COMMENTI
  (Da 1 a 7 di 7)  
5 luglio 2016 8:30 - Annapaola Laldi
Per Francesco 5421.
Ho letto con molto gusto l'ode di Victor Hugo. Diffonderla non può che fare bene.
Grazie e saluti cordiali e bene auguranti.
29 giugno 2016 16:54 - Annapaola Laldi
Grazie a Daniela e a Francesco 5421.
Al quale in particolare dico che ho copiato il poema di Victor Hugo (sì, posso leggerlo anche in francese, ma avere la traduzione sott'occhio aiuta sempre), ho ingrandito i caratteri e l'ho stampato. Così lo posso centellinare con calma. Gli resto debitrice di un'impressione dopo la lettura.
29 giugno 2016 11:06 - DanieleA
Cara Annapaola, i miei più vivi e sinceri complimenti: un articolo che coniuga con rara maestria la chiarezza espositiva, la proprietà di linguaggio, la lucidità, la capacità di analisi e l'arte di affabulare. Avercene...
29 giugno 2016 9:54 - francesco5421
Cara Annapaola,

anche se, a Roma, ho fatto campagna accanita pro Raggi - ma solo in ossequio al vecchio principio campagnolo che, quando nessuna vacca risulta ingravidata, per prima cosa s'abbatte il vecchio toro - confesso che condivido appieno le tue perplessità per le due sindache M5S:

la cloaca è ormai talmente imputridita che é forte il rischio che si cambi l'orchestra ma solo per a breve ritornare alla stessa musica:

per pulire le stalle di Augia occorse un supereroe come Ercole (e che poi dovette ricorrere ad un geniale espediente che, nel caso in questione potrebbe, a mio giudizio, essere la decollazione od il colpo alla nuca per tutta la burocrazia delle due magnopoli).

Illustro questa mia amara valutazione: l'insonne capo dell' USCE (intendi: Ufficio Speciale Condono Edilizio) capitolino, ha recentemente ricevuto una grossa cifra per 'premio di produttività', anche se - e benché quell'ufficio disponga giornalmente di oltre 150 fancazzisti –

ad oltre 33 anni dall'apertura - del problema del condono edilizio, indiscutibilmente notevole e tutt'altro che da sottovalutare - ci siano ancora qualcosa come 80.000 pratiche inevase:

allora io - invece di quel molto oro e della menzione onorevole - lo avrei fatto inginocchiare e solo per rifilargli un grammo di piombo rovente in testa!

Comunque la speranza deve esser sempre l'ultima a morire e – poiché ti so molto amante della poesia nonché germanofona (ma non so se anche francofona) – ti mando originale e traduzione della meravigliosa ode, di V. Hugo, 'Ameyrillot',

ode che, in questi giorni, non faccio che distribuire a destra ed a manca, per rialzare il depressissimo morale romano ed italico.

Cordialmente e con un vivo ringraziamento per la tua rubrica che – unitamente a quella di Sandro (PEDONE) – rappresentano (almeno secondo me) le principali attrattive del Vs. sito.

Schlag (Francesco RAUCEA)

De 'La legende des siécles', de 'Le Cycle héroïque Chrétien' de V. HUGO
AYMERILLOT
Cependant, il chemine; au bout de trois journées
Il arrive au sommet des hautes Pyrénées.
Là, dans l’espace immense il regarde en rêvant;
Et sur une montagne, au loin, et bien avant
Dans les terres, il voit une ville très forte,
Ceinte de murs avec deux tours à chaque porte.
Elle offre à qui la voit ainsi dans le lointain
Trente maîtresses tours avec des toits d’étain
Et des mâchicoulis de forme sarrasine
Encor tout ruisselants de poix et de résine.
Au centre est un donjon si beau, qu’en vérité,
On ne le peindrait pas dans tout un jour d’été.
Ses créneaux sont scellés de plomb; chaque embrasure
Cache un archer dont l’œil toujours guette et mesure;
Ses gargouilles font peur; à son faîte vermeil
Rayonne un diamant gros comme le soleil,
Qu’on ne peut regarder fixement de trois lieues.
Sur la gauche est la mer aux grandes ondes bleues
Qui, jusqu’à cette ville, apporte ses dromons.
Charle, en voyant ces tours, tressaille sur les monts.
«Mon sage conseiller, Naymes, duc de Bavière,
Quelle est cette cité près de cette rivière?
Qui la tient la peut dire unique sous les cieux.
Or, je suis triste, et c’est le cas d’être joyeux.
Oui, dussé-je rester quatorze ans dans ces plaines,
Ô gens de guerre, archers, compagnons, capitaines,
Mes enfants! mes lions! saint Denis m’est témoin
Que j’aurai cette ville avant d’aller plus loin!»

Le vieux Naymes frissonne à ce qu’il vient d’entendre.
«Alors, achetez-la, car nul ne peut la prendre.
Elle a pour se défendre, outre ses béarnais,
Vingt mille turcs ayant chacun double harnais.
Quant à nous, autrefois, c’est vrai, nous triomphâmes;
Mais, aujourd’hui, vos preux ne valent pas des femmes,
Ils sont tous harassés et du gîte envieux,
Et je suis le moins las, moi qui suis le plus vieux.
Sire, je parle franc et je ne farde guère,
D’ailleurs, nous n’avons point de machines de guerre;
Les chevaux sont rendus, les gens rassasiés;
Je trouve qu’il est temps que vous vous reposiez,
Et je dis qu’il faut être aussi fou que vous l’êtes
Pour attaquer ces tours avec des arbalètes.»

L’empereur répondit au duc avec bonté:
«Duc, tu ne m’as pas dit le nom de la cité.
—On peut bien oublier quelque chose à mon âge.
Mais, sire, ayez pitié de votre baronnage;
Nous voulons nos foyers, nos logis, nos amours.
C’est ne jouir jamais que conquérir toujours.
Nous venons d’attaquer bien des provinces, sire.
Et nous en avons pris de quoi doubler l’empire.
Ces assiégés riraient de vous du haut des tours.
Ils ont, pour recevoir sûrement des secours
Si quelque insensé vient heurter leurs citadelles,
Trois souterrains creusés par les turcs infidèles,
Et qui vont, le premier, dans le val de Bastan,
Le second, à Bordeaux, le dernier, chez Satan.»

L’empereur, souriant, reprit d’un air tranquille:
«Duc, tu ne m’as pas dit le nom de cette ville?
—C’est Narbonne. — Narbonne est belle, dit le roi,
Et je l’aurai; je n’ai jamais vu, sur ma foi,
Ces belles filles-là sans leur rire au passage,
Et me piquer un peu les doigts à leur corsage.»

Alors, voyant passer un comte de haut lieu,
Et qu’on appelait Dreus de Montdidier: «Pardieu!
Comte, ce bon duc Nayme expire de vieillesse!
Mais vous, ami, prenez Narbonne, et je vous laisse
Tout le pays d’ici jusques à Montpellier;
Car vous êtes le fils d’un gentil chevalier;
Votre oncle, que j’estime, était abbé de Chelles;
Vous même êtes vaillant; donc, beau sire, aux échelles!
Da 'LA LEGGENDA DEI SECOLI, dal 'Ciclo eroico cristiano' di V. HUGO
AMERIGHETTO
Nel frattempo (Carlomagno) avanza; dopo tre giorni
ha raggiunto la parte superiore degli alti Pirenei.
Lì, nello spazio immenso gli sembra di sognare:
in lontananza, e prima dell'entroterra, su una montagna
si vede una città molto fortificata,
circondata da mura con due torri a ogni porta.
A chi la vede così, dalla lontananza, essa esibisce
trenta torri principali con tetti di lamiera
e merli di forma saracena.
Nel centro c'é una bella torre dipinta di resine e pece
ancora non ben asciutte, perché davvero non la
si sarebbe potuta dipingere tutta in un solo giorno estivo.
I merli sono sigillati con piombo; ogni protezione
fà intravedere un arciere il cui occhio sempre vigila e misura;
Le sue bocche di lupo spaventano; sulla sua vetta rossa
riluce un diamante grosso come il sole,
che neanche da tre miglia può esser fissato.
A sinistra c'é il mare con grandi onde azzurre
che consentono ai veloci dromoni d'attraccarci.
Sui monti Carlo trasalisce alla vista di quelle torri.
“Naymes, duca di Baviera, mio saggio consigliere,
che città é questa vicino a questa costa?
Chi la tiene ben può considerarla unica sotto i cieli.
Ciò mi rende triste, mentre é il caso d'essere allegri,
perché sì – dovessi rimanere quattordici anni da queste parti -
o combattenti, arceri, compagni, capitani,
miei ragazzi! Miei leoni! Santo Denis mi sia testimone
che questa città sarà mia prima che io me ne allontani!”
Rabbrividisce il vecchio Naymes a queste parole
“Allora compratela, perché nessuno può assaltarla!
Per difendersi, oltre ai suoi cittadini,
ha ventimila saraceni protetti da doppia armatura.
Noi invece abbiamo sì trionfato
ma, al momento, i Vostri prodi non valgon più di femmine,
per quanto son stanchi e vogliosi di tornare a casetta loro.Io – che sono il più vecchio, sono il meno stanco,
Sire io parlo francamente, non ne faccio mistero,
inoltre noi non abbiamo macchine d'assedio
i cavalli son belli che andati, le genti sazie;
io penso che sia giunto il momento di riposarsi
e dico che bisognerebbe esser proprio folli come Voi
per attaccare queste torri con le nostre balestre!

L'imperatore rispose al duca bonariamente
“Duca, però tu non mi hai detto il nome della città.”
“Alla mia età, ci si può pure dimenticare di qualcosa.
Ma, Sire, abbiate pietà del Vostro seguito;
noi bramiamo i nostri palazzi, le nostre case, i nostri cari:
battagliare sempre significa non gioire mai
e noi giust'appunto ritorniamo dall'aver conquistato un mucchio di province per l'ampliamento dell'impero.
Questi assediati riderebbero di Voi dall'alto di queste torri:
per sicuramente ricevere soccorsi - se qualche insensato avesse preso di petto la fortezza – essi dispongono di
tre gallerie, scavate dagli infedeli saraceni,
e che arrivano la prima nella vallata di Bastan,
la seconda a Bordeaux, l'ultima fino a Satana!”
L'imperatore replicò sorridendo tranquillamente
“Ma nuovamente, Duca, mi avete taciuto il nome della città!”
“E' Narbona, Sire.” “Narbona é bella – disse il re -
ed io l'avrò; in fede mia io non ho mai visto bellezze
femminili senza rallegrarmene e lanciarmi
a ficcar le mani nei loro corsetti!
Allora, vedendo passare un altro paladino di rango elevato
e che si chiamava Dreus di Montdidier “Per Dio!
Conte, questo buon duca di Nayme se la fa sotto per vecchiaia!
Ma Voi, amico mio, prendete Narbona ed io
Vi lascerò tutte le terre da qui a Montpellier;
perché Voi siete figlio d'un amabile cavaliere
ed il vostro zio – ch'io molto stimo – era abate di Chelles;
Voi stesso siete famoso; dunque, bel sire, mano alle scale!
L’assaut! — Sire empereur, répondit Montdidier,
Je ne suis désormais bon qu’à congédier;
J’ai trop porté haubert, maillot, casque et salade;
j’ai besoin de mon lit, car je suis fort malade;
J’ai la fièvre; un ulcère aux jambes m’est venu;
Et voilà plus d’un an que je n’ai couché nu;
Gardez tout ce pays, car je n’en ai que faire.»

L’empereur ne montra ni trouble ni colère.
Il chercha du regard Hugo de Cotentin;
Ce seigneur était brave et comte palatin.
«Hugues, dit-il, je suis aise de vous apprendre
Que Narbonne est à vous; vous n’avez qu’à la prendre.»
Hugo de Cotentin salua l’empereur;
«Sire, c’est un manant heureux qu’un laboureur?
Le drôle gratte un peu la terre brune ou rouge,
Et, quand sa tâche est faite, il rentre dans son bouge.
Moi, j’ai vaincu Tryphon, Thessalus, Gaïffer;
Par le chaud, par le froid, je suis vêtu de fer;
Au point du jour, j’entends le clairon pour antienne;
Je n’ai plus à ma selle une boucle qui tienne;
Voilà longtemps que j’ai pour unique destin
De m’endormir fort tard pour m’éveiller matin,
De recevoir des coups pour vous et pour les vôtres.
Je suis très-fatigué. Donnez Narbonne à d’autres.»

Le roi laissa tomber sa tête sur son sein:
Chacun songeait, poussant du coude son voisin;
Pourtant Charle, appelant Richer de Normandie:
«Vous êtes grand seigneur et de race hardie,
Duc; ne voudrez-vous pas prendre Narbonne un peu?
—Empereur, je suis duc par la grâce de Dieu.
Ces aventures-là vont aux gens de fortune.
Quand on a ma duché, roi Charle, on n’en veut qu’une.»

L’empereur se tourna vers le comte de Gand:
«Tu mis jadis à bas Maugiron le brigand;
Le jour où tu naquis sur la plage marine,
L’audace avec le souffle entra dans ta poitrine:
Bavon, ta mère était de fort bonne maison;
Jamais on ne t’a fait choir que par trahison,
Ton âme après la chute était encor meilleure.
Je me rappellerai jusqu’à ma dernière heure
L’air joyeux qui parut dans ton œil hasardeux,
Un jour que nous étions en marche seuls tous deux,
Et que nous entendions dans les plaines voisines
Le cliquetis confus des lances sarrasines.
Le péril fut toujours de toi bien accueilli,
Comte; eh bien, prends Narbonne, et je t’en fais bailli!”

—Sire, dit le Gantois, je voudrais être en Flandre.
J’ai faim, mes gens ont faim; nous venons d’entreprendre
Une guerre à travers un pays endiablé;
Nous y mangions, au lieu de farine de blé,
Des rats et des souris, et, pour toutes ribotes,
Nous avons dévoré beaucoup de vieilles bottes.
Et puis votre soleil d’Espagne m’a hâlé
Tellement, que je suis tout noir et tout brûlé;
Et, quand je reviendrai de ce ciel insalubre
Dans ma ville de Gand avec ce front lugubre,
Ma femme, qui déjà peut-être a quelque amant,
Me prendra pour un maure et non pour un flamand!
J’ai hâte d’aller voir là-bas ce qui se passe.
Quand vous me donneriez, pour prendre cette place,
Tout l’or de Salomon et tout l’or de Pépin,
Non! je m’en vais en Flandre, où l’on mange du pain.

—Ces bons flamands, dit Charle, il faut que cela mange!»
Il reprit: «Ça, je suis stupide. Il est étrange
Que je cherche un preneur de ville, ayant ici
Mon vieil oiseau de proie, Eustache de Nancy.
Eustache, à moi! Tu vois, cette Narbonne est rude;
Elle a trente châteaux, trois fossés, et l’air prude;
À chaque porte un camp, et, pardieu! j’oubliais,
Là-bas, six grosses tours en pierre de liais.
Ces douves-là nous font parfois si grise mine
Qu’il faut recommencer à l’heure où l’on termine,
Et que, la ville prise, on échoue au donjon.

All'assalto!” “Sire imperatore – rispose Montdidier - ormai son solo da congedare;
per troppo tempo ho portato usberghi, maglie di ferro, elmi ed altri impicci, ora ho bisogno del mio letto essendo molto ammalato;
ho la febbre e mi é venuta un'ulcera alle gambe;
ed inoltre é più d'un anno che non ho potuto dormire nudo,
per controllare tutte 'ste terre di cui non so che farmene.”
L'imperatore non dimostrò né turbamento né collera.
Egli cercò con lo sguardo Ugo di Cotentin;
costui era bravo e conte palatino.
“Ugo – egli disse – sono lieto di comunicarti
che Narbona é tua; tu non l'hai che a prendere.”
Ugo di Cotentin salutò l'imperatore
“Sire, sarà un soldato felice come un aratore?
Qualunque briccone - che solca la terra bruna o rossa -
finito il suo solco, rientra nella sua tana.
Io ho invece già vinto Trifone, Tessalo e Gaiffer,
ma sia nel freddo che nel caldo son vestito di ferro,
in qualunque momento del giorno sento le trombe come ritornello
nella mia sella non ho più un attacco che tenga;
insomma da molto tempo non ho per destino
che d'andare a letto molto tardi per alzarmi di primo mattino,
di ricevere fendenti sia per Voi che per i vostri:
non ne posso più, date Narbona ad altri!”
Al re la testa cadde sul petto:
ciascuno si defilava affinché la patata bollente toccasse al suo vicino;
pertanto Carlo, chiamando Richer di Normandia
“Voi siete un gran signore e di razza ardita,
Duca, non vorreste Voi per caso prendere Narbona?”
“Imperatore, io son duca per grazia di Dio.
Queste avventure proponetele ai nullatenenti:
quando si ha il mio ducato, re Carlo, non si vuole che quello!”

L'imperatore si rivole al conte di Gand:
“Tu hai già abbattuto il brigante Maugiron;
quando nascesti, sulla spiaggia marina,
la brezza ti ficcò in petto l'audacia;
tua madre Bavon era di gran buona nascita;
nessuno ti ha mai potuto battere se non per tradimento,
perché dopo la caduta il tuo coraggio era ancora migliorato.
Un giorno che avanzavamo da soli
e che nella piana di fronte sentimmo
i battiti confusi dei lanceri saraceni,
mentre io raccomandavo a Dio la mia ultima ora,
nel tuo occhio azzardato apparve espressione gioiosa.
Il pericolo da te fu sempre ben accolto,
Conte allora prendi Narbona a te ne farò balivo!”

“Sire – disse il gandese – io vorrei essere in Fiandra.
Io ho fame, la mia truppa ha fame; noi usciamo da una guerra
intrapresa in un paese indiavolato;
Al posto della farina di grano noi ci siam dovuti mangiare
zoccole e sorci e, come se non bastasse,
abbiamo divorato pure un mucchio di vecchi stivali.
E poi il vostro sole di Spagna m'ha talmente rosolato
ch'io sono tutto nero e bruciato;
così quando con simile faccia scura ritornerò
in ambiente più salubre, nella mia città di Gand
mia moglie - che probabilmente si sarà già presa qualche amante -
mi prenderà per un moro e non più per un fiammingo!
Io ho proprio voglia d'andar a veder laggiù cosa succede:
anche se – per prender tale incarico – Voi mi donaste
tutto l'oro di Salomone più quello di Pepin,
no, io me ne tornerei in Fiandra, dove almeno si mangia pane!”
“Questi bravi fiamminghi – disse Carlo – allora che mangino!”
E continuo “Quanto sono stupido, é proprio strano
che io cerchi un conquistatore di città proprio qui
davanti al mio vecchio uccello predatore Eustachio da Nancy.
Eustachio a me! Tu vedi quanto tosta sia questa Narbona;
essa ha trenta castelli, tre fossati e l'aria inconquistabile;
nessun riparo davanti alle porte e, per Dio, io dimenticavo
laggiù quelle sei grosse torri in pietra alberese.
Quei fossati là ci fanno intendere
che bisognerà ricominciare nel momento in cui si termina,
perché, anche a città presa si può far cilecca sui torrioni.
Mais qu’importe! es-tu pas le grand aigle? — Un pigeon,
Un moineau, dit Eustache, un pinson dans la haie!
Roi, je me sauve au nid. Mes gens veulent leur paye;
Or, je n’ai pas le sou; sur ce, pas un garçon
Qui me fasse crédit d’un coup d’estramaçon;
Leurs yeux me donneront à peine une étincelle
Par sequin qu’ils verront sortir de l’escarcelle.
Tas de gueux! Quant à moi, je suis très-ennuyé:
Mon vieux poing tout sanglant n’est jamais essuyé;
Je suis moulu. Car, sire, on s’échine à la guerre;
On arrive à haïr ce qu’on aimait naguère,
Le danger qu’on voyait tout rose, on le voit noir;
On s’use, on se disloque, on finit par avoir
La goutte aux reins, l’entorse aux pieds, aux mains l’ampoule,
Si bien, qu’étant parti vautour, on revient poule.
Je désire un bonnet de nuit. Foin du cimier!
J’ai tant de gloire, ô roi, que j’aspire au fumier.»

Le bon cheval du roi frappait du pied la terre
Comme s’il comprenait; sur le mont solitaire
Les nuages passaient. Gérard de Roussillon
Était à quelques pas avec son bataillon;
Charlemagne en riant vint à lui. «Vaillant homme,
Vous êtes dur et fort comme un Romain de Rome;
Vous empoignez le pieu sans regarder aux clous;
Gentilhomme de bien, cette ville est à vous!»

Gérard de Roussillon regarda d’un air sombre
Son vieux gilet de fer rouillé, le petit nombre
De ses soldats marchant tristement devant eux,
Sa bannière trouée et son cheval boiteux.
«Tu rêves, dit le roi, comme un clerc en Sorbonne.
Faut-il donc tant songer pour accepter Narbonne?
—Roi, dit Gérard, merci, j’ai des terres ailleurs.»

Voilà comme parlaient tous ces fiers batailleurs
Pendant que les torrents mugissaient sous les chênes.
L’empereur fit le tour de tous ses capitaines;
Il appela les plus hardis, les plus fougueux,
Eudes, roi de Bourgogne, Albert de Périgueux,
Samo, que la légende aujourd’hui divinise,
Garin, qui, se trouvant un beau jour à Venise,
Emporta sur son dos le lion de Saint-Marc,
Ernaut de Beauléande, Ogier de Danemark,
Roger enfin, grande âme au péril toujours prête.

Ils refusèrent tous. Alors, levant la tête,
Se dressant tout debout sur ses grands étriers,
Tirant sa large épée aux éclairs meurtriers,
Avec un âpre accent plein de sourdes huées,
Pâle, effrayant, pareil à l’aigle des nuées,
Terrassant du regard son camp épouvanté,
L’invincible empereur s’écria: «Lâcheté!
Ô comtes palatins tombés dans ces vallées,
Ô géants qu’on voyait debout dans les mêlées,
Devant qui Satan même aurait crié merci,
Olivier et Roland, que n’êtes-vous ici!
Si vous étiez vivants, vous prendriez Narbonne,
Paladins! vous, du moins, votre épée était bonne!
Votre cœur était haut, vous ne marchandiez pas!
Vous alliez en avant sans compter tous vos pas!
Ô compagnons couchés dans la tombe profonde,
Si vous étiez vivants, nous prendrions le monde!
Grand Dieu! que voulez-vous que je fasse à présent?
Mes yeux cherchent en vain un brave au cœur puissant,
Et vont, tout effrayés de nos immenses tâches,
De ceux-là qui sont morts à ceux-ci qui sont lâches!
Je ne sais point comment on porte des affronts!
Je les jette à mes pieds, je n’en veux pas! — Barons,
Vous qui m’avez suivi jusqu’à cette montagne,
Normands, Lorrains, marquis des marches d’Allemagne,
Poitevins, Bourguignons, gens du pays Pisan,
Bretons, Picards, Flamands, Français, allez-vous-en!
Guerriers, allez-vous-en d’auprès de ma personne,
Des camps où l’on entend mon noir clairon qui sonne,
Rentrez dans vos logis, allez-vous-en chez vous,
Allez-vous-en d’ici, car je vous chasse tous!

Ma che importa? Non sei tu la grande aquila?” “Un piccione,
Un passerotto – disse Eustachio – un fringuello nella siepe!
Re, io mi salvo nel nido perché la mia truppa vuol la paga,
mentre io non ho più un soldo talché nessun fante
mi farà credito d'un altro colpo di spadone;
dai loro occhi potrò ottenere attenzione giusto
per ogni zecchino d'oro che mi vedranno trarre dalla scarsella.
Massa d'accattoni! Quant'a me io sono molto annoiato:
il mio vecchio pugno sanguinante non é riuscito mai ad asciugarsi;
io sono affaticatissimo perché, sire, ci s'adatta alla guerra
ma poi si arriva ad odiare quello che dapprima s'amava,
vedendo nere le complicazioni che si vedevano rosee;
ci si consuma, ci si sposta, finendo per avere
la gotta alle reni, la distorsione ai piedi, le vesciche alle mani,
e così tanti acciacchi che – partiti avvoltoi – si diventa polli.
Io desidero una berretta da notte, non più un cimiero!
Ho già così tanta gloria, sire, ch'ormai aspiro tornare al letame!
Il buon cavallo del re batteva coi zoccoli il suolo
come se comprendesse; sul monte solitario
passavano le nuvole. Gerardo di Roussillon
era poco distante col suo battaglione;
Carlomagno ridendo gli si avvicinò “Valent'uomo
Voi siete duro e forte come gli antichi romani;
Voi impugnate i pali senza badare ai chiodi,
gentiluomo impagabile, questa città é per Voi!”
Gerardo di Rossillon guardò con aria triste
la sua cotta di ferro arrugginita, l'esiguo numero
dei suoi soldati, che marciavano tristemente davanti a lui
il suo liso stendardo ed il suo cavallo azzoppato.
“Tu esiti – disse il re – come nella Sorbona uno studente all'esame;
é davvero necessaria così tanta esitazione per accettare Narbona?”
“Mio re – disse Gerardo – grazie, ma ho possedimenti altrove!”
Ecco come parlavano questi già fieri combattenti
mentre i torrenti muggivano tra le querce.
L'imperatore fece il giro di tutti i suoi comandanti
chiamando i più arditi, i più focosi,
Eudes, re di Borgogna, Alberto da Périgueux,
Samo, che l'attuale leggenda divinizza,
Garin che, trovandosi in quel tempo a Venezia,
si mise sulle spalle il leone di San Marco,
Ernaut da Beauléande, Ogieri di Danimarca,
Ruggero infine, anima grande e sempre pronta al pericolo.
Ma tutti rifiutarono. Allora, sollevando la testa,
drizzandosi tutto in piedi sulle sue grandi staffe,
estraendo la sua larga spada dai riflessi mortiferi,
con accenti aspri pieni di tacita contrarietà,
pallido, spaventoso, simile a l'aquila dei nembi,
atterrendo con lo sguardo il suo accampamento sgomento,
L'invincibile imperatore gridò “Codardia!
Oh conti palatini caduti in queste vallate
Oh giganti visti sempre in piedi nelle mischie,
davanti cui anche Satana si sarebbe arreso,
Oliviero, Orlando, perché Voi non siete più qui!?
Se Voi foste vivi, voi prendereste Narbona,
Paladini! Voi almeno, e le vostre spade, eravate buoni!
Elevati erano i vostri cuori, voi non avreste mercanteggiato!
Voi avanzereste senza mettervi a contare i vostri passi!
Oh compagni addormentati in tombe profonde
se Voi foste ancora vivi, noi prenderemmo il mondo!
Grandio, che vuoi che faccia attualmente?
I miei occhi cercano invano un prode dal cuore possente
- profondamente spaventati dal loro immenso compito – andando
da quelli che son morti a quelli che son disfatti!
Io non riesco a capire come mi si arrechino questi affronti!
Io li getto ai miei piedi, non ne voglio più! Baroni,
voi che mi avete seguito sino a questa montagna,
normanni, lorenesi, marchese dei mercati tedeschi,
cittadini di Poitiers, Borgognoni, genti del paese pisano,
Brettoni, Picardi, Fiamminghi, Francesi, tornatevene a casa!
Guerrieri, sparite dal mio intorno,
verso là dove non si senta il suono dei miei corni,
tornate ai vostri alloggi, a casa vostra,
ma smammate da qui, ch'io vi scaccio tutti!

Je ne veux plus de vous! Retournez chez vos femmes!
Allez vivre cachés, prudents, contents, infâmes!
C’est ainsi qu’on arrive à l’âge d’un aïeul.
Pour moi, j’assiégerai Narbonne à moi tout seul.
Je reste ici, rempli de joie et d’espérance!
Et, quand vous serez tous dans notre douce France,
Ô vainqueurs des Saxons et des Aragonais!
Quand vous vous chaufferez les pieds à vos chenets,
Tournant le dos aux jours de guerres et d’alarmes,
Si l’on vous dit, songeant à tous vos grands faits d’armes
Qui remplirent longtemps la terre de terreur:
«Mais où donc avez-vous quitté votre empereur?»
Vous répondrez, baissant les yeux vers la muraille:
«Nous nous sommes enfuis le jour d’une bataille,
Si vite et si tremblants et d’un pas si pressé
Que nous ne savons plus où nous l’avons laissé!»
Ainsi Charles de France appelé Charlemagne,
Exarque de Ravenne, empereur d’Allemagne,
Parlait dans la montagne avec sa grande voix;
Et les pâtres lointains, épars au fond des bois,
Croyaient en l’entendant que c’était le tonnerre.
Les barons consternés fixaient leurs yeux à terre.
Soudain, comme chacun demeurait interdit,
Un jeune homme bien fait sortit des rangs, et dit:
«Que monsieur saint Denis garde le roi de France!»
L’empereur fut surpris de ce ton d’assurance,
Il regarda celui qui s’avançait, et vit,
Comme le roi Saül lorsque apparut David,
Une espèce d’enfant au teint rose, aux mains blanches,
Que d’abord les soudards dont l’estoc bat les hanches
Prirent pour une fille habillée en garçon,
Doux, frêle, confiant, serein, sans écusson
Et sans panache, ayant, sous ses habits de serge,
L’air grave d’un gendarme et l’air froid d’une vierge.
«Toi, que veux-tu, dit Charle, et qu’est-ce qui t’émeut?
—Je viens vous demander ce dont pas un ne veut:
L’honneur d’être, ô mon roi, si Dieu ne m’abandonne,
L’homme dont on dira «C’est lui qui prit Narbonne.»
L’enfant parlait ainsi d’un air de loyauté,
Regardant tout le monde avec simplicité.

Le Gantois, dont le front se relevait très vite,
Se mit à rire et dit aux reîtres de sa suite:
«E'! c’est Aymerillot, le petit compagnon!”
“Aymerillot - reprit le roi - dis-nous ton nom.
“Aymery. Je suis pauvre autant qu’un pauvre moine;
J’ai vingt ans, je n’ai point de paille et point d’avoine,
Je sais lire en latin, et je suis bachelier.
Voilà tout, sire. Il plut au sort de m’oublier
Lorsqu’il distribua les fiefs héréditaires.
Deux liards couvriraient fort bien toutes mes terres,
Mais tout le grand ciel bleu n’emplirait pas mon cœur.
J’entrerai dans Narbonne et je serai vainqueur;
Après, je châtierai les railleurs, s’il en reste.

Charles, plus rayonnant que l’archange céleste,
S’écria: «Tu seras, pour ce propos hautain,
Aymery de Narbonne et comte palatin,
Et l’on te parlera d’une façon civile.
Va, fils!» Le lendemain Aymery prit la ville.








Non ne posso più di voi! Ritornate dalle vostre mogli!
Andatevene a vivere nascosti, prudenti, contenti, infami|
Eì così che si arriva all'età dei nonni.
Per quanto mi riguarda, io assedierò Narbona anche da solo:
Io resto qui, pieno di gioia e di speranza!
E, quando Voi sarete tutti tornati nella nostra dolce Francia,
Oh vincitori dei Sassoni e degli Aragonesi,
quando Vi scalderete i piedi presso i vostri caminetti,
obliandovi i giorni della guerra e degli allarmi,
se qualcuno vi chiederà, ricordando tutte le vostre imprese belliche,
- che lungamente riempirono la terra di spavento -
“Ma dove avete lasciato il vostro imperatore?”
voi risponderete chinando gli occhi al pavimento
“Noi ce ne siamo fuggiti in giorno di battaglia,
così lesti, tremanti e di corsa
da non più sapere dove l'abbiamo abbandonato.”
Così Carlo di Francia, detto Carlomagno
esarca di Ravenna, imperatore di Germania,
parlava in quella montagna con tal gran voce
che i pastori lontani, sparsi in fondo ai boschi,
ascoltandolo, credettero trattarsi di tuoni:
I paladini, costernati, abbassarono gli sguardi a terra.
Improvvisamente, mentre ognuno permaneva interdetto
un gran bel giovanetto uscì dai ranghi e disse
“Che san Denis protegga il re di Francia!”
L'imperatore sbigottì per tutta quella sicurezza
e studiò colui che s'avanzava: come il re Saul
all'apparire di Davide, vide una specie di ragazzo
dalla pelle rosea e dalle mani bianche, che a prima vista
i mercenari, cui il pugnale batte sull'anca,
presero per una ragazza vestita da maschio,
dolce, fragile, fiducioso, sereno, senza distintivi
né pennacchi, che – coi suoi abiti di velluto – aveva
l'aspetto grave d'un gendarme nell'aria fredda d'una vergine.
“Che vuoi tu – disse Carlo – e cosa ti smuove?”
“Io vengo a domandare ciò che nessuno sembra volere:
l'onore d'essere, o mio re, - se Dio non m' abbandona -
l'uomo di cui si dirà “E' colui che prese Narbona!””
Il ragazzo parlava così, con aria leale,
riguardando gli astanti con semplicità.
Il gandese, che rialzò ben presto la fronte,
si mise a ridere e disse al resto della compagnia
“Alè! E' l'Ameriguccio, il giovane paggio!”
“Ameriguccio – riprese il re – dicci il tuo nome, qualificati.”
“Amerigo e son povero quanto un povero monaco;
ho vent'anni ma non paglia né avena,
conosco il latino perché son laureato.
Questo é tutto, Sire, piacque alla sorte di dimenticarmi
quando furono distribuiti i cespiti ereditari.
Per coprire le mie terre bastan due soldi
ma neanche tutto l'immenso cielo potrebbe riempire il mio cuore.
Io penetrerò in Narbona e, se ne sarò vincitore,
subito dopo castigherò i criticoni, se ce ne saranno ancora.
Carlo, ragionando meglio d'un arcangelo celeste
gridò “Per così elevato proposito tu sarai
Amerigo di Narbona e conte palatino
e di te non si potrà parlare che con rispetto:
va, figlio mio!”....L'indomani Amerigo prese la città.
27 giugno 2016 12:10 - lucillafiaccola1796
rodotà? è un guardiano dei cancelli, uno di quelli che occupano sia il campo del demiurgo d'io degli eserciti che quello di Lucifero, anzi di $atana, per cuccarsi sia i "buoni" che i "cattivi" ma entrambi "fessi, anzi feSSSSSSSimi. Roba vecchia per crederci. Ora er treccartaro baro si vuole cuccare MPS insieme ai Risparmi dei Consumatori!!!!
Ma male gliene incoglierà! Noi non siamo in banca etruria! Sta sul pazzo a Tutti e l'odio sta montando, becare swindler cardsharper!
27 giugno 2016 9:25 - Annapaola Laldi
Segnalo qui un'intervista molto interessante a Rodotà ("La Stampa" di oggi, 27 giugno) sull'uso distorto degli strumenti democratici quale il referendum. Chi non è ottenebrato dall'odio viscerale per qualcosa o qualcuno può trarne qualche utile spunto di riflessione:
http://www.lastampa.it/2016/06/27/italia/politica/rodot-quan do-i-referendum-diventano-un-boomerang-JuXpMSRHAkJH5mE0mawMr L/pagina.html
25 giugno 2016 17:30 - lucillafiaccola1796
la superbia dei vecchi ha vinto, anche se la GB non era certo la Grecia...prendevano i privilegi e buttavano i doveri..anzi, non li avevano proprio i doveri. La superbia a volte è molto utile al “prossimo": Stavolta il prossimo siamo Noi...popolo Greco, Italiano, Spagnolo, Noi, insomma, la base della Piramide...senza cui nulla può esistere. Il casinò dei biscazzieri bari è in crisi e Noi ne gioiamo. I grandi satanmassonici gli scudorosso che possiedono sia i servi padroni che i padroni, infine, hanno dimostrato che malgrado gli assassini veri e falsi compiuti per indirizzare la "plebe" smart-i-phoniana navigano senza bussola. Addirittura stanno facendo raccogliere le firme per far rimangiare la superbia ai vecchi ed incetriolare ulteriormente i giovani della tecnologia facebookkara e twittara con un nuovo referendum, perché l'uno a zero della partita non è di loro gradimento. Non è importante se si vince la partita 1 a 0 o 5 a 1...vince chi fa un gol in più...una cozzata all'italiana, dove quando vinci un referendum gli sgoverni se ne fregano e fanno fare come pazzo gli pare al dittatorello $fascista pro termpore di turno... Dove il pro tempore ti rovina in 4&4 otto...o forse in 4&4 sette. Non avevo pensato all'irlanda del nord, ma a scozia e galles... Que reste-t-il de nos amours Que reste-t-il de ces beaux jours Une photo, vieille photo De ma jeunesse Que reste-t-il des billets doux Des mois d'avril, des rendez-vous Un souvenir qui me poursuit Sans cesse…eccetera
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