Grazie a Lucillafiaccola per aver ripescato questo scritto e
averlo aggiornato con queste informazioni che si riferiscono
a realtà che ci fanno vergognare.
18 maggio 2010 19:22 - lucillafiaccola1796
L'ITALIA ESPORTA STRUMENTI DI TORTURA. La denuncia di
Amnesty International Mercoledí 17.03.2010 19:25 La
Repubblica Ceca e la Germania, ma anche l'Italia sono tra i
Paesi europei che consentono il traffico di armi che possono
essere usate come strumenti di tortura. La denuncia arriva
da Amnesty International, che ha stilato un rapporto insieme
alla Omega Research Foundation, sui Paesi membri Ue che non
riescono ad arginare il commercio di tali strumenti
(manganelli arpionati, cuffie da elettroshock, spray
chimici) nonostante la legislazione in materia. L'Italia è
finita nel mirino per la produzione di 50.000 polsini e
manette che sui prigionieri scaricano cariche elettriche da
50mila volt: una lacuna giuridica ne consente infatti il
commercio, spiega Amnesty, nonostante in tutta l'Ue sia
proibita l'importazione e l'esportazione di cinture
stordenti che sono molto simili. La denuncia di Amnesty
riguarda numerosi Paesi europei e documenta per esempio
come, tra il 2006 e il 2009, la Repubblica Ceca abbia
rilasciato licenze d'esportazione per ceppi, armi da
elettroshock, spray chimici; e la Germania nello stesso
periodo abbia concesso licenze per catene da piedi o spray
chimici. Oliver Sprague, direttore per la Gran Bretagna del
Settore Armi di Amnesty International, ha fatto notare che
"l'Ue non può applicare due pesi e due misure quando si
tratta di torture: non può dire che aborre la tortura in
ogni circostanza e poi silenziosamente consentire il
trasferimento di armi che sono usate come strumenti di
tortura". Amnesty chiede agli Stati membri e all'Ue di
attivarsi per rendere efficace la legislazione in materia.
Defence System SRL, Access Group SRL, Joseph Stifter
s.a.s./KG, Armeria Frinchillucci S.r.l e PSA Srl. Sono
queste le aziende italiane specializzate in prodotti di
elettronica, in armi o di difesa, presenti nel rapporto di
Amnesty. "Dal 2007 al 2010 - spiega Riccardo Noury,
portavoce di Amnesty International Italia - queste imprese
hanno commercializzato prodotti che fanno parte di quello
che noi chiamiamo il commercio della tortura, approfittando
dei controlli inadeguati da parte dei governi. Non sappiamo
se questi prodotti siano stati anche realizzati nel nostro
paese: in ogni caso una delle modalità per aggirare le
norme comunitarie è quella di far produrre all'estero.
Possiamo dire comunque che le aziende italiane hanno offerto
pubblicamente, soprattutto attraverso internet, bastoni
elettrici o spray contenenti sostanze chimiche che possono
infliggere dolore fisico e che hanno dunque un potenziale
pericoloso di tortura". "Non sappiamo nemmeno chi è che
compra questi oggetti e dove poi vanno a finire - continua
Noury -. Sappiamo invece che in altri paesi, come la
Germania e la Repubblica Ceca, questi strumenti sono stati
esportati verso nazioni dove sono stati poi usati dalle
forze di polizia per effettuare torture: sono finiti in
Georgia, Mongolia, Pakistan, India, Cina, Emirati Arabi. Per
noi in ogni caso il punto fondamentale è che si tratta di
oggetti costruiti per torturare". Sulla commercializzazione
di strumenti di tortura c'è poi un problema legislativo.
"In Europa - spiega il portavoce di Amnesty International
Italia - esiste dal 2006 un regolamento che vieta la
commercializzazione di strumenti per la tortura e stabilisce
l'obbligo di segnalazione di tutte le licenze per
l'esportazione a un registro dell'Unione europea. Ma dalla
sua entrata in vigore dei 27 Stati membri pochissimi hanno
dato seguito a questo obbligo: sono Bulgaria, Repubblica
Ceca, Germania, Lituania, Slovenia, Spagna e Regno Unito. E
anche l'Italia ha adottato la normativa europea nel 2007.
Comunque non esiste un diritto internazionale che stabilisca
sanzioni e questo è, alla fine, il problema principale".
"Noi chiediamo una normativa più ristretta e vincolante e
una proibizione chiarissima sull'import e l'export di
prodotti che possono essere usate anche per torture -
sottolinea Noury -. E anche delle sanzioni in caso di
violazione del divieto. I controlli devono essere effettuati
dai singoli Stati perché al di là di un registro europeo
sono poi i singoli paesi che devono controllare le proprie
frontiere. Il nostro paese ha dichiarato di non sapere che
in Italia si producono strumenti di tortura: il fatto che
siano solo commercializzati non è poi così rilevante se
alcune aziende sono coinvolte in questo commercio. Il
governo italiano ora lo sa".
VIOLENZA E TORTURA, DI STATO Violenza di Stato? Non è una
novità. Stefano è l’ultima vittima di Paolo Persichetti
Stiamo assistendo ad una recrudescenza della violenza
statale? La domanda è d’obbligo dopo l’ultima vicenda
che ha portato alla morte di Stefano Cucchi. In realtà il
ricorso a pratiche violente da parte degli apparati statali
non è una novità. Una semplice disamina di lungo periodo
del fenomeno porta a concludere che il ricorso ad un uso
brutale, non proporzionato e fuorilegge della forza, è
“prassi ordinaria” dei corpi dello Stato. Per i più
giovani la memoria arriva alla «macelleria messicana» di
Bolzaneto e della Diaz. I più anziani ricordano cosa
fossero i commissariati e le carceri del dopoguerra, e cosa
accadde nel calderone degli anni 70 con la legge Reale. Dal
1 gennaio 1976 al 30 giugno 1989 vennero uccise dalle
«forze dell’ordine» 237 persone, mentre altre 352
rimasero ferite (dati censiti dal Centro Luca Rossi e
fondazione Calamandrei). Senza dimenticare le torture contro
i militanti della lotta armata praticate nel biennio
1981-1983, dopo il via libera venuto dal Cis, il comitato
interministeriale per la sicurezza.Una squadretta dei Nocs
imperversò per l’Italia praticando sevizie apprese dai
manuali utilizzati dagli aguzzini delle dittature militari
dell’America latina. Manuali redatti dai generali francesi
che ne avevano aggiornato le tecniche durante la guerra
d’Indocina e poi in Algeria, ed esportate in seguito nella
famigerata Scuola delle Americhe . Eppure c’è la
sensazione che negli ultimi tempi qualcosa sia cambiato.
Analisi sociologiche ci spiegano che le forze di polizia si
sono hooliganizzate , basta leggere il libro di Carlo
Bonini, ( Acab , Einaudi 2009) per farsene un’idea. Sorta
di calco del mondo imbastardito delle curve. La sensazione
d’impunità, la forza dell’omertà-ambiente che copre
questi comportamenti, hanno attenuato i meccanismi di
autocontrollo. Il populismo penale, l’importazione dei
modelli di “tolleranza zero”, hanno portato alla
costruzione di un nuovo “nemico interno” identificato
nella piccola devianza, nei migranti. Una gestione
dell’ordine pubblico militarizzata, sommata alla
legislazione proibizionista e all’internamento carcerario
come soluzione dei problemi, hanno generato un mostro
sicuritario che produce un fisiologico esercizio della
coercizione che dilaga in violenza aperta, tra fermi, celle
di sicurezza, tribunali, prigioni. Negli ultimi anni la
cronaca è fitta di episodi del genere: Marcello Lonzi ,
morto nel 2003 all’interno del carcere di Livorno. Sul suo
corpo numerosi segni di vergate e colpi di bastone. Dopo
anni di denunce la procura ha recentemente riaperto
l’inchiesta. Due agenti penitenziari sono indagati.
Federico Aldovrandi , pestato a morte il 25 settembre 2005
in piena strada dai poliziotti di una volante. Aldo Bianzino
, deceduto il 14 ottobre 2007 nel carcere di Perugia. Sul
suo corpo vengono riscontrate «lesioni massive al cervello
e alle viscere», provocate prima dell’ingresso nel
penitenziario. Un’inchiesta per omicidio volontario è in
corso contro ignoti. Stefano Brunetti , arrestato ad Anzio
l’8 settembre 2008, muore in ospedale il giorno successivo
a causa delle percosse subite. Dall’autopsia emerge un
decesso provocato da «emorragia interna dovuta ad un grave
danno alla milza. Risultano anche fratture a due costole».
Mohammed , marocchino di ventisei anni suicidatosi il 6
marzo 2009 nel carcere di santa Maria Maggiore a Venezia,
dopo una lunga permanenza in cella liscia. Sei poliziotti
della penitenziaria finiscono nel registro degli indagati
per «abuso di autorità contro persone arrestate o
detenute». Francesco Mastrogiovanni , morto in un letto di
contenzione il 4 agosto scorso dopo un Tso abusivo. Per le
molteplici morti violente avvenute in carcere e nelle
questure, l’Italia è sotto accusa da parte di alcuni
organismi internazionali e dalla commissione europea per la
prevenzione della tortura. Il potere sui corpi è
qualcosa di osceno
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico
ministero, si colloca su una linea di confine» Intervista
a Carofiglio, senatore PD, magistrato. Di Paolo Persichetti
«Il lavoro dell’investigatore, poliziotto o pubblico
ministero, si colloca su una linea di confine. Da un lato ci
sono delle regole, nonnecessariamente giuridiche, che
spesso, in modo consapevole o inconsapevole, vengono
violate. Ma senza le regole non c’è nessuna differenza
fra guardia e ladro, tutto si riduce a una pura questione di
rapporti di forza». Si tratta di uno dei passi finali del
Paradosso del poliziotto, dialogo tra un giovane scrittore e
un vecchio poliziotto, scritto da Gianrico Carofiglio, oggi
senatore del Pd, magistrato in aspettativa e per molti anni
pubblico ministero, ma soprattutto autore riconosciuto. Per
Sellerio ha pubblicato “I casi dell’avvocato
Guerrieri”, “Testimone inconsapevole” e “L’Arte
del dubbio”, che potremmo definire un vero manuale sulla
tecnica dell’interrogatorio. Forse in questo momento è
una delle persone più adatte per aiutarci a capire cosa è
successo a Stefano Cucchi, e soprattutto perché. Chi meglio
di lui può sapere quel che può accadere nelle pieghe delle
indagini, nel chiuso di un posto di polizia durante i
momenti che seguono il fermo di un indiziato? Nel Paradosso
del poliziotto fa raccontare al vecchio sbirro una scena che
marca l’inizio della sua carriera, il pestaggio di un
giovane appena arrestato: «quando entrai il ragazzo stava
gridando, o forse piangeva. Attorno c’erano sei o sette
colleghi, un paio in divisa delle volanti e tutti gli altri
della mobile. Quello era seduto, ammanettato dietro la
schiena. Gli davano schiaffi e pugni a turno e gli gridavano
in faccia e nelle orecchie». A Stefano Cucchi è accaduta
una cosa del genere? Questo lo dovranno appurare i titolari
dell’inchiesta. Piuttosto sono rimasto molto colpito dalle
dichiarazioni fatte da un ufficiale dell’Arma, secondo cui
l’unica cosa certa in questa storia è che i carabinieri
quella notte si sono comportati correttamente. Un dato certo
in realtà è che qualcuno ha prodotto quelle terribili
lesioni sul corpo del ragazzo. Se quell’ufficiale
garantisce che i carabinieri non hanno nulla di cui
rimproverarsi, vuol dire che sa anche chi ha provocato
quelle lesioni sul giovane. La conseguenza successiva è che
lo deve dire, se vuole essere credibile e non dare l’idea
di una difesa d’ufficio di comportamenti inaccettabili.
Marcello Lonzi, ucciso nel 2003 nel carcere di Livorno
Nelle indagini uno dei maggiori momenti di criticità è la
fase iniziale, quella dove le forze di polizia, in presenza
di un fermo, possono agire d’impeto prima
dell’intervento della magistratura.
E’ normale che un soggetto tratto in arresto possa essere
informalmente interrogato per acquisire notizie utili
all’immediato proseguimento dell’indagine. Queste
dichiarazioni però non sono utilizzabili e nemmeno
verbalizzabili. Un soggetto in stato di arresto non può
essere formalmente interrogato dalla polizia giudiziaria.
Però nel suo libro il vecchio poliziotto non aspetta il
magistrato. Dialoga col rapinatore, gli toglie le manette,
gli offre una sigaretta e quello parla? Nell’ultimo
capitolo del mio prossimo romanzo, c’è un dialogo tra un
avvocato e un poliziotto. Ad un certo punto i due parlano
delle loro regole nella vita. Il poliziotto dice: «faccio
lo sbirro. La prima regola per uno sbirro è non umiliare
chi ha di fronte». Dice questo perché il potere sulle
altre persone è qualcosa di osceno, perché è
l’impossessamento di un corpo e l’unico modo per
renderlo tollerabile è il rispetto. Evitare di passare da
una funzione tecnica d’investigatore o giudice, a una
funzione di giustiziere morale. Rispettare l’altro
indipendentemente da chi è, da cosa ha fatto o si suppone
abbia fatto. Si tratta della regola più importante ma anche
di quella più facile da violare. Il corpo di Stefano Cucchi
non ha avuto questo rispetto. Negli ultimi tempi le cronache
hanno registrato anomalie, o per utilizzare il linguaggio
dei suoi personaggi, hanno umiliato gli indiziati. Basti
pensare a una vicenda come quella della Caffarella, o alla
morte di Stefano Brunetti nel 2008, deceduto in carcere per
traumi subiti nella fase dell’arresto. Io non parlerei di
una recrudescenza. Il fenomeno è più strutturale e si
colloca in quella zona grigia che caratterizza le prime fasi
concitate delle indagini. In genere, in queste circostanze,
c’è il rischio che si manifestino due tipi di violenza,
entrambe illegittime, ovviamente. La prima legata alla fase
operativa, quando intervengono modalità movimentate di un
arresto o di un fermo. La seconda, molto più grave, è
quella praticata negli uffici, a volte come inaccettabile
punizione preventiva, a volte come altrettanto inaccettabile
tecnica investigativa finalizzata ad acquisire prove. Si
tratta di una dimensione difficilmente governabile che si
colloca nella fase successiva all’arresto,
all’apprensione fisica del soggetto interessato
all’attività investigativa. Credo che l’unica soluzione
– oltre alla repressione rigorosa degli episodi provati
– sia lavorare sulla cultura dei dirigenti e degli
operatori, mostrando una tolleranza zero verso forme
ingiustificabili di puro sadismo. La capacità di parlare
con le persone – indagati e testimoni – è in realtà
molto più efficace e positiva nelle prospettiva di
un’indagine dagli esiti attendibili. Ci sono analisi
sociologiche che descrivono una sorta di hooliganizzazione
della polizia. «L’Italia non è uno stivale. È un
anfibio di celerino». La frase è di un esponente delle
forze di polizia, e si trova nel libro di Carlo Bonini,
Acab. Qualcosa vorrà pur dire, se un agente si esprime in
questo modo? Non si può generalizzare l’atteggiamento di
un balordo, o di qualcuno che agisce sotto stress. Non
dobbiamo commettere l’errore di dire che la polizia, o i
carabinieri, siano questo. Ed è altresì un errore
confondere l’uso della violenza che a volte si verifica
all’interno dell’attività investigativa con le
modalità più o meno brutali di gestione dell’ordine
pubblico. Si tratta di due fenomeni distinti. Il primo lo si
ritrova, in misura minore o maggiore, nelle polizie di tutto
il mondo ed è inversamente proporzionale al grado di
civilizzazione e cultura del Paese e delle sue forze di
polizia. Altra questione, più legata anche a sollecitazioni
politiche, dirette o indirette, quella sull’uso eccessivo
della forza in situazioni d’ordine pubblico. Certo si può
sempre osservare che in una situazione di barbarie
collettiva, di violenza verbale, di perdita di freni
inibitori, è più facile che la violenza, in generale, si
incrementi. Può anticipare il contenuto
dell’interpellanza parlamentare che depositerà la
prossima settimana? Tra le altre cose, ho chiesto
chiarimenti sul fatto che l’autopsia sul corpo di Stefano
Cucchi è stata disposta nell’ambito di un fascicolo che
nel gergo si chiama modello 45, cioè il fascicolo in cui si
inseriscono gli atti non costituenti notizia di reato.
Quando l’autorità giudiziaria dispone un’autopsia, la
premessa concettuale e giuridica è che ci sia un’ipotesi
di reato, anche remota, benché in questo caso remota non lo
fosse affatto. Si tratta di una strana anomalia che dovrà
essere spiegata. Di anomalie in questa storia ce ne sono
tante. Sembra che Cucchi in caserma avesse indicato un
proprio legale di fiducia, che però non risulta mai essere
stato avvertito. Quando è comparso in tribunale è stato
assistito, per così dire, da un legale d’ufficio. Se la
cosa dovesse trovare conferma sarebbe una circostanza di
inaudita gravità e probabilmente un indicatore del fatto
che si voleva evitare l’intervento del legale di fiducia e
la sua funzione di controllo.
1 dicembre 2007 0:00 - gianluigi
Intervento organico e lucidissimo. Merita il massimo della
diffusione, anche per la costante attualità degli
argomenti. Complimenti all'Autrice che anche in
precedenti scritti ha raggiunto elevati livelli di
comunicazione. Complimenti all'ADUC che con questo
genere di approfondimenti surclassa analoghe organizzazioni
del settore.