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Perché le sneakers si vendono all’asta come beni di lusso
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Articolo di Redazione
9 giugno 2020 7:47
 
 A metà maggio un paio di scarpe da ginnastica è stato venduto all’asta per 560mila dollari, circa 518mila euro, polverizzando ogni record precedente per un prodotto simile. Sono delle Air Jordan 1s con i canonici colori dei Chicago Bulls – bianco e rosso, con finiture nere – indossate in partita e autografate da MJ in persona. Sono anche di scarpe asimmetriche: il piede sinistro è un 47,5, il destro un 48.
Un’operazione che è andata oltre le aspettative della stessa casa d’aste che le ha messe in vendita: gli operatori di Sotheby’s avevano stimato un prezzo di circa 150mila dollari. Il picco raggiunto per le Air Jordan è un caso limite, ma rientra in un fenomeno in espansione da anni e riguarda il mercato delle sneakers: hanno smesso di essere semplici scarpe sportive e si sono trasformate in oggetti di culto, soprattutto grazie agli sneakerhead – gli amanti di questo tipo di calzature – che ha fatto fiorire questo settore del fashion.
Il mercato delle sneakers ha cominciato la sua crescita probabilmente proprio con le Air Jordan a metà degli anni Ottanta, quando i giovani appassionati di basket e hip hop hanno iniziato a indossarle ovunque, in qualunque occasione.

Due decenni dopo la situazione è quella descritta da Adam Wray sul Financial Times: «Fino agli anni Dieci del Duemila era un mercato ristretto a una sottocultura ancora marginale, negli ultimi anni invece diventato un fenomeno di massa, c’è stata un’esplosione di transizioni online che ha attirato persone più interessate all’acquisto, quindi al possesso, che alla possibilità di indossare le scarpe. Come i collezionisti».
Così alcuni venditori più intraprendenti hanno fiutato la possibilità di fare grandi profitti acquistando dai produttori i pezzi più ambiti – spesso edizioni limitate – e giocando al rialzo con la vendita al dettaglio.

Ma il mercato non si ferma al collezionismo. I prezzi sono schizzati con il reselling, la rivendita di modelli, soprattutto più rari, il più delle volte mai utilizzati. In un primo momento si faceva con il camp-out, quindi facendo la fila per ore in attesa dell’apertura dei negozi, con l’intenzione magari di rivendere a chi è arrivato in ritardo.

Oggi il sistema più diffuso è quello delle aste online: i potenziali acquirenti si sono moltiplicati, facendo salire il prezzo delle sneakers in modo esponenziale. Con la particolarità, però, che chi acquista spesso non lo fa nemmeno per collezionismo: l’idea è quella di riposizionare ancora il prodotto sul mercato tempo dopo, per rivenderlo a prezzo più alto.

In tutto questo i grandi brand della produzione difficilmente riescono a guadagnare direttamente dal reselling. Ma ne beneficiano indirettamente: piazzare sul mercato, in momenti strategici un prodotto che può essere acquistato più o meno a qualsiasi prezzo può portare discreti dividendi, e avere una schiera di sneakrehead che rende la domanda sempre maggiore dell’offerta e crea hype attorno ai prodotti di un marchio migliora il posizionamento anche sul mercato di massa.

Le piattaforme online che fanno reselling sono cresciute e si sono moltiplicate, riuscendo tutte a far aumentare i ricavi: un mercato da due miliardi di dollari. Ce ne sono diverse, ognuna con una sua particolarità: Fightclub trattiene una percentuale su ciascuna vendita, Stadium Goods è il marketplace online di un negozio fisico di New York, Grailed si affida in tutto a Paypal (con relative commissioni da pagare sulle operazioni).
Quella che forse rappresenta meglio la nouvelle vague di questo mercato è StockX, che tratta le sneakers come azioni, e gli acquisti come vere e proprie operazioni di borsa mostrando la quotazione del prodotto in tempo reale e permettendo all’utente di acquistare o vendere nel momento che ritiene più conveniente. Restituisce il senso di un mercato che può arrivare a distaccarsi totalmente dal prodotto originario, fino a diventare una compravendita di asset finanziari.

Il fondatore di StockX, Josh Luber – sneakerhead dichiarato – ha avuto il colpo di genio quando si è reso conto della volatilità dei prezzi delle sneakers. Ha raccontato la sua storia al New York Times, spiegando che l’azienda è cresciuta «da zero a 700 milioni di dollari di vendite in appena due anni. Chi si aggiudica le scarpe all’asta sulla sua piattaforma potrebbe decidere di rivenderle senza averle mai fisicamente tra le mani, come il trading finanziario. Per questo abbiamo trascorso molto tempo a parlare con gli avvocati per assicurarci che non stessimo violando le leggi sui titoli».
Un dettaglio che inquadra le fluttuazioni di questo mercato: nei giorni in cui è stato rilasciato The Last Dance, StockX ha registrato un aumento del 63 per cento del traffico sui prodotti del marchio Jordan.

Negli ultimi giorni negli Stati Uniti molti hanno approfittato dei disordini in tutte le città per saccheggiare in particolare i negozi di streetwear, per mettere le mani sulle sneakers più ambite, nella speranza di piazzarle in qualche asta online e ottenere grandi ricavi.
Questo ha messo in allarme le più grandi piattaforme di rivendita di sneaker, tra cui la stessa StockX. Tutti i rivenditori hanno affermato di essere già alla ricerca di prodotti messi sl mercato illegalmente e di essere vigili nella ricerca di merci sospette sulle piattaforme.
Però, come abbiamo già visto in quasi due settimane di manifestazioni, molte aziende hanno anche scelto di solidarizzare con chi scende in strada. StockX ha diffuso una nota in cui esprime tutta la sua solidarietà: «Comprendiamo la frustrazione che ha portato a tutto questo. StockX supporta proteste pacifiche e ci schieriamo al fianco di chi usa la sua voce per chiedere un cambiamento». Perché il business è il business, ma a tutto c’è un limite.

(articolo di Alessandro Cappelli pubblicato su Linkiesta del 09/06/2020)

 
 
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