COMMENTI
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29 novembre 2009 18:40 - lucillafiaccola1796
Delle due UNA sola può essere!
O toto riina non sta in carcere tanto chi controlla il fatto? ed il suo "pro cesso" è stata tutta una "fiction"...
oppure il primo e l'"ultimo" ha avuto dal suo "boss...i" l'incarico di in.castrarlo ed affondarlo!
Qual'è la fiama che comanda veramente in italia? Quella annidata nelle emanazioni dei pollitticci
di tutte le sè dicenti posizioni o quella classica del si.fa.x.dire brutto tempo andato?

Troppe prime.donnette... prima o poi l'italia si flette e si spiezza in infinite ed infinitesi MALI particine!!!!
28 novembre 2009 11:22 - Lusnam
Ecco chi, gli Italiani hanno scelto per Premier….
All’estero ci ammirano….


L'inchiesta
Cosa Nostra e la nascita di Fininvest
L'asso nella manica dei boss Graviano i soldi del Cavaliere
ATTILIO BOLZONI GIUSEPPE D'AVANZO
Soldi. Soldi "loro" che non sono rimasti in Sicilia, ma "portati su", lontano da Palermo. "Filippo Graviano mi parlava come se fosse un suo investimento, come se la Fininvest fossero soldi messi da tasca sua". Per Gaspare Spatuzza, da qualche parte, la famiglia di Brancaccio ha "un asso nella manica". Quale può essere questo "jolly" non è più un mistero. Per i mafiosi, che riferiscono quel che sanno ai procuratori di Firenze, è una realtà il ricatto per Berlusconi che Cosa Nostra nasconde sotto la controversa storia delle stragi del 1993. Nell'interrogatorio del 16 marzo 2009, Spatuzza non parla più di morte, di bombe, di assassini, ma del denaro dei Graviano. E ha pochi dubbi che Giuseppe Graviano (che chiama "Madre Natura" o "Mio padre") "si giocherà l'asso" contro chi a Milano è stato il mediatore degli affari di famiglia, Marcello Dell'Utri, e l'utilizzatore di quelle risorse, Silvio Berlusconi.
Il mafioso ricostruisce la storia imprenditoriale della cosca di Brancaccio, con i Corleonesi di Riina e Bagarella e i Trapanesi di Matteo Messina Denaro, il nocciolo duro e irriducibile di Cosa nostra siciliana.
è il 16 marzo 2009, il mafioso di Brancaccio racconta ai pubblici ministeri del "tesoro" dei Graviano. "Cento lire non gliele hanno levate a tutt'oggi. Non gli hanno sequestrato niente e sono ricchissimi".
I soldi del Cavaliere l'asso nella manica dei boss Graviano
L'inchiesta
Così la mafia investì a Milano

Più che un eventuale avviso di garanzia per le stragi del '93, il
premier dovrebbe temere il coinvolgimento da parte delle cosche sulle
storie di denaro
Il peso del ricatto al premier della famiglia di Brancaccio sembra
legato alla Fininvest, a ciò che riguarda l'inizio della sua storia di
imprenditore"Non si fidano di nessuno, hanno costruito in questi vent'anni un
patrimonio immenso". Per Gaspare Spatuzza, due più due fa sempre
quattro. Dopo il 1989 e fino al 27 gennaio 1994 (li arrestano ai tavoli
di "Gigi il cacciatore" di via Procaccini), Filippo e Giuseppe decidono
di starsene latitanti a Milano e non a Palermo. Hanno le loro buone
ragioni. A Milano possono contare su protezioni eccellenti e
insospettabili che li garantiscono meglio delle strade strette di
Brancaccio dove non passa inosservato nemmeno uno spillo. E dunque
perchè? "E' anomalissimo", dice il mafioso, ma la chiave è nel denaro. A
Milano non ci sono uomini della famiglia, ma non importa perchè ci sono
i loro soldi e gli uomini che li custodiscono. I loro nomi forse non
sono un mistero. Di più, Gaspare Spatuzza li suggerisce. Interrogatorio
del 16 giugno: "Filippo ha nutrito sempre simpatia nei riguardi di
Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, (?) Filippo è tutto patito
dell'abilità manageriale di Berlusconi. Potrei riempire pagine e pagine
di verbale [per raccontare] della simpatia e del? possiamo dire ?
dell'amore che lo lega a Berlusconi e Dell'Utri".
"L'asso nella manica" di Giuseppe Graviano, "il jolly" evocato dal
mafioso come una minaccia - sostengono fonti vicine all'inchiesta - non
è nella fitta rete di contatti, reciproche e ancora misteriose influenze
che hanno preceduto le cinque stragi del 1993 - lo conferma anche
Spatuzza - , ma nelle connessioni di affari che, "negli ultimi
vent'anni", la famiglia di Brancaccio ha coltivato a Milano. E' la
rassicurante condizione che rende arrogante anche Filippo, solitamente
equilibrato. Dice Gaspare: "[Filippo mi disse]: facceli fare i processi
a loro, perchè un giorno glieli faremo noi, i processi".
Nella lettura delle migliaia di pagine di interrogatorio, ora agli atti
del processo di appello di Marcello Dell'Utri, pare necessario allora
non farsi imprigionare da quel doloroso 1993, ma tenere lo sguardo più
lungo verso il passato perchè le stragi di quell'anno sono soltanto la
fine (provvisoria e sfuggente) di una storia, mentre i mafiosi che hanno
saltato il fosso - e i boss che hanno autorizzato la manovra - parlano
di un inizio e su quell'epifania sembrano fare affidamento per la resa
dei conti con il capo del governo.
Le cose stanno così. Berlusconi non deve temere il suo coinvolgimento -
come mandante - nelle stragi non esclusivamente mafiose del 1993. Può
mettere fin da ora nel conto che sarà indagato, se già non lo è a
Firenze. Molti saranno gli strepiti quando la notizia diventerà
ufficiale, ma va ricordato che l'iscrizione al registro degli indagati
mette in chiaro la situazione, tutela i diritti della difesa, garantisce
all'indagato tempi certi dell'istruttoria (limitati nel tempo). Quando
l'incolpazione diventerà pubblica, l'immagine internazionale del premier
ne subirà un danno, è vero, ma il Cavaliere ha dimostrato di saper
reggere anche alle pressioni più moleste. E comunque quel che deve
intimorire e intimorisce oggi il premier non è la personale credibilità
presso le cancellerie dell'Occidente, ma fin dove si può spingere e si
spingerà l'aggressione della famiglia mafiosa di Brancaccio, determinata
a regolare i conti con l'uomo - l'imprenditore, il politico - da cui si
è sentita "venduta" e tradita, dopo "le trattative" del 1993 (nascita di
Forza Italia), gli impegni del 1994 (primo governo Berlusconi), le
attese del 2001 (il Cavaliere torna a Palazzo Chigi dopo la sconfitta
del ?96), le più recenti parole del premier: "Voglio passare alla storia
come il presidente del consiglio che ha distrutto la mafia" (agosto 2009).
Mandate in avanscoperta, non contraddette o isolate dai boss, le
"seconde file" della cosca - manovali del delitto e della strage al
tritolo - hanno finora tirato dentro il Cavaliere e Marcello Dell'Utri
come ispiratori della campagna di bombe, inedita per una mafia che in
Continente non ha mai messo piede - nel passato - per uccidere
innocenti. Fonti vicine alle inchieste (quattro, Firenze, Caltanissetta,
Palermo, Milano) non nascondono però che raccogliere le fonti di prove
necessarie per un processo sarà un'impresa ardua dall'esito oggi dubbio
e soltanto ipotetico. Non bastano i ricordi di mafiosi che "disertano".
Non sono sufficienti le parole che si sono detti tra loro, dentro
l'organizzazione. Non possono essere definitive le prudenti parole di
dissociazione di Filippo Graviano o il trasversale messaggio di Giuseppe
che promette ai magistrati "una mano d'aiuto per trovare la verità".
Occorrono, come li definisce la Cassazione, "riscontri intrinseci ed
estrinseci", corrispondenze delle parole con fatti accertabili. Detto
con chiarezza, sarà molto difficile portare in un'aula di tribunale
l'impronta digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993. Questo
affondo della famiglia di Brancaccio sembra - vagliato allo stato delle
cose di oggi - soltanto un avvertimento che Cosa Nostra vuole dare alla
letale quiete che sta distruggendo il potere dell'organizzazione e,
soprattutto, uno scrollone a uno stallo senza futuro, che l'allontana
dal recupero di risorse essenziali per ritrovare l'appannato prestigio.
Il denaro, i piccioli, in queste storie di mafia, sono sempre
curiosamente trascurati anche se i mafiosi, al di là della retorica
dell'onore e della famiglia, altro non hanno in testa. I Graviano, dice
Gaspare Spatuzza, non sono un'eccezione. Nel loro caso, addirittura sono
più lungimiranti. Nei primi anni novanta, Filippo e Giuseppe preparano
l'addio alla Sicilia, "la dismissione del loro patrimonio" nell'isola.
Spatuzza (16 giugno 2009): "Nel 1991, vendono, svendono il patrimonio.
Cercano i soldi, [vogliono] liquidità e io non so come sono stati
impiegati [poi] questi capitali, e per quali acquisizioni. Certo, non
sono restati in Sicilia". I Graviano, a Gaspare, non appaiono più
interessati "alle attività illecite". "Quando Filippo esce [dal carcere]
nell'88 o nel 1989, esce con questa mania, questa grandezza
imprenditoriale. I Graviano hanno già, per esempio, le tre Standa di
Palermo affidate a un prestanome, in corso Calatafimi a Porta Nuova, in
via Duca Della Verdura, in via Hazon a Brancaccio". Filippo - sempre lui
- si sforza di far capire anche a uno come Spatuzza, imbianchino, le
opportunità e anche i rischi di un impegno nella finanza. Le sue parole
svelano che ha già a disposizione uomini, canali, punti di riferimento,
competenze. "[Filippo] mi parla di Borsa, di Tizio, di Caio, di
investimenti, di titoli. (?). Mi dice: [vedi Gaspare], io so quanto
posso guadagnare nel settore dell'edilizia, ma se investo [i miei soldi]
in Borsa, nel mercato finanziario, posso perdere e guadagnare, non c'è
certezza. Addirittura si dice che a volte, se si benda una scimmia e le
si fa toccare un tasto, può riuscire meglio di un esperto. Filippo è
attentissimo nel seguire gli scambi, legge ogni giorno il Sole 24ore.
Tiene in considerazione la questione Fininvest, d'occhio [il volume
degli] investimenti pubblicitari. Mi dice [meraviglie] di una
trasmissione come Striscia la notizia. Minimo investimento, massima
raccolta [di spot], introiti da paura. "Il programma più redditizio
della Fininvest", dice. Abbiamo parlato anche di Telecom, Fiat, Piaggio,
Colaninno, Tronchetti Provera, ma la Fininvest era, posso dire, un
terreno di sua pertinenza, come [se fosse] un [suo] investimento, come
se fossero soldi messi da tasca sua, la Fininvest".
E' l'interrogatorio del 29 giugno 2009. Gaspare conclude: "Le [mie]
dichiarazioni non possono bruciare l'asso [conservato nella manica] di
Giuseppe" perchè "il jolly" non ha nulla a che spartire con la Sicilia,
con le stragi, con quell'orizzonte mafioso che è il solo paesaggio sotto
gli occhi di Spatuzza. Un mese dopo (28 luglio 2009), i pubblici
ministeri chiedono a Filippo in modo tranchant dove siano le sue
ricchezze. Quello risponde: "Non ne parlo e mi dispiace non poterne
parlare".
Ora, per raccapezzarci meglio in questo labirinto, si deve ricordare che
i legami tra Marcello Dell'Utri e i paesani di Palermo non sono una
novità. Come non sono sconosciuti gli incontri - nella metà degli anni
settanta - tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra
(Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Nè
sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado
nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di
Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova (il mafioso, "che
poteva chiedere qualsiasi cosa a Dell'Utri", siede alla tavola di
Berlusconi anche nelle cene ufficiali, altro che "stalliere"). Nella
scena che prepara la confessione di Gaspare Spatuzza, quel che è
originale è l'esistenza di "un asso" che, giocato da Giuseppe Graviano,
potrebbe compromettere il racconto mitologico dell'avventura
imprenditoriale del presidente del consiglio.
Con quali capitali, Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli
settanta, ancora oggi è mistero glorioso e ben protetto. Molto si è
ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito
come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a
battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari.
Probabilmente capitali sottratti al fisco, espatriati, rientrati in
condizioni più favorevoli, questo era il mestiere del conte Carlo
Rasini. Ma è ancora nell'aria la convinzione che non tutta la Fininvest
sia sotto il controllo del capo del governo.
Molte testimonianze di "personaggi o consulenti che hanno lavorato come
interni al gruppo", rilasciate a Paolo Madron (autore, nel 1994, di una
documentata biografia molto friendly, Le gesta del Cavaliere,
Sperling&Kupfer), riferiscono che "sono [di Berlusconi] non meno dell'80
per cento delle azioni delle [22] holding [che controllano Fininvest].
Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora
sbizzarrire". Sembra di poter dire che il peso del ricatto della
famiglia di Brancaccio contro Berlusconi può esercitarsi proprio tra le
nebbie di quel venti per cento. In un contesto che tutti dovrebbe
indurre all'inquietudine. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di
conti il presidente del consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con
lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per
condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie
più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la
disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate.
In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un
capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità
- non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia, per sottrarsi a quel
ricatto rovinoso, anche Berlusconi è chiamato a fare finalmente luce
sull'inizio della sua storia d'imprenditore.
Il Cavaliere dice che si è fatto da sè correndo in salita senza capitali
alle spalle. Sostiene di essere il proprietario unico delle holding che
controllano Mediaset (ma quante sono, una buona volta, ventidue o
trentotto?). E allora l'altro venti per cento di Mediaset di chi è?
Davvero, come raccontano ora gli uomini di Brancaccio, è della mafia? è
stata la Cosa Nostra siciliana allora a finanziarlo nei suoi primi,
incerti passi di imprenditore? Già glielo avrebbero voluto chiedere i
pubblici ministeri di Palermo che pure qualche indizio in mano ce l'avevano.
Quel dubbio non può essere trascurabile per un uomo orgoglioso di
avercela fatta senza un gran nome, senza ricchezze familiari, un
outsider nell'Italia ingessata delle consorterie e prepotente delle
lobbies. Berlusconi, in occasione del processo di primo grado contro
Marcello Dell'Utri, avrebbe potuto liberarsi di quel sospetto con poche
parole. Avrebbe potuto dire il suo segreto; raccontare le fatiche che ha
affrontato; ricordare le curve che ha dovuto superare, anche le minacce
che gli sono piovute sul capo. Poche parole con lingua secca e chiara. E
lui, invece, niente. Non dice niente. L'uomo che parla ossessivamente di
se stesso, compulsivamente delle sue imprese, tace e dimentica di dirci
l'essenziale. Quando i giudici lo interrogano a Palazzo Chigi (è il 26
novembre 2002, guida il governo), "si avvale della facoltà di non
rispondere". Glielo consente la legge (è stato indagato in
quell'inchiesta), ma quale legge non scritta lo obbliga a tollerare
sulle spalle quell'ombra così sgradevole e anche dolorosa, un'ombra che
ipoteca irrimediabilmente la sua rispettabilità nel mondo - nel mondo
perchè noi, in Italia, siamo più distratti? Qual è il rospo che deve
sputare? Che c'è di peggio di essere accusato di aver tenuto il filo -
o, peggio, di essere stato finanziariamente sostenuto - da un potere
criminale che in Sicilia ha fatto più morti che la guerra civile
nell'Irlanda del Nord? Che c'è di peggio dell'accusa di essere un
paramafioso, il riciclatore di denaro che puzza di paura e di morte?
Un'evasione fiscale? Un trucco di bilancio? Chi può mai crederlo
nell'Italia che ammira le canaglie. Per quella ragione, gli italiani lo
avrebbero apprezzato di più, non di meno. Avrebbero detto: ma guarda
quel bauscia, è furbissimo, ha truccato i conti, gabbato lo Stato e vedi
un po' dove è arrivato e con quale ricchezza! D'altronde anche per
questo scellerato fascino, gli italiani lo votano e gli regalano la loro
fiducia. E dunque che c'è di indicibile nei finanziamenti oscuri, senza
padre e domicilio, che gli consentono di affatturarsi i primi affari?
E' giunto il tempo, per Berlusconi, di fare i conti con il suo passato.
Non in un'aula di giustizia, ma en plein air dinanzi all'opinione
pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il
legittimo governo del Paese.
26 novembre 2009 10:27 - Lusnam
Vi siete visti Ballaro'?
Luciano Violante , ha una nuova tesi: per far governare il Paese, bisogna eliminare i processi a Berlusconi!
ahahahaahahah
In qualita’ di responsabile PD Bersaniano per le Riforme, fa bene ad avere una impenetrabile scorta, altrimenti gli elettori del PD, lo linciano .
e' la fine, la fine della democrazia!
altro che Europa!
.....
Dal Fatto Quotidiano
26 Novembre 09

Schifani E IL BOSS DELLE STRAGIUn pentito parla di incontri con GravianoMa
lui continua a guidare il SenatoSono Violanterisolvo problemidiMarco
TravaglioGli elettori del Pd che martedì hanno visto“Ballarò”si saranno augurati
che LucianoViolante parlasse a titolo personale, non a nomedel principale
partito di opposizione (si faperdire). Spiace deluderli, ma Violante è il “nu
ovo ”responsabile Riforme del “nu ovo ”Pd bersaniano. L’al t rasera le cose si
stavano mettendo maluccio per il Pdl,rappresentato dal trust di cervelli Cota-Al
Fano. Cotadelirava in padano stretto. Al Fano, momentaneamentesprovvisto di
pallottoliere, s’infilava in una giungla dinumeri sul processo breve da cui
stentavaa uscire vivo.Piazzavail suo 1% di processi morti dopo 6 anni.
Maqualcuno domandava: “Dunque il 99% finisce in 6 anni?Allora abbiamo la
giustizia più rapida dell’univer so”.Allora Angelino mercanteggiavacome i
tappetari neisuk: “Facciamo 7-8%”. E spiegavache i processi, se nonli ammazzasse
la legge, si prescriverebbero comunque.Come dire: sterminate pure gli anziani e
i malati gravi,tanto prima o poi muoiono lo stesso. Casini ripetevalafesseria
che i processi fanno comodo a Berlusconi (“liusa come alibi”) e, per fargli un
dispetto, bisognaabolirli solo a lui. Al Fano, in stato confusionale,
dicevaaddirittura la verità: “Guardi che, se glieli abolite, lui èfelice”.
Risate in studio. A quel punto intervenivaViolante e la débâcle del centrodestra
si mutavaintrionfo: “Legalità e democrazia son cose diverse”. Inrealtà la nostra
democrazia si fonda sull’eguaglianza deicittadini dinanzi alla legge. Dunque
democrazia èlegalità. Invece, nella bizzarraconcezione violantesca,essa sarebbe
minacciata dai processi al premier, che “gliimpediscono di governare”. Ma
Berlusconi ha giàgovernato 7 anni da imputato. Ora indovinate lasoluzione di
Violante per spegnere il presunto scontropolitica-giustizia? “Mettere mano al
potere dellama gistratura”. Cioè abolire i processi ai politici.Tornando
all’autorizzazione a procedere? Magari. Moltopeggio: allargando a tutti i reati,
anche commessi primao fuori delle funzioni, l’“insindaca bilità”( i m mu n i t
àtotale) prevista dalla Costituzione per opinioni espressee voti dati. Oggi se
l’onorevole offende un cittadino equesti lo denuncia, il Parlamento lo
dichiarainsindacabile e il giudice devefermarsi. In automatico.Se il giudice non
è d’accordo, si rivolge alla Cortecostituzionale col conflitto d’attribuzioni
fra poteridello Stato. Con l’autorizzazione a procedere, invece, laregola era
che fosse concessa e l’eccezione che fossenegata nel caso estremo e rarissimo di
“f u mu sper secutionis”. Ora Violante propone che ilparlamentare sia
insindacabile non solo per quel chedice e per come vota, ma anche se ruba,
truffa, evade,stupra, ammazza, corrompe, mafieggia. Se poi il giudicepretende di
processarlo lo stesso, ricorra alla Consulta.E questa per lui (e, si presume,
per il Pd) sarebbedemocrazia: modello Russia di Putin e Libia di Gheddafi.Così
Berlusconi è salvo, ma pure Dell’Utri, Cosentino,Cuffaroe tutti gli altri
onorevolissimi inquisiti eimputati. A quel punto anche Riina,
Provenzano,Sandokan faranno un pensierino al Parlamento. Delresto, argomenta
Violante, “la magistratura applica lalegge, che spesso è confusa”. Prendete
Berlusconi:quando Mills testimoniò, lui lesse e rilesse il Codicepenale, ma tale
era la confusione che non riuscì asciogliere l’enigma: sarà reato o no
corrompere unteste? Nel dubbio, lo corruppe. E ora, per una leggeconfusa, si
ritrova imputato per corruzione. Ma si può?Meno male che c’è Violante che, ben
più lucido deltrafelato Al Fano e più efficiente del pasticcioneGhedini, ha
sempre una soluzione per tutto. L’el e t t o redel Pd potrebbe domandargli:
scusa, compagno, sicuroche non c’importi di sapere se il presidente delConsiglio
c’entra con la mafia e con le stragi, ha frodatoil fisco, ha corrotto testimoni
e giudici? Ma Violante hauna scorta impenetrabile: per difendersi dagli
elettori.
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