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L'ULTIMO GIORNO DI SCUOLA. VARIAZIONI SUL TEMA
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
15 giugno 2008 0:00
 
Ai primi di questo mese parlavo con un'amica, quando il discorso cadde su un ragazzo che conosciamo entrambe e che quest'anno fara' la maturita'. La mia amica noto' che il 7 giugno, per lui, sarebbe stato davvero l'ultimo giorno di scuola, in senso assoluto. Per aggiungere immediatamente con quanta intensita' e solennita' avesse sentito, lei, il suo ultimo giorno di scuola: era stato proprio un evento che aveva segnato una cesura nella sua vita, l'ingresso, per davvero, nell'eta' matura. Un evento, di cui ricorda ancora con nitida precisione luoghi, tempi e soprattutto l'emozione che la colse. La passione con cui mi aveva raccontato tutto cio' mi e' tornata in mente nei giorni seguenti e ho dovuto rendermi conto che, per parte mia, non ricordo un simile sentimento avvertito in quello che anche per me fu definitivamente l'ultimo giorno di scuola. Ho provato a guardare come mai la mia memoria non abbia registrato un'emozione simile a quella dichiarata dalla mia amica, e ho dovuto prendere atto che per me non c'e' stata alcuna emozione. Forse perche' la scuola media superiore l'ho cominciata in una citta' e finita in un'altra e in quest'ultima non avevo legato un gran che con nessuno; forse anche perche' era un tipo di scuola che non mi piaceva e che -oggi finalmente posso dirmelo- sentivo mortificante, ma che avevo dovuto frequentare per cause di forza maggiore legate alla precarieta' della situazione familiare. Ma forse anche … chissa' quanti altri perche'. Il fatto incontrovertibile e', pero', che non ricordo niente di quella fine del mio ultimo anno scolastico da alunna (per la verita' neppure un senso di liberazione che dovrebbe pur esserci stato). Nessuna emozione, nessuna solennita', nessun senso di qualcosa che finiva per sempre. Perche' e' pur vero che nella vita ci sono delle ultime volte definitive (cosi' come delle prime volte assolute), alcune delle quali annunciate, come questo ultimo giorno di scuola dell'ultimo anno scolastico delle scuole medie superiori.
Nell'esplorare la memoria alla ricerca di qualche barlume di coscienza in tal senso, ne ho pero' trovato uno che e' legato alla fine della terza media. In effetti, in quella occasione, sentii che qualcosa finiva e che dopo non sarebbe piu' stato lo stesso. Penso che cio' dipendesse dal fatto che nei tre anni delle medie avevo avuto un vero maestro nell'insegnante di lettere, che all'epoca, nella scuola media col latino, aveva ben 17 ore settimanali di lezione. Li' ebbi la fortuna di incontrare un giovane uomo (aveva trent'anni), uno che molto ben "sapeva di greco e di latino", e insegno' a quelle bambinette che eravamo noi con una serieta', un rigore, una dedizione che furono esse stesse un fondamentale insegnamento per la vita. Ecco, questo si', lo ricordo. Fu alla fine della terza media che mi resi conto che finiva un'epoca perche' terminava l'assiduita' quotidiana con quest'uomo. E dopo, in effetti, nella scuola di simili maestri di cultura e di vita non ne avrei avuti piu' (salvo un paio di persone per momenti troppo fuggevoli), e per me fu davvero difficile doverlo, a mano a mano, constatare e accettare. Ma oggi penso che ho avuto fortuna, perche' ho potuto verificare che non a tutti e' dato di avere almeno una persona di riferimento cosi' importante, e dunque mi fa piacere ricordare qui il professor P., ed esprimergli la riconoscenza che merita per la ricchezza culturale, civile e umana, che mi ha comunicato. Fra cui, ecco, proprio legato alla fine di quella terza media, una poesia di Giovanni Pascoli, di cui, curiosamente, in ogni mese di giugno, mi tornano alla memoria alcuni versi sparsi. Cosi', adesso, ho colto questa occasione per rileggere Romagna e rendermi contoche la memoria aveva fatto un po' di confusione (per esempio mi pareva che la poesia cominciasse con la strofa che invece la chiude -"Romagna solatia, dolce paese…"), ma anche lasciandomi scoprire alcuni motivi per cui me la ricordo proprio a giugno. Anche se non sono certa che sia stata l'ultima poesia imparata in questo mese (quell'anno l'anno scolastico fu particolarmente lungo e termino' alla meta' di giugno che fu molto caldo fin dall'inizio), mi sono accorta pero' che la poesia ha a che fare proprio con l'estate, e sono squarci decisamente estivi quelli di cui meglio ho conservato il ricordo "[…] e perderci nel verde,/e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,/gettarci l'urlo che lungi si perde dentro il meridiano ozio dell'aie". Oppure, altri versi, ulteriore richiamo al caldo estivo: "Gia' m'accoglieva in quelle ore bruciate/sotto ombrello di trine una mimosa,/che fioria la mia casa ai di' d'estate/co' suoi pennacchi di color di rosa", il nido del poeta ragazzo in questi afosi pomeriggi, "…dove immobilmente,/io galoppava con Guidon Selvaggio/e con Astolfo; o mi vedea presente/l'imperatore nell'eremitaggio". E qui riscontro un'altra parentela con la mia propensione di allora a rivivere anch'io nell'immaginazione i libri che leggevo.
Bene. Mi sembra giusto proporre adesso questa poesia, che, fra l'altro, e' considerata da tutti una delle piu' belle di Giovanni Pascoli. Anche se vi e' qualche arcaismo nella grafia, nella grammatica (per esempio "[io] galoppava" invece di "galoppavo"), e nel lessico (per esempio un termine come "rezzo" per "brezza"), mi sembra un testo molto leggibile e godibile. La poesia e' dedicata a Severino Ferrari, un grande amico di Pascoli, suo coetaneo, conosciuto a Bologna negli anni dell'universita'. Ebbe varie elaborazioni fino a questa definitiva che risale al 1890; fu pubblicata nella raccolta Myricae del 1891. Gli studiosi vi hanno rilevato echi carducciani.
[Prima di proporla un piccolo chiarimento sui due riferimenti storici in essa contenuti; il primo riguarda "Guidi e Malatesta", che sono le due casate nobiliari che dominarono la Romagna nel Medioevo, il secondo riguarda il "Passator cortese", che e' il brigante Stefano Pelloni (1824-1851), una specie di Robin Hood nostrano dell'Ottocento, perche' aveva fama di essere gentile e generoso coi poveri].
 
Ecco dunque da Myricae di Giovanni Pascoli
 
ROMAGNA
a Severino
 
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l'azzurra vision di San Marino:
 
sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
 
La' nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l'altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l'anatra iridata,
 
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l'urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell'aie;
 
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e 'l bue rumina nelle opache stalle
la sua laborïosa lupinella.
 
Da' borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d'occhi di bambini.
 
Gia' m'accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai di' d'estate
co' suoi pennacchi di color di rosa;
 
e s'abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un biricchino.
 
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.
 
E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
 
udia tra i fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
 
E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare.
 
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or e' dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.
 
Cosi' piu' non verro' per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,
 
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
 
 
NOTA
Per il testo e alcune informazioni sulla poesia mi sono servita di GIOVANNI PASCOLI, Myricae (a cura di Giuseppe Nava), Salerno editrice, Roma, s.i.d., p. 42ss.

Su Giovanni Pascoli c'è un sito ufficiale che ha questo indirizzo:
clicca qui sul quale si possono leggere la biografia, la bibliografia e le poesie divise tra le varie raccolte. Riassumo comunque per comodità una breve biografia del poeta.
 
Biografia di Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855 e mori' a Bologna il 6 aprile 1912, quarto figlio (di otto) di Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta "La Torre" dei principi Torlonia e di Caterina Allocatelli Vincenzi.
Nel 1862, all'eta' di non ancora sette anni fu mandato nel "Collegio Raffaello" degli scolopi a Urbino, dove rimase fino al 1871. Non aveva ancora 12 anni, quando, il 10 agosto 1867, ebbe la vita funestata dalla perdita del padre Ruggero, assassinato da mano ignota mentre tornava dalla fiera di Cesena (a tale fatto e' ispirata la poesia "X agosto"). A questa tragedia, che getto' la famiglia nel dolore e nella poverta', seguirono presto, fra il 1868 e il 1871 la morte della sorella maggiore, Margherita, quella della madre, e quella del fratello Luigi. A Urbino, Pascoli ebbe insigni docenti, fra cui il latinista G. Giacoletti, che era stato un vincitore del concorso di poesia latina di Amsterdam, concorso, a cui piu' tardi partecipera' piu' volte anche il nostro poeta, vincendo la medaglia d'oro molte volte. Fu a Urbino che Giovanni scrisse, nel 1869, la sua prima poesia per la morte del compagno di collegio Pirro Viviani, che piu' tardi sara' ricordato nella poesia "L'aquilone". Cio' che era rimasto della famiglia, sotto la guida del fratello maggiore, Giacomo, si era intanto trasferito a Rimini e fu li' che Giovanni continuo' a seguire dal 1871 gli studi liceali, che continuo' poi a Firenze, di nuovo presso gli scolopi, per concluderli, infine, a Cesena. Ottenuta una borsa di studio per l'Universita' di Bologna, si iscrisse nel 1873 alla Facolta' di lettere dove, fra i maestri, ebbe anche Giosue' Carducci. Li' fece amicizia con diverse persone, fra cui, in particolare, Severino Ferrari, a cui e' dedicata la poesia "Romagna". Un altro lutto familiare lo colpi' nel 1876, quando mori' di tifo il fratello Giacomo. Pascoli si trovo' allora anche in ulteriori ristrettezze economiche dato che perse la borsa di studio per aver partecipato a una dimostrazione contro il ministro (della pubblica istruzione) Bonghi. Gli anni dal 1876 al 1879 rappresentarono per Pascolo un priodo molto difficile. Nel 1879 conobbe anche il carcere, dove fu rinchiuso per qualche mese per un'altra dimostrazione questa volta a favore dell'anarchico Passanante che aveva attentato alla vita del re. Ne fu liberato il 22 dicembre 1879 a seguito del proscioglimento con formula piena ottenuto anche grazie all'intervento di Giosue' Carducci. Riottenuta la borsa di studio, si laureo' nel 1882 con una tesi sul poeta greco Alceo. Docente di latino e greco al liceo di Matera, dal 1882 al 1884, passo' a Massa nel 1884, dove si intensifico' l'amicizia con Severino Ferrari che insegnava nella vicina La Spezia. Nel 1885 Pascoli ricostitui' il nucleo familiare chiamando ad abitare presso di se' le sorelle Ida e Maria. Nel 1891 usci' la prima edizione di Myricae (con solo 22 componimenti), seguita da una seconda l'anno successivo e poi da altre fino alla definitiva del 1900, in cui il numero dei componimenti era salito a 156. Nel 1895 si sposo' la sorella Ida e il poeta si trasferi' con Maria a Castelvecchio (Garfagnana) in una casa in affitto (solo nel 1902 ne acquisterà una nello stesso paese). Nel 1896 fu nominato docente incaricato di grammatica greca e latina all'Universita' di Bologna e vinse la quarta medaglia d'oro al concorso di Amsterdam. Dal 1897 al 1903 fu ordinario di letteratura latina a Messina per poi ottenere il trasferimento a Pisa, da dove, nel 1906, fu chiamato di nuovo a Bologna a succedere al Carducci sulla cattedra di letteratura italiana. L'insegnamento universitario impose a Pascoli compiti di rappresentanza e di oratore ufficiale, il che, secondo i critici, lo allontanarono dall'ispirazione sincera e fresca di Myricae e dei successivi Canti di Castelvecchio (1903, 1905). Pascoli e' ricordato anche come grande poeta in lingua latina. Famosi sono anche i suoi commenti alla Divina Commedia, e altri scritti in prosa, fra cui forse il piu' celebre e' Il fanciullino (apparso per la prima volta nel 1897 e in forma definitiva nel 1902), in cui Pascoli espose la propria poetica.
(a cura di Annapaola Laldi)
 
 
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