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Erdogan. Il servo che diventò padrone
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Articolo di Redazione
4 settembre 2018 17:19
 
 Benché Erdogan sia un despota, sono molti i turchi che lo sostengono. Ma perché?
Da quando sono in Germania, la domanda che mi si pone più spesso è questa: “Perché i turchi eleggono un tale despota?”
In primo luogo una correzione: Solo la metà lo elegge. Esaminiamo allora il lato globale della questione: “Perché gli americani eleggono Trump e i russi Putin?”
E’ così: per il ceto inferiore Erdogan è un modello, perché, provenendo dal ceto inferiore, si è portato assolutamente in alto. Educato religiosamente, voleva diventare calciatore, si interessava di politica, dovette andare in prigione per aver citato una poesia. La storia di un capo bastonato, descritta e utilizzata in modo eccellente, ha trovato eco nei ceti incolti, poveri della società. Per le masse, che cercavano un porto sicuro, Erdogan, in quanto “capo” autoritario, era un sollievo.
Negli ambienti colti urbani il sostegno per l’AKP diminuì fino all’ultimo plebiscito., nei ceti lontani dalla cultura con un’istruzione elementare, invece, i SI’ per Erdogan si attestarono al 70 percento. Negli elettori con un diploma il consenso cadde al 39 percento. Il suo genero Berat Albayrak, nelle cui mani Erdogan ha posto l’economia, spiegò la situazione, superbo, dal punto di vista di un elettore: “Se il presidente dice che costruiamo una autostrada a quattro corsie sulla luna, noi gli crediamo”. Il giorno dopo i giornalisti si stupirono, in un sondaggio in strada, quanto fosse illimitato il consenso su questo “progetto”.
Erdogan usa consapevolmente la lingua degli oppressi nel linguaggio tipico di un dominatore salito, da servo che era, alla vetta. “Ora il Paese appartiene a noi”, suona il suo messaggio. Imperterrito fa eseguire sondaggi di opinione, sente il polso del popolo e adatta la sua retorica ai risultati. Grazie alla sua formazione scolastica islamica padroneggia magistralmente la religione. Prega sul podio, recita poesie, a volte si mostra sentimentale e con le lacrime agli occhi, a volte adirato e ingiurioso. Dopo la disastrosa catastrofe mineraria di quattro anni fa schiaffeggiò un ragazzo che stava protestando contro di lui, le telecamere documentarono come lo insultò: “Scomparisci, tu, gentaglia israeliana!”. Un tale comportamento da macho, in un altro posto, avrebbe scatenato una rivolta. Presso i suoi seguaci di tradizione patriarcale, invece, cresce l’ammirazione per lui. Dato che si è impadronito dei media, può contenere la critica al suo stile politico. Chi si oppone, finisce dietro le sbarre. Così intimidisce i suoi avversari ed evita che i suoi seguaci abbiano a sentire idee diverse dalle sue. Questo potere e la sua capacità di persuasione lo rendono utile agli occhi dei suoi alleati. Diversi capi di stato occidentali e il capitale globale si impegolano con la sua rotta: “Dobbiamo metterci d’accordo con lui”. All’interno Erdogan si pubblicizza come “l’uomo che costringe il mondo a mettersi in ginocchio”. Questo modo di vantarsi copre il sentimento di inferiorità nei ceti emarginati e cancella soprattutto nei turchi della diaspora il sentimento di essere discriminati. Unicamente questo spiega il sostegno ma solo in modo insufficiente.
Quando si tratta di gruppi sociali in competizione nel Paese, Erdogan rappresenta sempre la maggioranza: turchi contro curdi, sunniti contro alawiti, conservatori contro rappresentanti della modernità. Egli consolida la propria base per mezzo della emarginazione “degli altri”.
Non sono da dimenticare i miglioramenti nell’ambito dell’istruzione e della sanità, che raggiunse nei primi tempi del suo governo. Ancora oggi vive della riconoscenza di allora e del piacere per la stabilità dell’economia provato negli ambienti degli affari interni ed esteri.
Per concludere occorre sottolineare il fatto che Erdogan deve il suo potere in parte anche alla misera condizione dell’opposizione. Quando prima delle elezioni fu in discussione la candidatura di Abdullah Gül, suo rivale interno al partito, Erdogan mandò a casa sua con un elicottero il capo di stato maggiore. Gül dichiarò che rinunciava, il capo di stato maggiore siede adesso nel gabinetto di Erdogan. I socialdemocratici, invece, hanno raggiunto il loro massimo successo elettorale da 40 anni a questa parte, ma sono ancora impegnati soltanto a sbranarsi a vicenda.
Ma perché la gente ha sostenuto Erdogan?

(articolo di Can Dündar da “Die Zeit” n. 33/2018 dell’8 agosto 2018)
 
 
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