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In venti anni, la Terra ha perso un decimo dei suoi spazi selvaggi
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Articolo di Redazione
9 settembre 2016 18:22
 
 Tre milioni di chilometri quadrati, questa e' la superficie dell'India. E' anche la superficie della natura selvaggia che il nostro Pianeta ha perso dagli inizi degli anni 1990, secondo uno studio australiano pubblicato l'8 settembre nella rivista Current Biology.
Per arrivare a questo risultato, gli autori, James Watson e James Allan, si sono basati su delle carte che indicavano la “impronta” umana mondiale, cioe' l'insieme delle zone modificate dall'uomo. Comparando i dati attuali a quelli dell'inizio degli anni 1990, sono arrivati ad una constatazione allarmante: in venti anni, il 10% degli spazi selvaggi -liberi di ogni modifica umana- sono scomparsi dalla Terra.
Ripartiti in maggioranza in America del Nord, nel nord dell'Asia, in Africa del Nord e sul continente australiano, essi non coprono oggi che 30,1 milioni di Kmq -cioe' meno di un quarto della superficie terrestre. “La perdita del carattere selvaggio del Pianeta in soli due decenni e' stupefacente”, dice James Watson, professore di conservazione della biodiversita' all'Universita' del Queensland.
Gli spazi selvaggi sono indispensabili alla biodiersita' ma anche all'assorbimento del carbone atmosferico, alla regolazione del clima a livello locale o anche alla vita di alcune popolazioni umane. “Il loro valore ecologico e' indispensabile -conferma James Watson-. Con l'essere umano che altera una grande parte dei processi naturali, queste zone servono anche come osservatori naturali per studiare gli impatti ecologici del cambiamento climatico”.
Lo scorso 4 settembre, la pubblicazione della lista rossa delle specie minacciate dell'Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN), ha ugualmente mostrato che le zone selvagge della Terra sono rifugio per numerose specie in pericolo, come le zebre delle pianure, gli elefanti d'Africa o i leoni. “L'habitat di un terzo delle specie mammifere terrestri si sovrappone con gli spazi selvaggi, indica James Watson. La perdita di queste zone aumenta quindi il rischio di estinzione di specie gia' minacciate”.
Una trasformazione definitiva
Tutte le regioni del mondo non sono uguali rispetto al declino di questi spazi. In Amazzonia e in Africa centrale, la situazione sta virando verso la catastrofe. Con perdite rispettive del 30 e del 14%, il degrado di territori selvaggi si e' accelerato significativamente in questi ultimi due decenni. “Lo sfruttamento forestale e l'agricoltura sono piu' importanti in queste zone -spiega James Watson-. E il recupero di spazi protetti ha bisogno di tempo”.
Certamente, i ricercatori australiani sono riusciti ad osservare un aumento delle zone di protezione nel mondo -la loro superficie e' pressocche' raddoppiata dopo il Summit della Terra di Rio de Janeiro nel 1992. Ma, malgrado questo aumento, gli sforzi non sono sufficienti a far fronte alle perdite: in venti anni, 2,5 milioni di Kmq sono stati dichiarati zone protette mentre 3,3 milioni di Kmq sono scomparsi. “Oggi, le zone selvagge si degradano ad una velocita' superiore a quella della loro protezione -dice James Allan-. Se si continua con questo ritmo, non restera' alcun pezzetto di natura vergine di qui alla fine del secolo”.
La situazione e' irreversibile. “Queste zone non possono ritornare allo stato selvaggio se sono occupate dall'uomo -insiste Watson-. Una volta erose, i processi ecologici che mantengono questi ecosistemi non ritornano mai al loro stato iniziale”.
Per Harold Levrel, professore di economia ecologica ad AgroParisTech, che non ha partecipato allo studio, questo fenomeno, “piu' che intollerabile, non e' completamente sorprendente” in un contesto di crescita demografica. “Occorre sapere che in venti anni, a livello mondiale, il numero di esseri umani e' aumentato del 30%, e in alcune regioni d'Africa o dell'America del Sud, l'aumento e' stato del 60%. La pressione sugli ecosistemi e' quindi proporzionale”.
Frammentazione degli spazi
Altra minaccia che pesa su queste regioni, la frammentazione degli spazi e' sempre piu' importante. Questo fenomeno e' notevole perche', sotto la soglia di 10.000 Kmq, le aree di natura selvaggia non possono piu' essere considerate come “spazio naturale significativo”.
Certo, la maggior parte (82,3%) degli spazi selvaggi e' composto di grandi estensioni. Ma su quattordici biomi -o ecoregioni- presenti nel mondo, tre di esse non hanno piu' oggi una superficie sufficientemente grande per essere incluse nelle zone selvagge. Localizzate principalmente sotto i tropici (mangrovie, boschi di conifere o foreste secche di alberi a foglie caduche), “queste ecozone non hanno quasi piu' una opportnita' di essere protette e sono votate alla sparizione”, secondo Allan.
Per delle regioni come la foresta amazzonica, c'e' ancora tempo, secondo i ricercatori. Ma, quando gli sforzi di conservazione sono generalmente efficaci nelle zone protette, “in quel momento, gli spazi preservati nel mondo non sono sufficienti per proteggere efficacemente queste zone, e quelli che esistono non sono necessariamente ben gestiti -deplora Watson-. E' necessario arrivare ad una gestione piu' globale di queste regioni”.
Secondo gli scienziati, poche regole governano la perdita di ecosistemi su larga scala. La difficolta' risiede spesso nella dimensione degli spazi, che vanno oltre le frontiere dei Paesi. “Oggi, le misure si concentrano sull'estinzione delle specie e la gestione dei sistemi gia' degradati -che sono sicuramente i problemi maggiori- ma si suppone che gli spazi selvaggi vadano bene. Questo studio dimostra il contrario”, continua il ricercatore.
Nel momento in cui si tiene il Congresso mondiale della natura, alle Hawaii, negli Usa, gli autori insistono sulla necessita' di arrivare a degli accordi internazionali che riconoscano l'importanza degli spazi selvaggi e la loro vulnerabilita'. Per essi, e' urgente: “Se non reagiamo rapidamente, tutto sparira', e questo sara' una catastrofe per la conservazione, per il clima, e per alcune delle comunita' umane tra le piu' vulnerabili del Pianeta”.

(articolo di Clémentine Thiberge, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 09/09/2016) 
 
 
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