi si rileva essere la trappola della serie, “Narcos” e' raccontato, a volte all'eccesso, per un agente della DEA, Steve Murphy. Non a caso, l'unico individuo con il diritto di introspezione. Un tipo tanto retto e pietoso che pareva uscito da un filmato promozionale della DEA. Un Clint Eastwood dove i suoi sforzi sono frustrati da politici corrotti o avvocati. Per dirlo tra le righe: che solo l'ostinazione (e il denaro e la tecnologia) degli statunitensi ha permesso di eliminare Escobar. E per fare una frittata bisogna rompere le uova, preferibilmente di origine locale.
Alcune polizie colombiane possono conservare l'onorabilita' ma hanno perso la loro brutalita'. Esse manifestano la loro triste grazia di fronte ad alcuni gringos che si sono inorriditi all'idea di praticare un interrogatorio durante un volo in elicottero, quando questo metodo lo avevano scoperto essi stessi in Vietnam.
La casa produttrice, Netflix, utilizza come avvallo delle sue buone intenzioni la partecipazione di registi latinoamericani. Menos lobos, Caperucita (ndr – un modo di dire di chi si comporta con un diginita' che sembra solo esagerazione): in una serie e' decisivo il copione, redatto a Los Angeles ed intoccabile. La Colombia mette a disposizione i luoghi, ma Netflix ha messo a disposizione un (indubitabile) talento brasiliano: il concetto di realizzazione (José Padilha, che ha diretto i primi due episodi), i titoli dei brani (Rodrigo Amarante), il compositore della partitura (Pedro Bromfman), l'attore principale. Di sicuro: Wagner Mura presenta un Escobar controllato e credibile ma ha avuto momenti in cui uno si tira i peli per far capire cio' che sta dicendo; parla in spagnolo come se si stesse mangiando le parole e queste stanno gia' circolando per il suo esofago.
D'accordo, d'accordo: sarebbe un pio desiderio aspettarsi che le sfumature aggiungano qualcosa di autenticamente colombiano. In sostanza, “Narcos” sara' stato molto utile per la carriera internazionale di coloro che ne sono coinvolti. Ma mi ronza per la testa questo motivo sarcastico: “Rum e Coca Cola”, che significa che i nativi (le native, in realta'”) stanno “working for the yankee dollar” (lavorando per i dollari americani).
Si presuppone che dovremmo dimostrare gratitudine a Netflix per aver investito tanti milioni per parlare di un contadino latino, a parte il fatto che sta costringendo gli americani a leggere i sottotitoli. Invece no: data la scelta, sarebbe stato preferibile che avessero concepito un po' di intelligenza nello spettatore, nello stile di “The Wire” o “Los Soprano”. Ma, e' bene ricordarlo, queste non erano delle serie di Netflix.

(articolo di Diego A. Manrique, pubbicato sul quotidiano El Pais del 26/09/2016)

 
 
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