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Enciclica 2020. Un forte appello all’amicizia sociale. Chi lo ascolterà? Riflessioni evangeliche
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Articolo di Redazione
22 ottobre 2020 15:00
 
  Non è facile onorare in poche righe un testo che, per la sua provenienza, si colloca a un alto livello di autorevolezza e che è molto articolato. Rinuncio dunque in partenza ad analisi di dettaglio e mi concentro su tre punti: le grandi linee della struttura argomentativa, la questione dell’obiettivo del testo e alcuni rilievi.

1. La parabola del samaritano fornisce la traccia ideale del testo: gli argomenti che ne vengono derivati, tuttavia, possono essere perfettamente compresi e discussi anche prescindendo dal brano di Luca e dalla fede cristiana: l’orizzonte è universale. Si rileva che la globalizzazione e l’assetto (economico, geopolitico ed ecologico) del pianeta conducono a un pericolosissimo peggioramento sia delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione (nei paesi poveri ma anche in quelli ricchi), sia della qualità morale della convivenza. Mancano punti di riferimento etici condivisi: per tale ragione, la legge del più forte tende a diventare l’unico motore della storia e delle relazioni. Come alternativa, l’enciclica propone un nuovo stile nei rapporti, più volte indicato mediante la categoria di «amicizia sociale». Tale esigenza viene declinata a tutti i livelli: senza un nuovo orientamento dei comportamenti individuali, non si va da nessuna parte, ma anche la grande politica mondiale e l’economia globale devono essere orientate in termini nuovi. Le organizzazioni internazionali, a partire dall’ONU, sono dunque invitate a darsi da fare per contribuire a tale risultato. La linea generale è chiara: solo il superamento di comportamenti egoistici e conflittuali può fermare la catastrofe globale. Il documento non si tira indietro rispetto all’esigenza di formulare proposte di carattere più operativo, riconducibili alla seguente: il negoziato, il consenso e la solidarietà devono diventare preponderanti, possibilmente fino ad eliminare la competizione. I consigli a tal fine, rivolti ai destinatari più diversi, abbondano.

2. A chi parla il papa e, concretamente, che cosa pensa di ottenere? Il titolo risponde alla prima domanda: parla a tutti e a tutte, considerandoli fratelli e sorelle. Cerca anche di farlo in modo differenziato: le possibilità dei singoli, pure rilevanti, si collocano su di un piano diverso rispetto a quelle degli stati e delle organizzazioni internazionali. Quanto all’obiettivo, chi legge ricava l’impressione che il pontefice intenda rivolgere esortazioni forti e piuttosto precise ai potenti della terra (al novero dei quali, peraltro, egli appartiene, con un proprio particolare status). Semplificando un poco: se tutti fossimo, istituzionalmente o personalmente, più «socialmente amici» il mondo andrebbe meglio. Non è però del tutto certo che questo tipo di invito possa essere politicamente ed economicamente efficace. C’è chi ritiene, infatti, che geopolitica ed economia obbediscano a dinamiche non facili da influenzare mediante l’esortazione. Lo sanno anche il pontefice e i suoi consulenti. L’obiettivo realistico del testo sembra dunque essere la proclamazione di una carta globale della convivenza da parte di un’agenzia religiosa, in collaborazione con altre (si cita ripetutamente la dichiarazione di Abu Dhabi, ad opera del papa stesso e del grande imam Al – Tayyeb e si conclude con una preghiera ecumenica): e questo in dialettica, se non in contrapposizione e in alternativa, con gli altri poteri della società globalizzata. Il punto di forza di tale proposta è che enuncia realtà indubitabilmente auspicabili: maggiore giustizia, nella solidarietà e anzitutto nella pace; quello papale è anche uno dei non moltissimi pulpiti dai quali risuonano appelli a favore degli ultimi e delle ultime della terra. Il punto delicato è che l’obiettivo richiede strumenti politici ed economici dei quali nessuno, nemmeno il papa, dispone. Se non si spiega come fare concretamente e con quali strumenti di persuasione, il discorso rischia di restare astratto. E non ci si può limitare a dire che le indicazioni pratiche non sono compito di un’enciclica: se si entra nel dettaglio politico con tale determinazione, allora ci si assume anche la responsabilità di tracciare una strada praticabile. Vorrei aggiungere, a scanso di equivoci, che il papa non è l’unico a lanciare questo genere di proclami, tanto radicali quanto difficili da tradurre sul piano operativo. Conosco, ad esempio, sinodi protestanti assai bene allenati a fare altrettanto.

3. Il testo, tuttavia, sembra voler parlare da un punto di vista più elevato rispetto a quello del dibattito politico e delle discutibili opzioni che esso impone. Da questo balcone ecclesiastico, vengono tracciati orizzonti non privi di fascino, non senza, se è lecito dirlo, un elevato grado di autoconsapevolezza. La lettura delle note, ad esempio, è abbastanza istruttiva: in larghissima misura, si tratta di citazioni di altri testi del magistero cattolico, spesso dello stesso Francesco. Non è una novità, si potrebbe osservare: appunto, esattamente questo è il problema. Le chiese (ancora una volta: non solo quella romana) manifestano una preoccupante tendenza all’autoreferenzialità. Propongono riforme mondiali, ma non sono in grado di riformare se stesse; se la prendono con la finanza globale, ma non sempre eccellono nella gestione delle finanze proprie. Il rischio di questo tipo di comunicazione, a mio sommesso avviso, è di suggerire l’idea di chiese capaci di tenere lezioni su temi al di fuori della loro possibilità di intervento, mentre in casa propria si limitano a gestire l’esistente e non sempre in modo brillante. È vero, gli applausi a questo e a testi analoghi abbondano. Ma lo sanno anche quelli che applaudono e quelli che gongolano per gli applausi: è così perché le sacrosante denunce e le ragionevolissime intenzioni non sono avvertite come realmente pericolose dai poteri reali. Non è colpa del papa o delle altre chiese che svolgono discorsi analoghi. È semplicemente un fatto.

Due considerazioni conclusive. a) Il testo, specie nella prima parte, parla del presente come de-clino e de-generazione. Quel «de-» presuppone un’epoca migliore, meno feroce, più attenta alle persone, socialmente meno sperequata, rispetto alla quale staremmo precipitando nell’abisso della corruzione. La diagnosi sul presente è condivisibile. Ma si può sapere quale sarebbe questa età dell’oro rispetto alla quale siamo in caduta libera? Non si tratta di una nostalgia romanticoide e un po’ conservatrice? b) L’enciclica esce un mese prima delle elezioni americane. Se almeno qualche persona cattolica (dubito che i fanatici evangelicali diano retta al papa) che quattro anni fa ha votato in modo demenziale fosse aiutata a cambiare idea, sarebbe già un motivo di gratitudine.

(articolo di Fulvio Ferrario, Decano della Facoltà valdese di teologia, su Notizie evangeliche del  13/10/2020)
 
 
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