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L’”altra Turchia”. Perché Erdogan ha perso le elezioni
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Articolo di Redazione
8 aprile 2019 14:05
 
 Nel mio Paese [la Turchia] e altrove ho già osservato molte tornate elettorali, ma nessuna come questa che riguardava le elezioni amministrative. La campagna elettorale del governo dava l’impressione che per esso non si trattasse di un andare a votare, ma di andare in guerra. Come se si dovessero affrontare non delle coalizioni elettorali, ma degli eserciti nemici. Dal suo palazzo presidenziale “il Capo” era disceso nelle piazze, aveva tenuto 102 manifestazioni, era comparso su tutte le emittenti TV e aveva usato i media come macchina di propaganda. Nel caso di una sua vittoria aveva promesso: nuove guerre, ancor più prigioni e la pena di morte. Se invece avessero vinto i suoi avversari, non li avrebbe fatti insediare con l’accusa di “complicità col terrorismo”. In ogni manifestazione aveva fatto vedere a tutti quanti più volte le tremende riprese dell’attentato a Christchurch. Il ministro dell’Interno, un falco, aveva brandito il manganello: “Che siano eletti, e poi la vedremo!”. E quando la sconfitta ha cominciato a delinearsi, i portavoce del governo hanno usato l’arma della religione fino ad arrivare alla seguente promessa: “Se votate per noi, il Giorno del Giudizio Dio rinuncerà alla resa dei conti”.
Invece di far montare la polemica, l’opposizione aveva osservato in modo strategicamente intelligente il suicidio di Erdogan da lontano con un pizzico di buonumore, e sulle piazze aveva promesso semplicemente: “Tranquillità e pace”. L’elettorato era rimasto insolitamente in silenzio. Fino all’ultimo momento non aveva rivelato il suo colore, aveva evitato, per paura, anche i sondaggi. Aveva atteso l’apertura dei seggi per protestare lì dentro.
Le tre metropoli più popolose, Istanbul, Ankara e Izmir sono andate all’opposizione. Per quanto lo AKP [il partito di Erdogan], in tutto il Paese, abbia raggiunto di nuovo le cifre raggiunte anche nelle elezioni dello scorso anno e sia rimasto il partito più forte, i socialdemocratici, il maggior partito di opposizione, hanno preso quasi l’otto per cento in più e con la loro coalizione hanno quasi raggiunto lo AKP. Alla frase: “Non c’è alternativa a Erdogan”, hanno contrapposto quella che dice: “Ci siamo anche noi”. E ora che si fa?
Per quanto Erdogan, la notte delle elezioni, abbia dato la consegna: “Avanti!”, gli è tuttavia chiaro che adesso la sua strada, da ora in poi, sarà irta di ostacoli. I media totalmente sotto il suo controllo non gli sono serviti a niente. L’esercito degli arrabbiati, con i quali, a suo tempo, aveva fondato il partito, e che poi aveva lasciato in disparte, sta crescendo in continuazione, altrettanto il fronte degli oppositori. Escludendo tutti quanti, ha contribuito alla formazione di un’ampia “coalizione degli altri”. Ma soprattutto l’economia sta andando a rotoli. Ora, oltre all’opposizione incoraggiata dal successo elettorale, Erdogan deve reprimere anche la preoccupazione dei cittadini che portano a casa sempre meno pane.
E lo può fare trasformandosi in un leone ferito e sbattendo in carcere ogni persona che lo critica, come ha fatto finora. Oppure riconosce che la parola “tranquillità” paga e abbandona un po’ la sua politica fatta di tensioni. Chi conosce il pragmatismo di Erdogan ritiene possibili tutte e due le alternative. Ma ambedue gli rendono più difficile andare avanti con la consueta noncuranza. Il fatto che adesso sia assediato non solo sul piano della politica estera, ma anche su quello della politica interna, che debba fare i conti con la crescita del tasso di inflazione e della disoccupazione, e che la sua immagine di “invincibile” sia incrinata - tutto ciò gli rende parecchio più difficile la vita nel palazzo.
Da quando sono in Germania, non faccio che mettere in evidenza questo fatto: “Sullo schermo televisivo, sui giornali, voi vedete solo Erdogan, ma c’è, esiste anche e ancora un’altra Turchia. Tale ’altra Turchia’, al momento, muta, si sta prendendo cura della democrazia”.
E ora, nel fine settimana [31 marzo], questa “altra Turchia” ha parlato e ha detto “Eccoci qui!”.

(Articolo di Can Dündar su “Die Zeit” n. 15/2019 del 4 aprile 2019)
 
 
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