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INFERNO E PARADISO
OVVERO: L'IMPORTANZA DI CORRISPONDERE ALLA VITA
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 marzo 2004 0:00
 
La stessa amica, che tre anni fa mi fece conoscere la poesia, che usai per "Il viaggio e la dimora" (clicca qui), mi porge, questa volta, un raccontino (vedi allegato in fondo alla pagina) che mi e' parso simpatico e che mi ha consentito di riprendere un'idea che se ne stava li', buona buona, da qualche tempo.
Per brevita', lo riassumo.
C'e' un valoroso samurai che, quando muore, viene destinato al paradiso. E' un tipo curioso, e chiede -e ottiene- di dare un'occhiata anche all'inferno. Si trova, cosi', in una vastissima sala, in cui c'e' una tavola imbandita con ogni genere di cibi succulenti, ma intorno alla tavola sono sedute persone scheletrite e tristi da far pena. "Ma com'e' possibile", chiede il samurai alla guida che l'accompagna, "se hanno davanti a se' tutto questo appetitosissimo cibo?". La sua guida gli fa notare un particolare. Per prendere il cibo ogni commensale ha un paio di bastoncini che pero' sono parecchio piu' lunghi del normale e che devono essere impugnati rigorosamente all'estremita'. In tal modo, per quanti sforzi disperati uno faccia, e' impossibile portarsi il cibo alla bocca. Il samurai non vuole vedere altro, e si fa portare in paradiso.
Grande e' il suo stupore quando si trova in una sala uguale in tutto e per tutto a quella dell'inferno: c'e' la stessa tavola riccamente imbandita e i commensali sono dotati delle medesime bacchette fuori misura dell'inferno. Ma queste persone sono tutte allegre e ben pasciute. "Osserva bene", risponde la guida allo sguardo interrogativo del samurai; e allora lui si rende conto che i commensali non tentano di portare alla propria bocca il cibo preso con le lunghe bacchette, ma lo porgono al loro vicino di mensa, divertendosi, evidentemente, anche molto con questa operazione...
Come dire: essere privi di fantasia e di duttilita' mentale, persistere nel solco di un'abitudine che non serve piu' allo scopo porta a condurre una vita grama, essere capaci di uscire dagli schemi consueti e rispondere alla necessita' del presente puo' far diventare la vita bella davvero. Oggettivamente la situazione e la dotazione sono identiche; la differenza sta nella individualita', cioe' come l'individuo affronta l'una e usa l'altra.

Inferno e paradiso. E la "Divina Commedia" fa subito capolino. Perche', almeno in un caso, vi e' in essa qualcosa di simile al racconto appena citato; e cioe' il suggerimento che il destino della persona non stia tanto nelle situazioni che si trova a vivere quanto piuttosto nel modo in cui ella si pone di fronte ad esse. Di piu' ancora, nel modo in cui si pone di fronte a se stessa. In pratica, se e' unita con se stessa, oppure disunita, alienata, si potrebbe dire, da se stessa.

I personaggi che si prestano a questa osservazione sono due donne: Francesca da Rimini, la protagonista del quinto canto dell'"Inferno", quello dei "lussuriosi", e Cunizza da Romano, che Dante Alighieri incontra nel nono canto del "Paradiso", quello delle "anime amanti". Nonostante si trovino, per cosI' dire, agli antipodi -una dannata, l'altra beata- le due donne hanno molto in comune. Tutte e due, infatti, sono poste in un settore dei rispettivi regni che sta sotto l'influsso del pianeta Venere, vale a dire che tutte e due queste donne sono state segnate, nella loro vita terrena, da quella cosa che chiamiamo "amore". Amore umano, si badi bene, per tutte e due, amore fatto di fisicita', co-involto nella carne da cui l'essere umano, del resto, anche volendo, non puo' prescindere.
Ma c'e' di piu', e questo di piu' ha dello scandaloso, perche', come bene osserva, Maria Soresina (alla quale sono molto grata e debitrice per il suo appassionante libro "Le segrete cose"), Francesca da Rimini e' condannata alla pena eterna per aver avuto un solo amante -uno solo-, al quale, oltretutto, non ha dato che un bacio -uno solo-, mentre Cunizza da Romano era una donna molto chiacchierata, che un cronista (Lana) cosi' descrive: "era de tanta larghezza in lo so amore che avrebbe tenuto grande villania a porsi a negarlo a chi cortesemente gliel'avesse domandato". Si', va bene, in gioventu' "ha corso la cavallina", si potrebbe dire, ma poi si sara' pentita e avra' rivolto il suo amore a Dio.. In effetti, e' questa l'interpretazione che va per la maggiore nei commenti. Ma e' un'illazione. Perche' a questa "anima amante" del "cielo di Venere", Dante non fa dire una parola -una sola- che prenda le distanze da quella che e' stata la sua movimentata vita terrena; anzi, al contrario, Cunizza la riconosce e vi si riconosce in pieno, pur concludendo, con un magistrale tocco di ironia, che tutto cio' puo' riuscire di difficile digestione alla gente:

"Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perche' mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo"
(Paradiso, IX,32-36).
(Fui chiamata Cunizza, e qui risplendo perche' fui vinta dalla luce di questa stella di Venere -cioe' dall'amore-; ma con gioia perdono a me stessa cio' che e' la causa del mio destino, e non mi dispiace; cosa che puo' forse sembrare difficile da capire alla gente sulla terra).

A differenza di Cunizza, che risponde di se stessa, della propria inclinazione a questa grande generosita' amorosa, Francesca da Rimini si tira indietro da ogni responsabilita' personale. Lei non c'entra; tutto quello che e' successo e' colpa di qualcun altro o di qualcos'altro: del libro, che lei e Paolo stavano leggendo ("Galeotto fu il libro e chi lo scrisse."), del marito che li ha uccisi ("Caina attende chi vita ci spense"): e, infine dello stesso AMORE, visto come una trappola pericolosa, a cui non e' dato sfuggire, e che puo' portare alla morte:

"AMOR, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
AMOR, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer si' forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
AMOR condusse noi ad una morte.
Caina attende chi vita ci spense".
(Inferno, V 100-107)
(L'AMORE che immediatamente si attacca al cuore gentile, fece innamorare Paolo della mia bella persona che mi fu tolta, e il modo in cui cio' e' avvenuto ancora mi offende. L'AMORE che non consente a chi e' amato di non riamare a sua volta, mi fece innamorare a tal punto di Paolo, e questa cosa, come vedi, continua ancora. L'AMORE ci ha condotto alla medesima morte...).

I versi, che Dante dedica a Paolo e Francesca, sono fra i piu' famosi e piu' belli della "Divina Commedia", ma non sono un inno all'amore, come puo' sembrare di primo acchito; piuttosto, mi sembra, rappresentano un grido di accusa contro di esso. Essi rivelano non tanto e non solo la tragedia personale dei due amanti, quanto, molto di piu', l'infelicita' radicale, esistenziale, di una vita vissuta come "foglia al vento", una vita solo subita, senza il benche' minimo tentativo di prenderla nelle proprie mani, di riconoscerla come propria in tutti i suoi particolari, in breve di assumersene la responsabilita'. E non e' un caso che, proprio trascinati da una bufera senza fine, Dante veda i "lussuriosi", cioe', in fondo, gli amanti infelici; infelici e con-dannati perche' incapaci di rispondere di se stessi/e, delle proprie azioni -incapaci di dire, come fa Cunizza, "ebbene si', la mia vita e' stata questa e io non me ne pento".

"La bufera infernal, che mai non resta", che "mena li spirti con la sua rapina; [.] di qua, di la', di giu', di su li mena" (Inf. V31-32. 43) sembra, dunque, non una condanna per una vita immorale, ma piuttosto il riflesso imperituro della vita cosi' come Francesca l'ha vissuta: con il suo smarrimento esistenziale e la sua sostanziale chiusura -il che non significa che non abbia voluto bene davvero a Paolo. E, viceversa, lo stesso si puo' dire per la beatitudine di Cunizza, che non sembra un premio per una vita virtuosa, secondo schemi morali o moralistici, ma il riflesso della sua accettazione di se', dell'apertura con cui e' andata incontro alle cose e alle persone -il che non significa che non abbia mai arrecato dolore a nessuno e che non ne abbia provato lei stessa.

L'ipotesi che si e' profilata mi pare di grande fascino, ma gli interrogativi che ne conseguono possono essere anche molto inquietanti.
Che cosa decide davvero della riuscita o del fallimento sostanziali della nostra vita? Riuscita e fallimento, stanno veramente nelle nostre mani piu' di quanto siamo abituati a pensare?
E, in tal caso, come fare a conoscerci, a ri-conoscerci, per poter RISPONDERE ALLA VITA E DELLA VITA, che sta in noi, COME INDIVIDUI -termine che, si badi bene, vuol dire "esseri interi"?


NOTA
1. Come ho gia' detto, devo molto a MARIA SORESINA, "Le segrete cose -Dante tra induismo ed eresie medievali", Moretti & Vitali, Bergamo 2002. In questo libro l'autrice, che mi sembra una vera "anima amante", comunica non solo le conoscenze che ha acquisito, ma anche la passione profonda per tutto cio' di cui parla. Fecondo di interessanti scoperte o, quantomeno, di suggestive ipotesi, e' l'accostamento della "Divina Commedia" al grande poema indiano della "Bhagavad-Gita" (Il canto del Beato) e alla dottrina dei Catari, gli "eretici", diffusi soprattutto nella Francia meridionale, che furono massacrati con la crociata indetta da papa Innocenzo III contro gli albigesi (abitanti di Albi), che imperverso' fra il 1209 e il 1215.
2. A proposito della vita di Cunizza: la citazione del cronista Lana e' ripresa dall'edizione del "Paradiso" curata e commentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi (Mondadori, Milano 1997, p. 248, nota al verso 32). Nella stessa nota si riferiscono altre informazioni sulla vita di Cunizza che, secondo il cronista padovano Rolandino, si sarebbe sposata almeno tre volte, e avrebbe avuto almeno due amanti di rilievo, il primo dei quali fu il poeta Sordello, col quale fuggi' durante il primo matrimonio. In vecchiaia, la donna (era nata alla fine del 1100) si trasferi' a Firenze, dove, nel 1265, redasse il suo testamento, e dove mori' nel 1279, facendosi ricordare come una persona pia e misericordiosa. Tuttavia, e' bene ricordarlo, Dante non presenta affatto Cunizza come una "peccatrice pentita", ma come una donna che si riconosce in pieno nella propria vita, cosi' come e' stata.
 
 
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