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Professione? Filantropo! Filantropia e no-profit nel 2018
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Articolo di Vincenzo Donvito
25 ottobre 2018 16:29
 
  E’ quanto accade in diversi parti del mondo, ma in particolare in Svizzera, terra propizia alla filantropia, con più di 13.200 fondazioni di pubblica utilità registrate e un “giro d’affari” di 100 miliardi di franchi svizzeri (88 miliardi di euro). E i filantropi – individui, enti privati o pubblici o semi-pubblici – non si accontentano solo di donare, ma vogliono poter misurare l’impatto dei loro finanziamenti filantropici, vogliono vedere i risultati della iniziative che sostengono in ambito culturale, scientifico, delle ricerche, dell’ambiente, dell’educazione, dell’azione sociale, etc. E per farlo occorre avere a che fare con dei professionisti, la filantropia come abitualmente la si concepisce, è roba del passato. Per questo diverse facoltà universitarie hanno avviato dei corsi specifici ad hoc, e non ci sarà da meravigliarsi se fra non molto tempo ci troveremo con specifiche lauree. E per gestire questi fondi, nonché per donarli, ci saranno specifici titoli di studio, specifiche professionalità, oltre quelle che la logica ci fa pensare: non solo, per esempio, un contabile o un commercialista in quanto tali, ma professionisti abilitati ad esser tali per le strutture no-profit e che possono esercitare in questo ambito solo se hanno superato esami e/o ammissioni specifiche. Per dirla con una parola semplice e onnicomprensiva: degli ordini professionali altrettanto specifici a cui ci potrebbe essere un obbligo di iscrizione. Qualcuno si sente di escluderlo visto l’andazzo diffuso in materia di professioni? Se abbiamo, per esempio, un ordine professionale a cui ci si deve iscrivere per poter scrivere su un giornale, altrimenti si è reietti e senza i vantaggi pensionistici e contributivi del caso, cosa c’é di strano se altrettanta iscrizione e altrettanto ordine non debba essere previsto per il no-profit?
Non solo, ma anche coloro che donano i propri soldi, cioè i filantropi, perché non dovrebbero appartenere ad un ordine che, di per sé (com’é nella logica degli ordini professionali) dovrebbe garantire professionalità e impegno civico (come ogni ordine dice di fare per il fatto stesso di esistere)? Ci rendiamo conto che è un po’ “tirato” come ragionamento, ma qualcuno si sente di escludere che nel momento in cui vengono delineati, con tanto di università, dei comportamenti professionali in materia, non debba essere seguito quello che abitualmente accade in materia?
E’ una preoccupazione che ci nasce anche dal fatto che il settore della filantropia, e quello del no-profit, è in forte crescita ovunque, con pochi risvolti quando ci sono crisi economiche (come quella del 2008) che mettono in enorme difficoltà in tutti i settori produttivi. Una crescita che, innegabilmente, crea profitti, anche se sulla carta si tratta di introiti indirizzati non al guadagno individuale ma devoluti ai fini stessi per cui sono state istituite le singole fondazioni e/o associazioni. Per completare il quadro va ricordato che, tra filantropia e no-profit, diversi Stati ci marciano per – di fatto – aver delegato loro gratuitamente la gestione di quello che viene etichettato come sociale, che altrimenti languerebbe; a fronte degli impegni di questi Stati quasi sempre incartapecoriti su se stessi per far tornare i conti piuttosto che a svolgere il servizio di “mediatori” dell’iniziativa privata (profit, in questo caso). Non è una nostra invenzione che, per esempio, lo Stato italiano, se non ci fossero nonni e zii, oltre a genitori e famiglie e volontari vari, avrebbe molti gravi problemi di gestione dell’infanzia e dell’assistenza sociale e sanitaria.
 
 
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