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FAR FESTA O ...... FARE LA FESTA?
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
15 dicembre 2000 0:00
 
E' possibile a noi umani far festa senza fare la festa a qualcuno?
Se ci si pensa bene, sembra di no. E a farne le spese sono sempre in prima battuta gli animali (ma a volte, sia pure per disgrazia, anche le persone. Esempio ne siano gli esiti a volte tragici della mania dei botti e degli spari per Capodanno).
Quasi tutti i nostri momenti di festa -privata o pubblica- sono infatti scanditi da esperienze ed esempi di sfruttamento totale degli animali.
E' Natale e giu' una strage di capponi e tacchini. E' Pasqua e giu' un'altra strage, questa volta di agnelli.
Vogliamo creare un'occasione di incontro in pubblico per stare insieme uscendo dalle nostre case, ed ecco uno dei tanti palii, o prove di forza, in cui di solito sono coinvolti obbligatoriamente gli animali, non importa se cavalli, giovenchi o muli.
C'e' da ricordare la fine di un incubo -il buio dell'inverno, una pestilenza, o che so io- e giu' botte (non metaforiche) a un qualche malcapitato gallo scambiato magari, secoli fa, per il demonio.
Cavalli lanciati a folle velocita' su percorsi assassini; giovenchi, asini e muli costretti, contro la loro indole, a suon di nerbate a correre, a volte trascinando pesantissimi carri; papere vive appese per le zampe, con un sasso in bocca e il becco legato col fil di ferro, a cui valenti e coraggiosi uomini dovranno staccare la testa. Galli sotterrati vivi con la testa e le ali fuori della fossa a cui altri coraggiosi uomini e, questa volta, anche innocenti bambini dovranno staccare la testa........ Ce n'e' per tutti in questa galleria degli orrori che si puo' trovare sul sito della , dove sono riportati anche interessanti stralci di un convegno sulle tradizioni (sotto vari aspetti, anche quello psicologico) che invito ad andare a leggere.

Ma davvero, per far festa, abbiamo bisogno che qualcuno soffra?
Non e' venuto il momento per dire serenamente di no? Per vedere con tranquillita', magari con affetto a quel passato in cui queste usanze sono nate, e interrogarle per sapere che cosa ci vogliono e possono dire -chissa'- sulla tremenda precarieta' della vita dei nostri antenati, del loro rapporto con la natura (e quindi con gli animali, da cui in gran parte doveva dipendere la loro vita), che forse non era neppure allora cosi' idilliaco come vogliamo credere oggi. O su quel miscuglio di religione e superstizione che ne' l'Illuminismo ne' il Positivismo hanno dissolto come ci piacerebbe pensare (e non lo fara' neppure l'Internettismo, se e' per questo). Non ci potremmo chiedere con serieta' che cosa cerchiamo davvero nel riproporre queste antiche usanze? E se questa riproposizione risponde davvero a esigenze attuali profonde, che non siano esclusivamente quelle di cassetta? E, ancora, se non ci sia un modo piu' originale di celebrare le ricorrenze?

Questi interrogativi e considerazioni mi paiono logici e ragionevoli. Interrogativi da porsi, in sincerita' e onesta' intellettuale: la risposta verra'.
Il problema, pero', potrebbe non limitarsi a questo.
Non ho dubbi che nelle usanze a cui ho accennato sopra ci sia un abuso che arriva alla crudelta', con l'aggravante della totale gratuita' della cosa, nel senso che non vi e' alcuna necessita' di sopravvivenza fisica dell'essere umano che giustifichi tali atti. Ma ho anche l'impressione che ci sia qualcosa di piu', e che sarebbe forse riduttivo limitare tutto a una questione di sensibilita' personale : da una parte le persone crudeli, che reputano comunque giusto o insignificante infierire su esseri indifesi e dall'altra le persone sensibili che soffrono per la sofferenza inflitta a questi stessi esseri.

Il fatto e' che probabilmente questo aspetto cruento e crudele di alcune feste rivela una realta' insospettata ai piu': alla radice della festa (anche della festa che sembra piu' pacifica) ci sarebbe la violenza. Questo spunto l'ho trovato leggendo "La violenza e il sacro" di Andre' Girard (Adelphi, Milano 1980). Sulla base dei miti e delle tragedie dell'antichita' classica e delle descrizioni dei costumi di tribu' "primitive" fatte da etnologi, l'autore mette in evidenza che, quando una societa' si trova dilaniata da lotte e vendette, ad un certo punto, prima che avvenga la disgregazione totale, tutta quella violenza viene appuntata su un unico oggetto (che puo' essere una persona o un animale), e in questo modo i contendenti ritrovano per un momento l'unanimita' perduta e la crisi viene temporaneamente risolta. Questa violenza riscattatrice puo' manifestarsi apertamente, come nel caso del sacrificio cruento umano o animale, ma puo' anche "velarsi", appunto, ed assumere le sembianze di una festa (detto per inciso, secondo Girard anche le nostre vacanze possono essere una mascheratura di questa violenza).
Tutto cio' sarebbe un retaggio primordiale dell'umanita' e quindi qualcosa di piu' inquietante e serio di un semplice dato psicologico o sociale.
Applicando l'osservazione appena riferita, mi sembra oltretutto evidente che, nelle feste popolari in cui e' prevista l'uccisione dell'animale, si puo' parlare di un vero e proprio rituale di sacrificio (qualunque siano le giustificazioni storiche che se ne danno).
Detto questo, adesso mi pare che la domanda iniziale -"possiamo far festa senza fare la festa a qualcuno?- abbia un'eco ancora piu' grave.
Significa allora, per esempio: possiamo andare a vedere dentro di noi la sopravvivenza della primordialita' e osservarla senza infingimenti, ma anche senza paura? Possiamo, con gli strumenti intellettuali, psicologici e morali che oggi sono piu' a disposizione di tutti rispetto al passato, acquisire la consapevolezza della violenza che ciascuno ha dentro di se' e renderci conto che tutti i tentativi per eluderla o illuderla con proiezioni e sostituzioni sono destinati a fallire, e guardare quindi con uno sguardo rinnovato, piu' limpido, noi stessi e chi ci sta intorno, esseri umani o animali, o piante, o sassi o nuvole che siano? Possiamo fare davvero il passo avanti decisivo verso un'umanita' piu' umana? Cioe', come gia' in un passato remoto si passo' dai sacrifici umani a quelli animali, si potrebbe oggi eliminare del tutto anche ogni usanza che comporti la sofferenza e la morte degli animali (e quindi, oggettivamente, il loro sacrificio) e passare a un modo diverso di far festa? Possiamo cercare, almeno, di non creare sofferenza inutile e gratuita? Non potrebbe questo passo renderci piu' "umani" anche verso gli altri esseri umani?

Mi piace concludere con due storie.
La prima vuole narrare come possono nascere le tradizioni: la cito a memoria perche' non ricordo piu' dove l'ho letta.
C'era, in Oriente, forse in India, un Maestro che viveva insieme ad alcuni discepoli. La vita del gruppetto era scandita dal lavoro e dalla meditazione in comune. Il Maestro aveva un gatto, e, come si sa, i gatti sono indipendenti: dormono e riposano quando pare a loro, ed esplorano il mondo o chiedono carezze quando ne hanno voglia. Cosi' succedeva che, quando il piccolo gruppo si riuniva per la meditazione, era proprio il momento che il gatto cominciava ad andare avanti e indietro fra i meditanti, strusciandosi ora all'uno ora all'altro e ronfando per attirare l'attenzione.
"Cosi' non e' possibile", disse il maestro e ordino' che, quando cominciava l'ora della meditazione, il gatto fosse legato a un albero poco distante.
Passo' del tempo, il gruppo intorno a quel Maestro si ingrosso', perche' egli aveva fama di grande saggio, fu necessario costruire dei ripari piu' grandi, e poi anche un luogo adatto per accogliere la folla di curiosi e devoti che veniva dai villaggi e dalla citta'.
Dopo altro tempo il Maestro mori' e di li' a poco mori' anche il gatto.
E allora i monaci (perche' a questo punto i discepoli si erano strutturati in un vero e proprio monastero) si precipitarono a cercare un altro gatto, perche' senza un gatto legato all'ingresso del tempio non era possibile cominciare la meditazione.
Ed ecco la seconda, che riassumo dal libro di Eugen Drewermann, "E imponeva loro le mani", (Queriniana, Brescia 2000, p.216). Questo teologo racconta la leggenda di San Biagio, un vescovo del III secolo , il quale, per sfuggire all'odio dei suoi persecutori, si ritiro' in una foresta. Li' divento' amico degli animali, comincio' a capire il loro linguaggio e se ne guadagno' la fiducia al punto che le bestie ferite andavano da lui a farsi curare e quelle inseguite dai cacciatori cercavano rifugio presso di lui. Si narra che un giorno i cacciatori del principe, inseguendo gli animali, arrivarono fino al dormitorio di Biagio e, sconcertati e stupiti a vedere tutti gli animali raccolti intorno a quest'uomo, si ritirarono in buon ordine. Il miracolo per cui Biagio e' diventato famoso (e la chiesa cattolica lo festeggia il 3 febbraio), e' quello di aver restituito la capacita' di respirare a un bambino che soffocava per una lisca di pesce che gli era rimasta conficcata in gola, e viene spiegata proprio col fatto che quest'uomo aveva una tale amicizia e comprensione verso gli animali, che continuavano a obbedirgli anche da morti. L'autore conclude osservando che qui siamo di fronte all'unico caso in cui il messaggio del cristianesimo invita gli esseri umani a comportarsi da fratelli e sorelle non solo fra di loro, ma anche con tutto cio' che vive, senza trovare limiti nei confronti della pena e del bisogno di tutte, proprio tutte le creature.
 
 
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