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Eutanasia. Il caso Welby e il diritto italiano
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
1 ottobre 2006 0:00
 
Del dibattito sull'eutanasia che la lettera di Piergiorgio Welby al capo dello Stato ha giustamente suscitato, vorremmo tentare di approfondire alcune questioni giuridiche che possono aiutare a districare o anche solo riflettere sul difficile e spesso incompreso groviglio dei rapporti fra l'eutanasia e testamento biologico.

1. Il caso Welby, in punto di diritto, non ha a che fare ne' con il testamento biologico, ne' con la liberta' di scelta terapeutica. Infatti, Welby e' capace di intendere e di volere e in quanto tale la legge protegge il suo diritto -almeno in teoria- di decidere quando rifiutare qualsiasi intervento esterno sulla propria persona.

2. Welby potrebbe o potra' legittimamente, finche' potra' comunicarlo, chiedere che le macchine che lo tengono in vita gli siano tolte integralmente rifiutando il proprio consenso al trattamento terapeutico cosi' come alla somministrazione di cibo e acqua. Al contrario di Luana Englaro o di Terry Schiavo.

3. Chiunque negasse questa possibilita' a Welby negherebbe l'evidenza della norma di diritto positivo che vieta ogni -senza distinzione alcuna- trattamento sanitario, o ogni intervento sulla persona che non lo consente. Chiunque disattendesse le sue volonta' in merito, continuando a somministrare cibo e acqua senza la sua autorizzazione, sia medico o familiare, sarebbe penalmente punibile per lesioni gravissime volontarie e, a nostro avviso, di trattamento disumano secondo l'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

4. Se Welby chiedesse di esser lasciato morire di fame e di sete, ne avrebbe e ne avra' il diritto indiscusso e inalienabile. Non trovano alcun spazio "il pericolo di morte", "lo stato di necessita'" o la "indisponibilita' della vita", istituti giuridici inapplicabili nel caso e che assolvono tutt'altra funzione nel nostro diritto positivo.

5. Ogni diversa interpretazione che ne sia stata fatta in passato da chicchessia, argomentando con "dovere-diritto di cura del medico", "dovere sociale di vivere" o quant'altro non corrisponde in alcun modo alla normativa attuale e allo stato della giurisprudenza sul consenso informato, e sarebbe incostituzionale (Art. 13 e 32 della Costituzione).

Cosa chiede dunque Welby "giuridicamente", per se stesso e per tutti noi italiani? Chiede che "la morte per abbandono terapeutico" a cui ha diritto, si trasformi nel diritto all'"aiuto alla dolce morte", vietata dal codice penale come omicidio del consenziente. In sostanza chiede una diversa modalita' di esercizio di un suo diritto fondamentale che, se negata, lo costringerebbe ad una morte lenta e prolungata. Chiede il superamento della ipocrita distinzione fra eutanasia attiva e passiva (quest'ultima consentita, almeno sulla carta, ai soggetti capaci di intendere e volere).
Sta chiedendo una cosa irragionevole? Contraria al senso di umana compassione o anche solo al buon senso?
Su questo ci auguriamo verta il futuro dibattito sull'eutanasia, auspicato anche dal Presidente della Repubblica.
 
 
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