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Dove sono finiti tutti i soldi 'stampati' dalle banche centrali del mondo?
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Editoriale di Alessandro Pedone
2 aprile 2014 18:02
 
  In Italia, in Europa, ma un po' in tutti i Paesi occidentali, l'inflazione è bassa. In Italia ed in Europa e molto bassa e corriamo quasi il rischio di deflazione.
Eppure, secondo l'opinione comune, immettere tanti soldi nell'economia provocherebbe inflazione. Sappiamo che, a partire dal 2008, le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso nei mercati una quantità senza precedenti di moneta, ma questo non ha prodotto un aumento sensibile dei prezzi dei beni e servizi ed in alcuni casi – come in Europa – abbiamo assistito ad una notevole diminuzione dell'inflazione (anche perché la BCE ha immesso sì liquidità ma “sterilizzandola”).
Perché accade questo?
Una risposta esauriente sarebbe troppo complessa per gli scopi di questo sito, ma accenniamo alla sostanza. In primo luogo bisognerebbe evidenziare che non esiste un collegamento diretto tra immissione di moneta ed aumento dei prezzi (come si pensa in Germania dove il terrore dell'inflazione è più qualcosa che dovrebbero indagare gli psicologi che non gli economisti) perché una variabile chiave per l'aumento dei prezzi è il pieno utilizzo dei fattori di produzione. L'immissione di denaro del sistema rischia di creare inflazione solo quando c'è un pieno utilizzo dei fattori di produzione. In un contesto di forte disoccupazione e forte sotto utilizzo dei fattori di produzione come c'è oggi in Italia (ed in buona parte dell'Europa), quand'anche il denaro circolasse realmente, nell'economia non rischierebbe affatto di creare inflazione. Creerebbe, bensì, occupazione. Poi, alla lunga, una volta tornati al pieno utilizzo dei fattori produttivi si potrebbe parlare di rischio inflazione.
Ma il problema principale è che solo in piccolissima parte di questa moneta è stata usata nell'economia reale. Per la massima parte è stata impiegata in finanza ed è qui che ha creato una forte inflazione, una inflazione dei prezzi degli strumenti finanziari.
 
Oggi viviamo un mercato finanziario dove le principali attività sono molto costose. Le obbligazioni hanno ormai rendimenti che si possono definire ridicoli. Mi riferisco, in particolare, ai rendimenti delle obbligazioni aziendali, ma tutto il comparto obbligazionario ha rendimenti bassissimi (e quindi prezzi molto alti).
Anche i prezzi delle azioni sono cresciuti moltissimo dal 2009, sebbene la valutazione del “corretto” prezzo delle azioni sia una questione complessa che lascia spazio a molte interpretazioni.
Certamente possiamo constatare che le azioni, ormai, salgono da molti anni e che – almeno dal punto di vista statistico – ogni mese che passa è sempre più probabile che avvenga una correzione. Nella valutazione del prezzo delle azioni può influire anche il rendimento del mercato obbligazionario (ovviamente dipende dal metodo che si utilizza, ma normalmente incide). Se quest'ultimo è eccezionalmente basso, anche la valutazione dell'azionario può esserne influenzata e si può quindi giudicare non eccessivo qualcosa che invece sarebbe valutato eccessivo sei i rendimenti obbligazionari fossero “normali”.
 
Un dato è incontestabile: negli ultimi anni le banche centrali mondiali hanno immesso nel sistema economico una quantità enorme di liquidità che solo in piccolissima parte è finita nell'economia reale ed in massima parte è servita ad acquistare strumenti finanziari e questo ha indubbiamente fatto lievitare i prezzi.
Il risultato è che oggi come oggi sul mercato finanziario ci sono molti più rischi che rendimenti attesi.
In questi contesti, solitamente, gli investitori tendono ad aumentare la loro propensione al rischio. E' esattamente l'errore che vorremo cercare di scongiurare per i nostri lettori.
E' proprio in questi momenti che si creano le condizioni per subire forti perdite finanziarie.
Dal momento che i titoli di stato “non rendono più nulla”, allora si gli intermediari finanziari tendono a offrire le proposte più assurde e gli investitori tendono più facilmente ad accettarle (quando non a sollecitarle). 
Queste sono le fasi nelle quali bisogna accettare rendimenti bassissimi allo scopo di preservarci da potenziali rischi di perdite future che oggi sono particolarmente elevati sia nel settore obbligazionario che nel settore azionario. 
 
 
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