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Permessi di soggiorno: solo 20 giorni per il rinnovo. Tar Lazio condanna Questura Roma
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Articolo di Claudia Moretti
23 novembre 2010 20:45
 
Non importerebbe commentare una sentenza di un tribunale che si limita ad applicare la normativa in vigore da anni, se non fosse che si tratta di una pronuncia emessa nel Pianeta Immigrazione.
Ci stupiamo, allora, che i principi elementari dell'ordinamento trovino in concreto applicazione anche in una materia che vede spesso lo straniero vittima di violazioni di leggi ed in particolare di quelle che regolano il corretto svolgimento della funzione pubblica e dei procedimenti amministrativi. Ci stupiamo anche, allora, che per i rinnovi dei permessi di soggiorno, che a rigor di legge devono concludersi entro 20 giorni dalla data di deposito dell'istanza, salvo eccezioni dovute ad integrazione dell'istruttoria (ulteriori documenti ecc...), non si debbano invece attendere tempi biblici, a volte mesi e mesi, oltre l'anno. Tempi illegali, sì, ma che ci sono ovunque, in tutte le questure e che non si riesce ad eliminare, tempi cui tutti, stranieri per primi, ci siamo rassegnati a sopportare. Per non parlare, poi, dei tempi pluriennali delle procedure di emersione e sanatorie varie.
E' invece accaduto che un Tribunale amministrativo abbia condannato l'amministrazione a provvedere. Si tratta di un cittadino di nazionalità straniera che ha chiesto il rinnovo del pds per residenza elettiva lo scorso 21 gennaio 2010 e, non avendo avuto risposta nei tempi di legge, si e' rivolto ad un legale che ha impugnato il “silenzio” della pubblica amministrazione nello scorso luglio. La Questura di Roma non ha spiegato le ragioni a sostegno della validità e legittimità del proprio ritardo, non ha addotto scuse o quant'altro. Il processo si è concluso rapidamente perché affrontato con un rito molto celere che è previsto dalla giustizia amministrativa. Il Tar Lazio ha, dunque, sentenziato lo scorso 8 novembre con sentenza n. 33277/2010.
Queste, in sintesi, le limpide, ragionevoli, quasi ovvie motivazioni:
“L’art. 5, comma 9 D.Lgs. n. 286/1998, in particolare, dispone che “Il permesso di soggiorno è rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla data in cui è stata presentata la domanda, se sussistono i requisiti e le condizioni previsti dal presente testo unico e dal regolamento di attuazione per il permesso di soggiorno richiesto ovvero, in mancanza di questo, per altro tipo di permesso da rilasciare in applicazione del presente testo unico” mentre l’art. 2 L. n. 241/1990 statuisce che sia nell’ipotesi di procedimento iniziato d’ufficio che in quello attivato su istanza di parte “la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo con un provvedimento espresso”. Ciò comporta, sul piano processuale, la possibilità del privato di tutelare l’interesse all’adozione dell’atto conclusivo del procedimento, al fine di ottenere una pronuncia che accerti la violazione di tale dovere e che ponga a carico all’Amministrazione l’obbligo specifico di pronunciarsi...[...]...
Per quanto sopra argomentato il ricorso va accolto e, per l’effetto, va annullato l’impugnato silenzio-rifiuto, va dichiarato l’obbligo della intimata Questura di concludere, con un provvedimento espresso, il procedimento attivato con l’istanza avanzata dal ricorrente in data 21 gennaio 2010, entro il termine di 30 (trenta) giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, ovvero dalla sua notificazione, se anteriore e va, conseguentemente,
ordinato alla medesima di adempiere a tale obbligo.”
Il Tar Lazio, pero', non riconosce nel ritardo dell'amministrazione un motivo per riconoscere automaticamente il danno lamentato e richiesto dal ricorrente. Ad avviso del Tribunale, infatti, occorre dedurre i fatti a fondamento della lesione lamentata ai propri diritti patrimoniali e provarne la sussistenza e l'ammontare. In altre parole, di per se' il ritardo non crea danno, danno che spetta alla parte provare.
Cio' significa che chiunque incappi in un ritardo della questura nelle procedure relative al rinnovo o al rilascio del permesso di soggiorno dovrà raccogliere elementi e prove relative al suo disagio. Per esempio, indicare i giorni di lavoro persi per recarsi invano presso i locali della questura, costi delle raccomandate che ha dovuto inviare, spese pagate in anticipo al proprio legale per la causa e per la fase stragiudiziale che l'ha preceduta, oppure un mancato viaggio all'estero perché “recluso” in Italia in attesa del documento rinnovato.
In ogni caso, la sentenza riconosce un rimborso di 500,00 euro a titolo di spese legali (sigh!) in favore del ricorrente.
Insomma, una vittoria contenuta, non eclatante, ma vittoria. Un motivo per non rassegnarci alle disfunzioni del nostro Paese.
 
 
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