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Il caso Eluana Englaro. I punti fermi e le implicazioni della sentenza della Corte d'Appello di Milano
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
1 agosto 2008 0:00
 
Sembra un miracolo che dalla Corte d'Appello milanese sia uscita una sentenza quale quella finale nel caso Englaro, quella stessa Corte che aveva sempre chiuso le porte al padre di Eluana, Beppino Englaro, che chiedeva il rispetto delle volonta' della figlia e il conseguente distacco dell'alimentazione che la tiene artificialmente in vita. Certo, si tratta pur sempre di una sentenza emessa a seguito di una pronuncia della Corte di Cassazione che gia' aveva enunciato il principio di diritto sul rispetto della volonta' di Eluana, ai quali i Giudici di Milano non potevano non uniformarsi. Ma in 60 pagine di motivazione sono andati ben oltre quanto loro richiesto, hanno espresso apertamente e con passione animata, con umanita' oltre che con competenze tecniche, quanto ritenevano, dopo tredici anni di battaglia legale, fosse finalmente il caso di dire, se non di “gridare”. E senza veli o ripari, ne' mistificazioni tipiche di certa magistratura che non vuol decidere, stavolta la Corte e' andata “dritta al sodo”, accogliendo, con le richieste della famiglia Englaro, anche tutte quelle istanze di liberta' e di scelta terapeutica che negli ultimi mesi si sono fatte strada, con i casi Welby, Nuvoli e altri.
 
Nella precedente fase giudiziale, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della famiglia Englaro, aveva elaborato il principio che ha vincolato la Corte d'Appello di Milano nel sentenziare di nuovo sul caso:
E' possibile accogliere la richiesta del tutore dell'incapace di autorizzazione al distacco dalle terapie di sostegno vitale, a due condizioni:
- che sia accertata la irreversibilita' e la permanenza della condizione di incapacita';
- che siano accertate le volonta' presunte dell'incapace, in merito alle sue convinzioni e al proprio concetto di se' e della propria dignita'.
 
La Corte d'appello, che aveva l'ultima parola sul caso Englaro, e' partita da tale principio, e non lo ha solo applicato, ma lo ha “svolto” ulteriormente esplicitandolo e lo ha “difeso” da eventuali critiche, trovando nel parametro costituzionale la misura della sua assoluta validita'. E cio' per replicare in anticipo a chi avrebbe potuto imputarle di non aver sollevato la questione di legittimita' costituzionale sui principi che si apprestava ad applicare.
 
La prima e decisiva difesa della Corte d'Appello e' quella in merito all'interpretazione effettuata dalla Cassazione sul diritto alla vita e alla salute, di cui all'art. 2 della Costituzione. Si chiarisce finalmente come il diritto alla vita non e' dovere alla vita. Si rifugge, infatti, da ogni possibilita' di fondare un presunto dovere alla vita su una disposizione costituzionale che invece sancisce il diritto alla vita. Nel tenere distinti i due concetti (diritto e dovere), la Corte afferma che tali e supremi diritti non possano mai esser considerati entita' esterne all'uomo e che possano, oggettivati e esteriorizzati appunto, esser imposti dispetto e contro la volonta' dell'uomo stesso.
E' una precisazione importante che mette a tacere quanti, riempendosi la bocca di paroloni e di “diritti”, vorrebbero imporre agli altri una propria concezione filosofica e di vita.
 
Sull'irreversibilita' e permanenza della condizione di incapacita' di Eluana.
In merito all'accertamento della irreversibilita' e permanenza della condizione di incapacita' in cui versa Eluana Englaro, la Corte, accogliendo le teorie della comunita' scientifica internazionale   ha finalmente messo a tacere tutte quelle vox populi che vorrebbero il coma vegetativo sempre reversibile, o quelle che fondano le proprie tesi liberticide dietro ad un laconico “non si puo' mai sapere”, o dietro a possibili “risvegli”, magari di natura mistica. Si silenzia dunque quell'approccio antiscientifico (che pur i media non ci risparmiano, e non ci hanno risparmiato neppure nel caso Englaro) che vedrebbe nei segnali reattivi agli stimoli esterni (tipici della condizione di stato vegetativo permanente quale quello di Eluana), la prova che il paziente e' senziente e capisce ecc...
Tale eventualita' (che come visto e' negata dalla scienza medica) se esistesse davvero, renderebbe ancor piu' atroce e insopportabile la tortura di una vita imposta e forzata quale quella che taluni vorrebbero per Eluana!
L'incipit della motivazione della sentenza chiarisce che e' un dato di fatto che la stessa non avra' piu' alcun tipo di risveglio. Secondo la comunita' scientifica, infatti, nel primo anno lo stato vegetativo e' da considerarsi persistente dopo di che, laddove non ci siano stati sviluppi di recupero, lo si considera permanente, non piu' e non solo come “diagnosi”, ma come “prognosi”, ossia irreversibile.
Essendo Eluana da anni in stato vegetativo permanente e irreversibile, dunque, e secondo il principio di diritto della Corte di Cassazione, la Corte di Milano, ritiene sussistere la condizione clinica per il distacco dalla terapia vitale.
Ma allora, cosa succede alle volonta' di chi si trova in condizioni di incapacita' non irreversibile? Ad esempio chi, arrivato in ospedale a seguito di incidente, non vuol sottoporsi ad un certo tipo di intervento salva vita? Chi ad esempio non vuol neppure assumersi l'alto rischio di rimanere invalido a vita? Occorre necessariamente attraversare l'anno di persistenza del coma vegetativo per arrivare ad ottenere, solo giunti nella permanenza, l'autorizzazione al rispetto della propria volonta'?
Se in tale condizione non e' ammesso procedere all'esecuzione delle volonta' della persona, non si configura una disparita' di trattamento (art. 3 e 32 Cost.) rispetto ad un individuo capace di intendere e di volere che puo', potendolo esprimere, rifiutare qualunque trattamento sanitario?
La Corte di Milano nella sentenza affronta il quesito e si risponde che laddove il tutore potesse operare scelte anche per l'incapace che non versa in una incapacita' irreversibile, priverebbe il malato di una possibilita' legata la regresso della malattia: decidere per se stesso un domani. Insomma, la possibilita' di ripensarci.
Su cio' pero' occorre riflettere. Fino a che, invece, non sara' data voce all'incapace (con lo strumento del testamento biologico in modo che la stessa sia piu' certa e chiara possibile) per poter dire tutto, ma proprio tutto quanto e' possibile oggi dire da capace, in merito ai trattamenti che si accettano o rifiutano sulla propria persona, non si raggiungera' l'obbiettivo di uguale trattamento fra chi e' cosciente e chi non lo e' piu', in dispregio dell'art. 3 della Costituzione e del pieno rispetto per tutti dell'art. 32.
E questo e' il nodo che dovra' affrontare il legislatore che si occupera' di testamento biologico.
 
Sul rispetto delle sue volonta' presunte.
La sentenza della Corte d'Appello di Milano si dilunga molto nel motivare l'accoglimento delle richieste della famiglia Englaro sul punto della volonta' di Eluana, ricostruita, tramite testimonianze di amici e parenti, intorno al carattere, al temperamento della stessa, alla sua indole indipendente e al suo alto concetto di dignita' personale. In modo toccante si riportano episodi narrati dai testimoni in cui emerge chiaramente che mai Eluana avrebbe accettato una simile sorte per se stessa. L'episodio che meglio chiarisce le scelte della ragazza e' quello relativo all'amico che si e' trovato poco tempo prima di lei nella situazione che l'ha poi colpita. Nel recarsi in chiesa e nell'accendere un cero in favore dello stesso, Eluana ha chiesto e sperato che la morte venisse a liberarlo da una condizione di “non vita” in cui la vita lo aveva intrappolato. Una concezione non materialista ma spirituale dell'esistenza, che va oltre il concetto di “vita biologica” per abbracciarne uno piu' alto: quello del proprio essere in quanto essere mente, coscienza, esperienza, espressione e interazione, oltre che corpo. Non mancano punte di lirismo nel descrivere gli orientamenti di Eluana, che non sono dissimili da quelli di molti di noi, nonostante le tradizioni cattoliche vorrebbero relegarli come ateismo, miscredenza o devianza. La sentenza arriva persino a citare Ippocrate per sostenere e difendere la ragionevolezza di una simile concezione di se' e della propria esistenza.
 
La Corte affronta poi un'ultima questione di possibile censura costituzionale del principio di diritto cui si deve uniformare.
Se e' vero come e' vero che il soggetto incapace dovrebbe poter avere pari “voce” al soggetto capace e che cio' si ottiene ad oggi solo tramite lo strumento legale del tutore che lo rappresenta, e' legittimo limitare quest'ultimo (che appunto parla al posto dell'incapace stesso) alle volonta' espresse o presunte del soggetto sottoposto a sua tutela? Non si realizza cosi' una disparita' di trattamento nei riguardi dell'incapace, prevedendo indirettamente cosi' limitazioni del suo diritto di autodeterminazione? La Corte si risponde negativamente. La decisione in merito alla sospensione delle terapie di sostegno vitale e' atto personalissimo: deve poter essere presa solo se realmente “voluta” dal soggetto rappresentato (nel caso Eluana).
La sentenza si pone tale questione per affrontarne una immediatamente conseguente: cosa succede a chi non ha espresso la propria volonta' o quest'ultima non possa esser presuntivamente ricostruita? Deve per per cio' solo subire trattamenti che “di per se'” e “oggettivamente” possono esser ritenuti degradanti, tali da costituire accanimento terapeutico? In altre parole, non esiste o non rileva il cosiddetto “best interest” in favore dell'incapace?
La Corte di Milano, infatti, si pone il problema se il sondino naso-gastrico di Eluana, anche a prescindere dalla volonta' della stessa, non debba considerarsi di per se' accanimento terapeutico e se cio' da solo non possa esser sufficiente a consentire la sospensione su richiesta del tutore. Con cio' i giudici milanesi riaprono la spinosa questione su cosa sia e in che limiti si possa delineare l'accanimento terapeutico, questione che la Cassazione aveva chiuso, almeno nel caso di specie, dando esclusivo rilievo alla volonta' presunta.
 
Nelle intenzioni della Corte vi e' chiaramente quella di andare incontro a quei soggetti incapaci che, al contrario di Eluana, non abbiano in passato espresso le proprie volonta', per sostenere e consentire al tutore di scegliere adeguatamente nel loro interesse. Il terreno su cui essa si muove e' pero' scivoloso. Ben invece fa la Cassazione ad astenersi dai labili confini di cio' che e' accanimento terapeutico o no e a fondare le decisioni in merito al fine vita solo sulla volonta' del soggetto su cui incidono. Cio' che per una persona, infatti, puo' sembrare degradante, inutile o inaccettabile, puo' non esserlo per un'altra. Tali insindacabili scelte competono all'individuo, il cui “best interest” puo' esser ricercato solo nelle sue scelte di vita, nelle sue convinzioni e credenze, non certo in un concetto astratto etero-imposto.
Per questo, piu' che cercare di definire oggettivamente i limiti medici fra le cure utili e quelle inutili, il legislatore che disciplinera' la materia, dovrebbe invece occuparsi di porre in mano ad ognuno di noi lo strumento migliore per esprimere detto limite in modo certo, chiaro ma soggettivo, valevole per la propria persona.
 
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