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Il ritorno della coalizione. Anche se il presidente Erdogan vorrebbe impedirlo, in Turchia si va lentamente formando una cultura politica del compromesso
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Articolo di Redazione
16 ottobre 2019 11:05
 
L’ultima volta che la Turchia ha avuto un governo di coalizione è stato 17 anni fa. Da allora il Paese viene guidato da un governo formato da “un solo uomo di un partito solo”. Da 17 anni la parola “coalizione” serve solo a screditare la “vecchia Turchia”, l’epoca pre-Erdogan. Erdogan ritiene che la coalizione sia “una barca con un buco nello scafo. Essa significa crisi, disoccupazione, fallimento. Significa che una manciata di ricchi stanno attaccati come zecche sulle spalle della gente. Coalizione è un incubo”.
L’ultima coalizione riunì nazionalisti e liberali sotto il premier socialdemocratico Ecevit. Crollò nella crisi economica del 2002. Le masse impoverite punirono tutti i partiti del sistema ed elessero uno sconosciuto partito “alternativo”. Da allora lo AKP [partito di Erdogan] ha vinto cinque su sei elezioni parlamentari.
Ciò è da vedere in relazione con l’andamento globale della politica. In molti luoghi del mondo si è arrivati a un equilibrio del terrore che divide la società.
Sette mesi dopo le elezioni del 2015, in cui lo AKP prese il 49,5 per cento, il 51,8 per cento dei britannici votò a favore della Brexit, mentre solo il 48,2 per cento si espresse per rimanere [nella UE].
Nello stesso anno in Colombia il 50,2 per cento degli elettori rifiutò il trattato di pace.
La forte tendenza alla divisione produce ulteriori cose in comune: in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Turchia è cresciuto il divario tra persone poco istruite e laureati. Le persone istruite si sono espresse più raramente a favore di Trump, Erdogan o della Brexit. Paragonabile è anche la divisione tra grandi città e provincia. A Istanbul Erdogan ha raccolto meno consenso, e lo stesso si può dire a New York Trump e a Londra per la Brexit. I loro seguaci vivono per lo più lontani dalle metropoli, hanno perso la speranza nei partiti del sistema, sono meno acculturati e hanno già superato la mezza età.
A questo si aggiunge la paura. Le paure dei Britannici di essere sfruttati dalla UE, degli Americani di essere occupati dai migranti illegali provenienti dal Messico, dei Turchi di avere uno stato curdo ai loro confini, degli Europei di essere assaliti dai rifugiati siriani sono servite alla polarizzazione e, nei Paesi con democrazie deboli, hanno portato al timone degli autocrati.
Da 17 anni la Turchia viene governata da un despota, il quale usa come sostegno del proprio potere le paure che egli stesso ha creato. Il Parlamento è neutralizzato, l’opposizione debole, la stampa è persa, la giustizia dipendente, la società civile muta. La conseguenza? “Una manciata di ricchi che stanno attaccati come zecche sulle spalle della gente. … crisi, disoccupazione, fallimenti …”.

Il sistema maggioritario, che dà competenze dittatoriali al vincitore anche con una piccola differenza percentuale, caccia nel vicolo cieco, perché ha annientato tutti i meccanismi di compensazione e ha escluso la metà della società. La politica ha polarizzato la popolazione e ha teso la situazione fino allo strappo. Non solo Erdogan in Turchia, anche Trump negli Stati Uniti e i seguaci della Brexit in Gran Bretagna si vedono confrontati con le amare conseguenze della divisione.
Il nostro punto di partenza sono state le coalizioni, che si basano su compromessi, l’arte dell’accordo. L’uso di creare una base comune e reagire insieme, che in Germania è diventato cultura politica dopo l’amara esperienza dell’era dittatoriale, sta maturando adesso nell’opposizione turca. Fra le macerie di un dispotismo, che ha eroso la struttura politica, vive il desiderio di una politica che non si basi sul confronto, bensì sull’appianamento delle differenze.

(Articolo di Can Dündar su “Die Zeit” n. 42/2019 del 10 ottobre 2019)
 
 
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