testata ADUC
Riusciremo finalmente a sbarazzarci dei menù al ristorante?
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Redazione
15 luglio 2020 9:38
 
 Nella scena passata alla storia de Il secondo tragico Fantozzi, il ragionier Ugo, alter-ego cinematografico di Paolo Villaggio, invitato dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli a salire sul palco del cineforum fa appello a tutto il suo coraggio e alla sua esasperazione, e lo dice senza indugio alcuno: «Per me La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!». Allo stesso modo, con il medesimo senso di liberazione che il rivelare grandi scomode verità porta con sé, qui lo confessiamo: i menu dei ristoranti – ahinoi, nella maggioranza dei casi – sono brutti. Anzi, a volte proprio orrendi. Sciatti, terribilmente sciatti. Spesso eccessivamente pretenziosi e scomodissimi da consultare.

Qualche esempio a supporto di questa tesi: i menu plastificati che col tempo si scollano, perdono gli angoli e lasciano entrare fastidiosissime bolle d’aria; quelli di carta un po’ scoloriti che mendicano una ristampa, ché par di sfogliare un libro comprato dall’antiquario; quelli con la rilegatura a spirale (argh); quelli finto-eleganti in (finta) pelle, enormi e pacchiani, che vorrebbero essere chic e invece finiscono per essere kitsch; quelli con le chiazze di unto che nessuno s’è premurato di sostituire; quelli strappati; quelli hipster che sembrano tanto carucci ma poi si rompono/staccano/sfaldano appena li prendi in mano; quelli su legno, quelli su ardesia, quelli su tela, quelli su lavagnette, quelli sull’opera d’arte di un artista di strada guatemalteco che alla fiera dell’est mio padre comprò. Come se non bastasse, non ci siamo nemmeno addentrati nel tunnel dei font e delle grafiche utilizzate, in onore delle quali di sicuro non basterebbero le poche battute concesse da un articolo e andrebbe forse redatto un saggio breve.

I menu fisici sono nemici giurati delle persone maldestre come la sottoscritta: quando me ne trovo davanti uno particolarmente fantasioso e complicato, per cui sono necessarie svariate operazioni manuali per consentire la lettura, non capisco mai da che parte prenderlo, rischio di spaccarlo, mi innervosisco e parto già col piede sbagliato. Tempo fa, in un ristorante milanese all’epoca considerato molto à la page, il menu era una specie di gigantesca lastra di plexiglas con gli angoli appuntiti, al punto che – nel tentativo di maneggiarlo nella maniera più delicata possibile – con uno dei suddetti affilatissimi angoli mi tagliai il naso. Un taglietto piccolo, sia chiaro, ma abbastanza profondo: di lì a poco iniziò a uscire parecchio sangue che non ne voleva sapere di fermarsi, e la cena si trasformò presto in un film splatter, con il personale preoccupatissimo per la mia incolumità, e io coperta di vergogna e circondata da tovaglioli insanguinati (il pasto ci venne offerto, piccolo dettaglio giusto per regalare un happy ending alla narrazione).

Ora però basta divagare: le mie – che poi, mica solo le mie – disavventure con i menu potrebbero finalmente volgere al termine, non tanto per una questione estetico-logistica, quanto igienica ed economica. Tra le misure di prevenzione rivolte a bar e ristoranti nella fase post – anzi, siamo ancora durante – coronavirus, raccomandate dall’Istituto Superiore di Sanità e suggerite dal Manifesto Orizzontale dell’Ospitalità e della Tavola di Fipe, figura infatti la digitalizzazione del menu. Il menù digitale 4.0, che sostituisce il vecchio cartaceo impossibile da igienizzare se non monouso, è visionabile attraverso la scansione via smartphone di un QR code posizionato sul tavolo dal ristoratore, in certi casi è pure aggiornabile in tempo reale in piena autonomia (con un considerevole risparmio di tempo e denaro), in altri consente persino la visualizzazione da remoto. Accorgimenti simili sono stati adottati negli Stati Uniti, e a tal proposito Chris Crowley su Grubstreet si domanda: in un futuro prossimo, superata (si spera) la pandemia di Covid-19, non ci dovremo mai più preoccupare dei menu fisici? Da New York a New Orleans, passando per Las Vegas ed Eugene, Oregon, sempre più operatori preferiscono demandare il menu – anziché alla classica lavagnetta affissa all’esterno e all’interno del locale – ai QR code. Il motivo è facilmente intuibile: dover disinfettare ogni singolo menu dopo che il cliente di turno l’ha toccato è uno sbattimento immane e (potenzialmente) neanche affidabile al 100%, quindi utilizzare il proprio smartphone risolverebbe in un colpo solo tutti i problemi.

La strada non è affatto in discesa come potrebbe sembrare: Crowley sottolinea che, in virtù del doveroso investimento tecnologico iniziale, sono i ristoranti di fascia alta i più inclini ad abbracciare il cambiamento, non certo le realtà più piccole che stanno lottando per sopravvivere. Mettici poi che certi ristoratori sono attaccati con le unghie e con i denti alla tradizione, e che il 30% degli americani (e il 26% degli italiani, stando ai dati di dicembre 2019 del Censis) non possiede uno smartphone – percentuali che diminuiscono sensibilmente se si elimina dall’equazione la popolazione più anziana, meno propensa a pranzare o cenare fuori. Insomma, è meglio non cantare vittoria in anticipo, sebbene il nuovo menu digitale rappresenti una soluzione sicura, ammortizzabile dunque conveniente, facile, veloce e (si presume) più gestibile pure per il personale di sala: sai quanti «Scusi, mi potrebbe gentilmente riportare il menu?» si eviterebbero?

Basandomi sulla mia esperienza personale, da che è stato possibile andare al ristorante – lasciate passare le prime settimane in cui, scettica e reticente, me ne sono rimasta a casa – ho contato in totale tredici pasti in tredici locali differenti. Di questi, soltanto due disponevano di QR code. Ora, capisco che la speranza sia l’ultima a morire e che qualsiasi rivoluzione degna di essere definita tale necessiti di tempo, ma fatico a trovare anche solo un motivo (escluso l’effetto nostalgia) che giustifichi il mantenimento dei menu fisici. E alle varie ragioni elencate ne aggiungo un’ultima, la classica ciliegina sulla torta, legata allo spreco di carta e plastica per produrli. Forse per il mondo della ristorazione è davvero arrivato il momento di dare un calcio al passato e andare avanti: l’ambiente e le persone maldestre gliene sarebbero immensamente riconoscenti.

(articolo di Marianna Tognini, da Linkiesta del 15/07/2020)
 
 
CHI PAGA ADUC
l’associazione non percepisce ed è contraria ai finanziamenti pubblici (anche il 5 per mille)
La sua forza sono iscrizioni e contributi donati da chi la ritiene utile

DONA ORA
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
AVVERTENZE. Quotidiano dell'Aduc registrato al Tribunale di Firenze n. 5761/10.
Direttore Domenico Murrone
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS