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Sahel. Cambiamenti climatici e crescita demografica alimentano la violenza
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Articolo di Redazione
12 aprile 2019 13:35
 
L’incontro della Rete per la prevenzioni delle crisi alimentari (RPCA), che dopo le grandi siccità degli anni 1980, fa il bilancio della situazione agricola in Sahel in considerazione del delicato periodo di magra, avrebbe potuto, giovedì 4 aprile, dispiegarsi come un incontro di routine: al termine della campagna per i cereali i raccolti sono aumentati di circa il 7% in un anno, la produzione di foraggio è piuttosto buona e i prezzi hanno anche avuto la tendenza al calo sui mercati locali, facilitando l’accesso dei più poveri alle derrate di base. L’insicurezza alimentare, considerando che riguarda 4,8 milioni di persone, è stata divisa per due dopo la grande allerta lanciata dal 2017, quando notevoli rischi di carestia erano stati segnalati nella zona del lago Ciad.
Nonostante questo, i rappresentanti degli Stati dell’Africa dell’ovest, le istituzioni regionali, le associazioni di produttori e le organizzazioni dell’Onu incaricate di lottare contro la fame e la malnutrizione, non erano tranquilli. Il 23 marzo, almeno 160 persone sono state uccise a Ogossagou, nel centro del Malì, durante un attacco che si considera fosse opera dei gruppi di autodifesa dogon contro le popolazioni Peul. Questo massacro è l’episodio più gravi di una serie di scontri ricorrenti di queste comunità. “Questi conflitti sono diventati una cancrena. Se non arriviamo a dare delle risposte concrete ai nostri agricoltori e ai nostri allevatori, a cosa servono i nostri incontri?”, si chiede Sékou Sangaré, commissario all’agricoltura della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’ovest (Cédéao).
Il centro del Malì è diventato una delle principali zone insicure dove si dispiega la guerra contro il djihaismo, un tempo limitato alle regioni settentrionali frontaliere dell’Algeria. L’insicurezza e la fame si sono sovrapposte, sia perché la presenza dei gruppuscoli armati vieta l’accesso ai pascoli ancora disponibili, sia perché la stessa rende impossibile il lavoro nei campi. “Tutto si mescola. La violenza legata all’estremismo, quella dei conflitti tra comunità. Tutto si destruttura. Le regole tacite che rendevano possibile la coesistenza con queste società agropastorali ed erano un modo per la risoluzione dei conflitti non funzionano più”, dice Maty Ba Diao, coordinatore del Progetto regionale di appoggio alla pastorizzazione del Sahel.
L’adesione di una parte della gioventù Peul ai gruppi djiaisti ha velocemente creato un amalgama. “In Malì come in Burkina Faso, un Peul non può circolare liberamente senza rischiare la sua vita. Nel contempo è praticamente impossibile di chiedergli di diventare sedentario. Nel Sahel, a partire dal mese di gennaio, non c’é più né acqua né foraggio”, dice Ibrahima Aliou, segretario generale dell’Associazione per la promozione dell’allevamento in Sahel e nella savana, una organizzazione che si dedica a facilitare le transumanze tra i diversi Paesi.

Una crisi dalle radici profonde
Dietro l’impegno delle armi che cercano di dare una risposta di sicurezza al caos, gli esperti che partecipano al RPCA sanno che è in gioco una crisi dalle radici profonde. Questa si alimenta con la deregolamentazione climatica, con una crescita demografica non disciplinata e lo scombussolamento delle risorse naturali che ne deriva.
“La radicalizzazione non è che una conseguenza di fattori che si intrecciano e sono all’origine delle privazioni subite dalle popolazioni di queste zone dove lo Stato ha poca o nessuna presenza”, dice Gilles Chevalier, coordinatore del gruppo delle Nazioni Unite sulla resilienza in Africa dell’ovest. Chevalier ha guidato una studio sulla regione del Liptako-Gourma, le cui conclusioni permettono di misurare la potenza dei fenomeni in corso. Questa vasta distesa, conosciuta anche con il nome di “tre frontiere”, si estende dal centro del Malì (regione di Mopti, Gan, Ménaka) al nord del Burkina Faso e, più ad est, alle regioni di Tillaberi e Tahoua, in Niger.
La zona che è stata esaminata coinvolge 9,5 milioni di persone e copre una superficie grande quanto la Francia. Tutti gli indicatori danno il segnale rosso. Il numero di persone in stato di insicurezza alimentare è aumentato del 60% tra il 2015 e il 2018. La povertà generalizzata ha reso la popolazione particolarmente vulnerabile agli imprevisti, considerato anche che questi ultimi hanno tendenza a moltiplicarsi: dopo gli anni 1980, la siccità colpisce in modo regolare la regione del Liptako-Gourma.
“Il cambiamento climatico comporta una della più grandi variabili per le precipitazioni così come per carenze prolungate pluviometriche, provocando un prosciugamento delle acque di superficie, un esaurimento delle acque sotterranee ed una riduzione dei livelli delle inondazioni, in un contesto dove i sistemi di irrigazione sono poco sviluppati. Insieme alla deforestazione e a pratiche agricole e di allevamento non durevoli, la siccità aumenta il degrado delle terre e la desertificazione. Questi fenomeni hanno pesanti conseguenze sui mezzi di sussistenza”, avvertono gli autori.

Un’agricoltura poco produttiva
Nel momento in cui la natura diventa meno ospitale, gli si chiede di nutrire delle generazioni sempre più numerose. Infatti, tra i tre Paesi studiati, i tassi di fecondità sono molto elevati. Questi sono anche aumentati nel corso degli ultimi anni, attestandosi per esempio su 7,9 bambini in media per donna a Tillabéri, cioé 1,1 in più rispetto al 2006.
Lo scarso accesso ai servizi sanitari riproduttivi non fa che accentuare questa tendenza. Nella regione del Sahel, in Burkina Faso, e nella regione di Tahoua, in Niger, le donne sposate o accoppiate, nella fascia 15-19 anni, che fanno uso di un mezzo contraccettivo, rispettivamente, sono l’1,2% e il 2,4%”, secondo gli ultimi dati disponibili. La metà della popolazione ha meno di 15 anni. E il suo accesso all’educazione è sempre meno garantito, ricordando che esistono delle grandi disparità all’interno stesso della regione, dove la mancanza di sicurezza ha inoltre portato alla chiusura di 2.000 scuole in meno di diciotto mesi.
La risposta a questa domanda crescente di cibo si traduce con la ricerca di nuove terre dove si applica un’agricoltura poco produttiva, ad eccezione del perimetro di Mopti, che beneficia di sistemi di irrigazione. Il tutto con l’esacerbazione delle tensioni tra gli allevatori. La regione del Piptako-Gourma ospita un terzo delle mandrie di bovini di tre Paesi e, come la popolazione, queste non cessano di crescere, al ritmo del 5% circa all’anno.
“La rarefazione dell’acqua e delle risorse foraggifere, il calo delle zone di pascolo legate all’espansione delle terre agricole all’insicurezza in crescita, fanno aumentare la vulnerabilità delle popolazioni pastorizie e contribuiscono ad alimentare le frequenti tensioni tra agricoltori ed allevatori”, conclude lo studio realizzato, secondo Gilles Chevalier, per permettere ai governi e alle organizzazioni umanitarie e di sviluppo di meglio organizzare i loro interventi. Essenzialmente a beneficio delle popolazioni pastorizie che, in Sahel, sono state le meno considerate da parte delle politiche di aiuto.

“Grazie alla loro mobilità, i pastori hanno a lungo garantito agli Stati una forma di sicurezza in delle zone considerate invivibili. Erano le loro sentinelle. Oggi sono in una impasse perché la competizione per la terra li priva dei loro mezzi di sussistenza. Dobbiamo quindi integrarli ai programmi di sicurezza alimentare”, dice Djimraou Aboubacar, consigliere dell’iniziativa nazionale 3N (i nigeriani nutrono i nigeriani).

Transumanza transfrontaliera
Diverse iniziative sono state prese a livello regionale, ma sono ancora ai loro primi passi. I sistemi di allerta precoce sperimentati da diversi decenni per gli agricoltori sedentari cominciano a considerare i bilanci foraggiferi, sì da poter anticipare la situazione alimentare delle popolazioni nomadi.
La ONG Action contre la faim (ACF) individua, a partire da immagini satellitari, delle mappe di biomasse per localizzare i pascoli nonché la disponibilità di acque di superficie lungo i percorsi delle transumanze. L’evoluzione del prezzo del bestiame è monitorato su una cinquantina di mercati locali. “Per creare un controllo efficace, dobbiamo elaborare degli indicatori specifici che siano adatti ai modi di vita degli allevatori e ai loro calendari che cominciano piuttosto presto”, dice Cédric Bernard, consigliere sulla sicurezza alimentare all’ufficio regionale dell’ACF di Dakar.
La ONG, in collaborazione con delle associazioni di allevatori, è impegnata su un sistema di allerta che, grazie all’invio di SMS, permetterebbe di informare sulle condizioni climatiche e lo stato dei pascoli sì da poter individuare i migliori percorsi per le greggi.
Per suo conto, la cassa-mutua panafricana African Risk Capacity, che già assicura gli agricoltori contro i rischi climatici, ha preparato una polizza adatta agli allevatori, come è stato già fatto in Senegal e Kenya. “Questi meccanismi di assicurazione che sono sottoscritti dagli Stati hanno il vantaggio di essere più reattivi in caso di crisi, contrariamente all’aiuto esterno che arriva spesso troppo tardi. Questi permettono agli allevatori di acquistare alimenti per i loro animali e prevengono dagli spostamenti precoci che possono provocare dei conflitti con gli agricoltori”, spiega Papa Zoumana Diarra, capo della pianificazione e delle operazioni di African Risk Capacity.
Nel frattempo, ovunque nel Sahel, alcuni pastori hanno già preso la strada verso le regioni costiere, consapevoli che numerose strade sono state cancellate. Alcuni mezzi finanziari sufficienti saranno utilizzati per organizzare “una transumanza transfrontaliera in sicurezza”, come dicono i membri del RPCA? E, al di là di questo, per rispondere alle cause profonde della destabilizzazione del Sahel? Lì c’é più di una urgenza. La popolazione della regione raddoppierà nel corso dei prossimi venticinque anni.

(articolo di Laurence Caramel, inviata speciale, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 11/04/2019)
 
 
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