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Comprendere la biologia della disinformazione
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Articolo di Redazione
8 ottobre 2018 14:46
 
 Dopo alcuni anni di silenzio, R.U.Sirius, alias Ken Goffman, ha rilanciato sul web la sua rivista Mondo 2000, che è stata protagonista dei primi tempi della cybercultura. Un post di questo blog ci fa scoprire un documento di 44 pagine pubblicato dal “Institute for the Future” (IFTF), “The biology of disinformation”, che affronta il problema della “guerra memetica” (ndr- meme: elemento di una cultura o di un sistema di comportamento trasmesso da un individuo a un altro per imitazione) e delle fake news. R.U.Sirius ne ha approfittato per una lunga intervista ai tre autori di questo pamphlet.
Uno di questi, Jake Dunagan, è ricercatore del IFTF, mentre gli altri due collaboratori sono ben conosciuti negli ambiti della contro-cybercultura… Davis Pescovitz, anche lui ricercatore al IFTF, è uno degli autori di “Boing Boing”, uno dei più famosi (e dei più vecchi, oltre che migliori) blog culturali. Il terzo è Douglas Rushkoff, anche lui vecchio alfiere della cybercultura, che cominciò ad occuparsi della materia negli anni ‘90, e il cui libro “Media Virus ! Hidden Agendas in Popular Culture” (1995), sembrava come la maggiore ispirazione di questa “biologia della disinformazione”.
Dal meme al “virus mediatico”
Riassumiamo un po’ la storia dei meme. Prima di diventare il fenomeno mediatico che oggi conosciamo, il meme era una ipotesi lanciata dal biologo Richard Dawkins, che formulava nel suo libro “Il gene egoista” che la selezione naturale attraverso i geni, centrale nell’universo dei vivi, aveva ceduto presso l’umano alla selezione dei “meme”, delle “unità culturali” capaci, così come i geni, di autoreplicarsi. Questo ha dato vita per un po’ alla nascita di una disciplina scientifica, la memetica, che cerca di comprendere l’evoluzione culturale in termini darwiniani. Ma la memetica non ha convinto i ricercatori in scienze umane, ed è scomparsa tra vari limbi. In quanto ai meme di Internet, essi hanno conosciuto la gloria che si sa, quella del passaggio dalla teoria darwiniana alla “pop culture”.
Lo stesso titolo del pamphlet del IFTF, “la biologia della disinformazione”, mostra che lo stesso si colloca nell’ambito delle grandi teorie della memetica... e questo anche se è sempre difficile definire un meme. In effetti, qual è la differenza tra un meme e un’idea, per esempio? “Se si ha a che fare con una idea o un’immagine che sembra chiedere “copiami” o “trasmettimi”, allora noi abbiamo a che fare con un meme”, ci spiega il pamphlet del IFTF. Non è sicuro che questa possa essere una spiegazione in assoluto. In effetti, nonostante l’uso della parola meme in tutto il documento, è piuttosto un altro concetto che domina la “biologia della disinformazione”. E’ quello del “virus mediatico”, inventato da Douglas Rushkoff.
“Un virus mediatico è composto da due parti: un nuovo contenitore mediatico (come la gestione di un nuovo supporto o la rottura di uno standard dei media) ed un materiale memetico provocatore all’interno. Un virus biologico ci infetta perché i nostri anticorpi sono incapaci di riconoscere il suo contenitore proteico. Un virus mediatico funziona nello stesso modo: il suo “contenitore” consiste in un utilizzo inedito di un mezzo mediatico”.
“Una videocamera che riprende un atto brutale fatto dalla polizia (…). Un album di rock sospettato di contenere messaggi satanici nascosti. Un microfono senza fili che registra delle considerazioni sessiste di un candidato politico su una sua collega di sesso femminile. Una donna che diffonde dal vivo delle immagini di suo marito mentre muore per delle ferite di colpi di arma da fuoco. Un membro del Congresso che invia ad un minore alcune foto dei suoi organi genitali attraverso il proprio smartphone (…). Un presidente che minaccia un attacco nucleare attraverso un messaggio pubblico di 140 caratteri battuto con le sue dita”.
Quando ha scritto “Media Virus” negli anni ‘90 (prima che Internet fosse molto conosciuto da tutti), Rushkoff aveva in testa soprattutto i giocolieri della contro-cultura che, come i situazionisti, cercavano di condizionare i media di massa per favorire la riflessione. Ma Rushkoff aveva già potuto constatare velocemente il “recupero” del suo concetto attraverso la macchina capitalista (il “marketing viral”). E’ una avventura che è giunta ad altro, per esempio Joseph Matheny per i transmedia. Per cui oggi, il riciclaggio delle idee sovversive della contro-cultura attraverso le agenzie di pubblicità appare quasi come una molestia inoffensiva: non sono più i mercanti che hanno colto queste idee, ma le frange più estreme dell’attivismo politico, l’alt-right, i supermachi bianchi e determinati, il clown mediatico per eccellenza, Donald Trump.
Tra questi meme appartenenti alla sfera dell'estrema destra, si noterà per esempio la tripla parentesi (chiamata “l’écho”) che sta intorno al nome di origine ebraica o supposto tale, il segno classico “OK” fatto con la mano, con un cerchio per simboleggiare il “white power”, ma soprattutto non si può dimenticare “Pepe la rana” (da notare che tutto questo è fatto con l’uso del corpo difendendo il suo autore, che ha poi deciso di “uccidere Pepe” per mettere fine a questa deriva).
La società dei meme
Cosa consente ad un meme di funzionare? I primi due parametri che emergono sono evidentemente il suo contenuto e la struttura dei suoi padroni di casa, i cervelli umani.
Sicuramente conta anche il contenuto. Per esempio, gli autori citano un lavoro effettuato all’Università di Memphis che mostra come le parole corte, concrete, hanno maggiore efficacia rispetto ai termini lunghi o astratti, e che le parole grossolane aumentano la viralità (francamente, ne dubitiamo un po’).
Si può anche sicuramente far riferimento agli aspetti neurologici. Come e perché il cervello viene colpito? Il documento menziona anche una ricerca sul modo in cui il nostro cervello reagisce alla presenza di un meme. I limiti del nostro cervello vengono anche presi in considerazione. Secondo i ricercatori dell’Università dell’Indiana e di Shanghai, anch’essi citati nel rapporto del IFTF, il nostro cervello reagisce molto male al sovraccarico di informazioni. In caso di bombardamento troppo intenso, dicono gli autori, si diventa ancora più incapaci di distinguere la verità dalla menzogna.
Ma per gli autori della biologia dell’informazione, il più importante rimane un altro fattore: l’ecosistema globale. Gli autori citano per esempio un lavoro effettuato dal centro di ricerche sui sistemi complessi dell’Università dell’Indiana, dove i ricercatori sono stati in grado di predire il successo di un meme in funzione esclusivamente delle reti sociali con le quali era stato diffuso, indipendentemente dal suo contenuto. Del resto, continuano gli autori, “i meme virali non sono diversi da quelli che non lo sono. Il loro successo è dovuto alla struttura della rete sociale”.
La tesi principale del pamphlet del IFTF è che se si vuole comprendere il funzionamento dei meme, non bisogna tanto focalizzarsi sul loro contenuto, ma sull’ecosistema dove esso si muove: la nostra società nel suo insieme. “Nel senso che, il potere dei virus, che siano biologici o mediatici, ci fa sapere meno di loro stessi che non dei padroni di casa. Un virus non ci fa ammalare, a meno noi non abbiamo un sistema immunitario capace di riconoscere il suo guscio e neutralizzare il suo codice. Intanto che noi non ci arriviamo, il virus si replica e il nostro sistema immunitario diventa folle, facendoci venire la febbre, i brividi, la congestione, o del vomito -che nella cultura si manifesta con la confusione dei media, le guerre su Twitter, le manifestazioni per strada, le notti insonni e il terrorismo domestico”.
Quali soluzioni?
Gli autori hanno poca stima per le soluzioni tecnologiche, come il ricorso all’Intelligenza artificiale come spiega Rushkoff nell’intervista a Mondo 2000: “Mark Zuckerber vuole lottare contro le fake news grazie all’intelligenza artificiale. Geniale! E’ già passato per un ambiente mediatico che non capisce. Non sa perché la sua piattaforma ha generato tanti effetti inattesi. E quindi, qual è la sua soluzione? Ricorrere ancora ad un’altra tecnologia, che lui capisce ancora meno, sperando di risolvere il problema con un’altra scatola nera”.
Quali sono gli altri mezzi disponibili? Se la tecnologia non funziona, si può per esempio contare sull’educazione? Aprire per esempio delle discussioni in materia che sconvolgano, come il razzismo, il senso di colpa del colonialismo, etc, al fine di creare degli ascessi spesso utilizzati attraverso i meme (e da chi li concepisce) per favorire la replica. Ma questo pone un problema di base. Chi sarà in grado di promuovere e organizzare questa educazione? Se essa proviene da una “autorità”, qualunque essa sia, corre il rischio di essere ancora maggiormente contestata.
Perché, allora, non utilizzare le armi del nemico? Contrapporre dei "contro-meme” per neutralizzare quelli che sono pericolosi? Alcuni ci provano: “la tecnica -attualmente praticata da un’agenzia memetica ungherese che si chiama Darwin- consiste nell’analizzare il paesaggio dei meme intorno ad un’idea particolare, sì da comprendere i diversi meme vicini, come posizionare o riposizionare il meme, quali altri meme possono completare o degradare la sua viralità”.
Prima di tutto, non è quello che facevano gli artisti e “ingegneri culturali” della contro-cultura, gli adepti del Media Virus decantati da Rushkoss nel 1995? Oggi, quest’ultimo sembra aver un po’ cambiato la sua arma abituale. Come ce lo spiega R.U.Sirius:
“Anche se finiscono per far penetrare a forza delle idee importanti in senso alla conversazione culturale, e anche se portano finalmente a delle buone cose, essi ci infettano dall’esterno. Attaccano le debolezze del nostro codice e contribuiscono fino a che noi non vi poniamo rimedio o fino a che non riconosciamo il “contenitore” del virus stesso”.
E il documento ci porta al punto:
“Il pericolo coi virus è che essi sono costruiti per aggirare la neocortex -la parte del nostro cervello che pensa e sente- ed indirizzarsi più direttamente alla parte più primitiva al di sotto. Un meme sul cambiamento climatico, scientificamente dimostrato, per esempio, non avrà la stessa intensità in termini di risposta culturale che un meme sulla “cospirazione delle élite”.
La logica o la verità non hanno nulla a che fare. I meme funzionano provocando reazione di lotta o di fuga. E queste specie di risposte sono molto individualiste. I meme non sono a favore della socialità, essi sono anti-sociali.
Non solo, ma i meme hanno un comportamento imprevedibile e i contraccolpi sono frequenti. Un po’ di tempo fa, spiegano gli autori, il Sindaco di New York ha provato a lanciare il suo proprio meme. #mynypd, con il quale le persone erano incoraggiate a postare su Twitter delle immagini di loro stessi accanto ai poliziotti della città. La conseguenza è stata (qualcuno ne è sorpreso?) centinaia di immagini della brutalità dei poliziotti.
Se la tecnologia non è sufficiente, se l’educazione non è sufficiente, se la “guerra memetica” non può che portare alla catastrofe, quale sarà quindi la soluzione? Agire sull’ecosistema, ci dicono gli autori, rendere la società più immune all’attacco dei meme e attaccandosi direttamente all’ambito dove essi proliferano: il digitale.
“La nostra neurologia è costruita per stabilire un rapporto con altri esseri umani, praticare l’altruismo reciproco e lavorare per obiettivi comuni (…) la redazione di questo rapporto, per esempio, è dipeso da un contatto visivo, dalla respirazione sincronizzata e dal riconoscimento di sottili modifiche del timbro vocale”.
Come dei “segnali non verbali” che spariscono quando noi entriamo in una comunicazione usando gli strumenti digitali. Di colpo, il livello di confidenza tra gli interlocutori si abbassa pericolosamente, si entra in una spirale di sospetto ed aggressività. Un terreno perfetto per la proliferazione dei meme!
Il buon metodo, come spiegano gli autori, non funzionerà se non a lungo termine. Esso consiste nel ricollegarsi alla nostra vita fisica ed organica. Sconnettersi. Collegarsi con rapporti sociali tradizionali, nella “vera vita”. “Le persone che hanno una certa esperienza di politica locale, del prendersi cura, e della difesa dell’ambiente, si mostrano più resistenti alla costruzione digitale del paesaggio ideologico sintetico”, scrivono gli autori.
Il carattere un po’ troppo lontano e astratto della soluzione proposta, non sfugge a R.U.Sirius, che si domanda sulla fattibilità di questa “mutazione culturale”. “Diverse persone -dai ‘Bucky Fuller ai marxisti, passando per i transumanisti- hanno sperato in soluzioni materiali -spiega. Rendiamo la vita sufficientemente gratificante e le persone cesseranno di essere in guerra. E’ un ragionamento che fa venire qualche dubbio, ma può essere meno dubbioso che attendere che tutto il mondo sia cool, individualmente”.
Dunagan gli risponde, in guisa di conclusione. Per lui, una tale riconnessione al corpo non ci sarà probabilmente con l’intervento di una entità nazionale come gli USA, ma grazie alle città. “Io lavoro con dei Sindaci di due tipi, le grandi città e le piccole… e la visione, la creatività e l’approccio pratico dei Sindaci, sono rimarchevoli e ispirano. La sfida prossima, a mio avviso, è di sapere come elaborare una politica che leghi in maniera coerente e produttiva le città e i loro più alti dirigenti”…
L’idea è interessante, ma preferisco continuare a pormi la stessa domanda di R.U.Sirius. E cioé, questa guerra memetica non è la ennesima reincarnazione di un fenomeno ben più vecchio e universale? Del resto, le voci, gli slogan, la propaganda, esistono da molto tempo. Nessuno mette in dubbio che il digitale gli abbia dato una nuova forma, ma alcune persone più connesse “organicamente” saranno pertanto meno sensibili alle fake news? Io credo che la storia ci ha insegnato il contrario.

(articolo di Rémi Sussan, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 08/10/2018)
 
 
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