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I beni comuni. Un dizionario per capire come gestirli
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Articolo di Redazione
19 ottobre 2017 10:12
 
 Hanno creato un percorso tra Stato e mercato, e anche nel dibattito pubblico. Dopo la gestione collettiva, da parte di alcune amministrazioni pubbliche, delle risorse minacciate dal sovrasfruttamento fino alla costruzione di risorse digitali comuni, come il software libero o l’enciclopedia Wikipedia, i “beni comuni” sono il cuore di esperienze pratiche sempre piu’ numerose. Sono diventate l’oggetto di un voluminoso “Dictionnaire des biens communs (PUF), realizzato grazie a 200 contributi. Da «Abus de droit» a «Zone à défendre», passando per«Fablab», «Habitat participatif» o «Semence paysanne», l’opera presenta uno stato dei luoghi “comuni” di oggi esplorando le loro origini -quelli “inappropriabili” del diritto romano, la Magna Carta inglese del 1215, le opere di Gracchus Babeuf, di Karl Marx o di Joseph Proudhon… Professoressa di diritto all’Universita’ Parigi-I, Judith Rochfeld ha fatto da coordinatrice del tutto con la giurista Marie Cornu e l’economista Fabienne Orsi.

D. Come e’ nato questo “Dizionari dei beni comuni”?
R. E’ partito da un’esperienza collettiva. Un progetto dell’Agenzia nazionale della ricerca chiamato “Propice” -che sta per “Proprieta’ intellettuale, comune ed esclusivita’”- lanciato nel 2010, che ha messo insieme dei giuristi, degli economisti, degli storici… L’obiettivo era di studiare i dibattiti e le pratiche che emergevano intorno alla nozione di “comune”: la rimessa in discussione della prorpieta’ intellettuale, la reazione a certe privatizzazioni come quella dei geni, o dell’informatica. Dei filosofi, dei sociologi si sono aggiunti a questo lavoro. Ci sono anche molte connessioni con delle persone impegnate in esperienze di condivisione. Ci siamo detti che bisognava cartografare tutte queste problematiche, tutte queste esperienze, mettendo insieme ricercatori e cittadini per mostrare a quale punto questa questione e’ diventata importante nel dibattito pubblico: perche' si parla oggi, per esempio, della biodiversita’ come di un patrimonio comune.
D. Come definire cio’ che e’ “comune”?
R. Molte nozioni circolano oggi: le cose comuni, il patrimonio comune, le cose condivise, e/comune… Non si sa mai a quale di queste nozioni si faccia riferimento, ne’ come esse siano state costruite. E’ per rispondere a questo, tra l’altro, che il dizionario e’ stato redatto.
Quando si parla di "beni comuni", al plurale, c’e’ una filiazione dominante: l’idea dei beni governati in comune, che si situa tra la proprieta’ privata e la proprieta’ pubblica. E’ il lavoro fatto dall’economista americano Elinor Ostrom, che su questo ha vinto nel 2009 il Nobel in economia, e la sua scuola, chiamata Bloomington. All’inizio, questo lavoro si basava sulle delle risorse naturali -delle reti di irrigazione, delle foreste, dei luoghi di pesca…- e conduceva alla constatazione che queste risorse, gestite da una comunita’ di un centinaio di persone al massimo, erano l’oggetto di un “gruppo di diritti” distribuiti tra i membri: diritto d’accesso, diritto di prelievo, diritto di includere o di escludere, diritto di governare la risorsa… Dimostrava, con esempi concreti, che esiste una governance collettiva che permette la durabilita’ del bene e degli usi condivisi. Questo movimento ha in seguito esplorato le risorse immateriali della conoscenza; Wikipedia, per esempio, si iscrive bene in questo schema di governance. Evidentemente, se si considera delle molto grandi cose comuni come il clima, la biodiversita’ e l’acqua, le cose si complicano: la comunita’ diviene universale e, in pratica, una governance mondiale e’ molto difficile…
D. Quali altri aspetti concerne oggi questa idea di “beni comuni”?
R. A margine della categoria teorizzata da Ostrom, esistono molte articolazioni con la proprieta’ classica, a partire dall’idea di un uso di una destinazione collettiva. Per esempio, se io ho sul mio terreno dell’acqua o una specie particolare di pianta, posso essere assoggettato a dei carichi di preservazione; io posso essere proprietario di un’opera d’arte o di un monumento storico che fanno parte di un patrimonio comune. Molte costruzioni giuridiche integrano questa idea. L’altro versante importante, e’ la questione del comune, cioe’ dell’agire in comune: e’ la decisione di governare insieme una risorsa che istituisce il comune.
D. Si e’ molto parlato, in questi ultimi anni, del “ritorno delle cose comuni”…
R. Questa idea del “ritorno” e’ nel contempo molto bella e molto ingannevole. Molto bella perche’ propone una filiazione profonda con la nozione di “res communis”, le “cose comuni” con il diritto romano: delle cose naturalmente aperte all’uso della comunita’, derivate dal circuito ordinario degli scambi economici. Sarebbe quindi, da seguire questo filone e quando si e’ tutto trasformato in proprieta’, privata o pubblica, di ritirare alcune cose dal circuito del mercato o della proprieta’. Ma dove e’ ingannevole, e’ perche’ nel diritto romano, questo carattere comune, quasi sacro, era parte della cosa in se stessa, mentre oggi e’ una questione di destinazione sociale: si decide che, per un certo tipo di risorsa, la proprieta’ privata totalmente esclusiva non e’ la piu’ adatta. E’ questo il caso dei componenti dell’ambiente -un bene, una terra agricola…-, per alcuni beni culturali, o per il software libero.
D. Cosa cambia il digitale in questa questione? A differenza delle risorse naturali, la questione della rarita’ non si pone…
R. E’ in effetti la rarefazione delle risorse naturali che ha fatto comprendere, a partire dagli anni 60 e maggiormente negli anni 90, che bisognava prendere in considerazione queste risorse come delle cose comuni, e che non si poteva lasciarle ai soli proprietari privati. Nel caso delle risorse della conoscenza, si e’ avuto, da una parte, un confronto con un movimento di privatizzazione molto importante a partire dagli anni 80, essenzialmente nell’informatica, e dall’altra parte la democratizzazione dell’accesso alla conoscenza, la filosofia della condivisione, legata al digitale. Questo ha messo queste questioni in testa a tutto: dove si va con la privatizzazione delle conoscenze? Si puo’ sviluppare la protezione di una creazione? Si puo’ rinunciare alla sua proprieta’, o utilizzarla altrimenti? Le sperimentazioni e le teorizzazioni sul software libero, per esempio, ci fanno tornare sulla nostra concezione della proprieta’: ci si impegna per condividere il codice, e questo permette di ottenere un bene e svilupparne gli usi. Questo mostra anche, ed e’ molto importante, che non c’e’ solo un “comune” subito, perche’ il suo bene fa parte dell’ambiente o del patrimonio -ma anche del comune volontario, che presuppone nuove costruzioni giuridiche.
D. In Francia. Il dibattito sulle cose comuni non e’ emerso se non tardivamente. A differenza dell’Italia, per esempio…
R. Come reazione alla servitu’ della societa’ medievale, la Rivoluzione francese ha stabilito la proprieta’ privata come una manifestazione della liberta’ individuale sui beni. La Francia e’ anche uno Stato molto centralizzato, in cui il pubblico ha assorbito il comune. Nella nostra tradizione, e’ difficile pensare che la proprieta’ privata sia una cosa e quella pubblica un’altra… In Italia, questo dibattito ha un’importanza sociale molto forte. Nel 2007, il governo Prodi ha dato mandato ad una commissione, diretta dal giurista Stefano Rodota’, per lavorare ad una riforma del codice civile; Rodota’ ha proposto di cosiderare, oltre che privato e pubblico, una nuova categoria: i beni comuni, definiti come i beni necessari all’esercizio dei diritti fondamentali. Ci sono stati degli esperimenti comunali a Napoli, a Bologna; la gestione dell’acqua e’ stata oggetto di un referendum nazionale di iniziativa popolare nel 2011... Lo Stato italiano e’ piu’ debole e tardivo rispetto al nostro, le Regioni piu’ potenti, e la Costituzione riconosce alla proprieta’ una “funzione sociale”, di cui il proprietario privato di un bene deve tenere conto.
I beni comuni sono stati molto presenti nei dibattiti sulla legge digitale in Francia, nell’ambito del riconoscimento dell’ambito pubblico, del software libero, dei “beni comuni volontari” della conoscenza.. Ma si sono avuti pochi effetti concreti. Il semplice fatto che questo dibattito ci sia stato, e’ molto importante. Le questioni sono state poste -e fino ad allora, non lo erano. Ci sono molte discussioni oggi sulla protezione dell’ambito pubblico, o sulle eccezioni al diritto d’autore per opere cosiddette trasformative, per esempio le pratiche di riuso di pezzi di opere esistenti. Queste discussioni non sono terminate, ma non bisogna dimenticare dove andiamo... E poi, ci sono dei cambiamenti: la legge sulla biodiversita’ del 2016, per esempio, riconosce che un proprietario puo’ imporre degli obblighi per la protezione dell’ambiente. E’ il momento culminante di un processo: sono anni che questa idea e’ in discussione. Negli anni 2000, quando si lavorava su questa questione, ci si poteva sentire isolati. Ma in dieci anni, ci sono molte discussioni sulle questioni ambientali, o sul digitale. Nel 2015, un tribunale de L’Aja ha sostenuto come ricevibile l’azione di circa 880 persone contro il governo olandese, che non aveva rispettato i propri obblighi di protezione del clima. Questo tribunale si e’ poi espresso a loro favore. E’ il segnale di una cambiamento di mentalita’.
D. Come questa questione viene considerata a livello politico?
R. C’e' oggi un movimento cooperativistico, mutualistico, che rinnova, attraverso i beni comuni, gli ideali socialisti, autogestionari. Questo ovviamente non corrisponde a tutto l’emiciclo politico. Esistono anche diverse correnti in seno a questa sfera dei “beni comuni”. Di certo, e’ un’alternativa totale: si prenderebbero in considerazione i “beni comuni” rimpiazzando delle forme attuali di proprieta’, di Stato o private. Per altri, e’ una zona possibile tra la proprieta’ privata e la proprieta’ pubblica. Questa puo’ anche essere un mezzo di questi ultimi. Quel che e’ certo, e’ che, salvo nascondere tutta una parte del movimento sociale, le politiche non possono ignorare l’ispirazione ad una protezione e una governance collettiva dei componenti dell’ambiente, e altrettanto per i movimenti della condivisione in ambito digitale.

(intervista di Amaelle Guiton, pubblicata sul quotidiano Libération del 18/10/2017)
 
 
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