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Genocidi. La ricerca permette di chiudere la porta al negazionismo mettendo in luce l’operazione di dissimulazione
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Articolo di Redazione
29 gennaio 2019 15:12
 
 Cosa si sa oggi dei genocidi? Le ricerche più recenti hanno aggiornato il modo di affrontare i crimini di massa? Come insegnare e lottare contro il negazionismo? A maggio del 2016, Najat Vallaud-Belkacem, allora ministro francese dell’Educazione nazionale e della Ricerca, lanciava la “missione genocidio”. Sessantacinque ricercatori (storici, antropologi, sociologi, etc), francesi e stranieri, hanno lavorato per circa due anni per fare un bilancio dei saperi in materia. Il loro rapporto, terminato a febbraio 2018, è stato messo online dalla "Documentation française" e pubblicato, in forma semplificata, dalle edizioni del CNRS, con una prefazione del sociologo Dominique Schnapper ed una postfazione dello storico Henry Rousso. Il rapporto si incentra sui risultati delle ricerche e sull’importanza crescnte della questione dei genocidi nell’insegnamento dopo gli anni 90.
Qui di seguito una conversazione con lo storico Vincent Duclert, specialista dell’affaire Dreyfus, che ha presieduto la “missione genocidio”.

D. Cosa insegna attualmente la scuola sui genocidi?
R. I programmi dei colleges e dei licei integrano lo studio della Shoah e del genocidio degli Armeni. I professori delle scuole possono affrontare lo sterminio degli ebrei d’Europa nel loro insegnamento sulla Seconda Guerra Mondiale. L’indagine sottolinea il notevole coinvolgimento dei professori: essi fanno delle ricerche coi loro alunni, organizzano delle “settimane della memoria” nei loro istituti, lavorano insieme sulla questione delle testimonianze.
D. Il genocidio dei Tutsi non figura nei loro programmi?
R. Non al momento, ma alcuni insegnanti scelgono di parlarne ai loro alunni. Lo scrittore franco-rwandese Gael Faye, autore di “Petit Pays (Grasset, 2016), ha svolto un ruolo essenziale riuscendo ad entrare nelle classi. L’obiettivo è di mitigare questa assenza. Jena-Michel Blanquer cerca di allertare il Consiglio superiore dei programmi sull’importanza di questo insegnamento. Abbiamo sottolineato l’errore di ridurre questo genocidio al caso dei “conflitti interetnici in Africa”, contribuendo ad alimentare i pregiudizi che sono alla base del negazionismo. Abbiamo a che fare con il genocidio nella sua vera forma.
D. Le ricerche attuali sulla Shoah possono darci ancora dei contributi nuovi?
R. Sì, e’ un ambito di ricerca che si rinnova, particolarmente in Francia. Esiste una scuola francese sulla Shoah. La presidenza di jacques Chirac le ha dato un forte impulso riconoscendo, nel 1995, la responsabilità dello Stato francese nel raid di Vél d’Hiv, poi organizzando, nel 1997, la "mission Mattéoli" sulla spoliazione degli ebrei di Francia. L’opera pioniera di Raul Hilberg, la “Destruction des Juifs d’Europe” (1961), centrava la propria analisi sulla macchina nazista dello sterminio. Da quel momento, gli aspetti più oscuri si modificano e si allargano: lo storico Christian Ingrao mostra che il nazismo, le sue élite e i suoi territori si sono impegnati nella distruzione degli ebrei d’Europa. Per suo conto, Johann Chapoutot (giornalista di Libération) ha fatto un lavoro sull’ossessione della purezza razziale dei nazisti. Erano persuasi che se non si fossero distrutti gli ebrei, la razza tedesca sarebbe stata estinta.
D. Esiste anche una specificità francese sul genocidio cambogiano?
R. No, è un punto morto che il rapporto sottolinea. La ricerca si scontra con degli ostacoli culturali e ideologici, al primo posto dei quali c’é la compiacenza, molto tabù, dell’estrema sinistra nei confronti dei Khmer rossi, questa estrema sinistra che si compiace della Rivoluzione culturale cinese. Un altro ostacolo è la colpevolezza francese nei confronti della colonizzazione, attitudine onorevole, ma che ci impedisce di guardare certe realtà, come le violenze razziali messe in opera nella società cambogiana. Questi due fattori hanno pesato sull’assenza di ricerca collettiva in Francia. Coloro che lavorano attualmente sui crimini dei Khmer rossi sono isolati. Una delle virtù della nostra missione sarà stata di far emergere un gruppo di lavoro internazionale sui genocidi che si istituzionalizzerà in futuro con i mezzi forniti dal CNRS.
D. Cosa fanno sapere gli approcci comparati dei genocidi?
R. Le situazioni sono le stesse, situazioni di morte, totalmente vuote. Spesso non resta nulla per una testimonianza. Questo fenomeno è al centro del film di Wang Bing “les Ames mortes” sui sopravvissuti dei campi di rieducazione cinesi: nessun monumento che potrebbe ricordare i campi sarà fatto. Lo stesso silenzio e la stessa invisibilità sono nel libro di Yang Jisheng sulla grande carestia in Cina, “Stéles” (Seuil, 2012). Ad Auschwitz, non resta nulla, delle baracche, punto e basta. E’ lo stesso che succede col genocidio dei Tutsi: i corpi furono gettati nelle fosse settiche. Questi vuoti hanno per lungo tempo aperto le porte al negazionismo. Oggi, il loro studio permette di rivelare la dissimulazione che è parte del genocidio.
D. I boia si sono ispirati l'un l'altro?
R. Assolutamente. Quello che noi consideriamo come il primo genocidio è quello degli Herero e dei Nama nel 1904 in Namibia. Il colonizzatore tedesco costruì dei centri per uccidere attraverso il lavoro, dove infuria Eugen Fischer, un giovane scienziato ossessionato dalle teorie razziali, il futuro ispiratore di Hitler e maestro di Mengele. I tedeschi hanno ugualmente fatto tesoro del modo in cui i Giovani Turchi, responsabili del massacro degli Armeni, li portarono a morire nel deserto siriano con dei treni, con una pianificazione a cui i tedeschi si ispirarono. Altro punto su cui un genocidio si ispira è il negazionismo. Facendo molta attenzione a non cascare nel sistematismo, occorre prestare attenzione a ciò che circola.
D. Il genocidio dei Tutsi fa riferimento a questi modelli?
R. I Tutsi furono vittime di una ossessione della razza che ha avuto come modello l’antisemitismo: gli Hutu consideravano i Tutsi come degli invasori, degli “ebrei” arrivati dall’Etiopia. Per identificarli, gli Hutu hanno utilizzato l’eredità coloniale dei belgi, che avevano forgiato un’etnia per i bisogni della loro amministrazione. Come i bambini non avevano documenti, ed erano i vicini che decidevano se erano Tutsi o meno. Gli Hutu pensavano che essi sarebbero morti se non eliminavano i Tutsi: è esattamente quello che i nazisti dicevano degli ebrei.
D. I ricercatori della vostra équipe hanno lavorato sulle motivazioni che portano ai genocidi?
R. Diversi di loro si sono fatti domande su ciò che viene chiamato “violenze estreme”, essenzialmente sull’ipotesi della “frattura cognitiva”, avanzata dal neuroscienziato Itzhak Fried. Questa spiegava perché degli esseri umani perdono ogni coscienza morale e si accaniscono su altri umani, spesso loro vicini, come se fosse un lavoro come un altro. In questo contesto, che Fried attribuisce alla famosa "sindrome E", il boia a sua volta perde la sua umanità e commette atti degradanti per se stesso.
D. Cosa pensano gli storici o i sociologi di questa altalena?
R. Pensano che il lento momento in cui si diventa razzisti e si disumanizza l’altro abbia luogo prima del genocidio. Questa “frattura” può anche risultare dal condizionamento sociale, politico, religioso e culturale che si estende per degli anni. Non bisogna accontentarsi di insegnare il solo parossismo, ma anche quello che lo precede. In questo tempo dilatato, è possibile intervenire. La distruzione dei Tutsi avrebbe potuto essere fermata.
D. Alcuni segnali annunciano un genocidio?
R. Un modo per considerare la natura. A me piace molto lo scrittore turco Sait Faik Abasiyanik (1906-1954), che scriveva sulle Isole dei Principi, di fronte ad Istanbul. Rimase colpito dal fatto che in questo pacifico e cosmopolita arcipelago alcuni proprietari terrieri avevano ucciso uccelli e strappato dell’erba. Fece crescere della nuova erba, perché aveva visto in questo l'annuncio di catastrofi. Nel 1910, il regime ottomano decise di liberarsi dei molto numerosi cani che erano nelle strade di Costantinopoli e di deportarli su un’isola. Questo gesto di violenza non riguardava a priori gli Armeni, ma creava, sotto l’egida della civilizzazione, una logica distruttrice. I Khmer rossi hanno anche loro eliminato gi animali domestici con una violenza incredibile.
D. Cosa permette l'insegnamento del genocidio?
R. Riflettere con gli alunni sulla ricostruzione delle società annientate dai genocidi, sul ruolo della giustizia nel riconoscimento della verità, sul negazionismo e sui mezzi per combatterlo. Permette anche di mostrare che l’antisemitismo è la base del razzismo, e nello stesso tempo motore di tutti i genocidi. Un genocidio è un progetto ideologico: comincia quando si installa volenza e distruzione e quando la società si riconosce poco a poco in questi valori. Una società democratica, civilizzata, non deve accettare né violenza né distruzione. E’ di grande attualità ciò che sto dicendo.

(Intervista raccolta da Virginie Bloch-Lainé, pubblicata sul quotidiano Libération del 29/01/2019)
 
 
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