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Chopin? Vietato! Come il regime di Erdogan elimina i simboli culturali non graditi
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Articolo di Redazione
27 settembre 2017 12:46
 
 La settimana scorsa, in Turchia, è stata presa una decisione all’apparenza banale, ma di enorme portata simbolica. Il ministero degli Interni ha ordinato che per i funerali dei caduti non si esegua più la Marcia funebre di Chopin, ma il pezzo Segah Tekbiri del compositore turco Mustafa Itri.
Dal 1932, per i funerali ufficiali, la banda eseguiva la Sonata per pianoforte nr. 32 Opus 35 del compositore polacco Frédéric Chopin. Ma nel corso di quest’ultimo anno, durante i funerali di un caduto, dei poliziotti infuriati avevano ridotto al silenzio la banda al grido di Allah Akbar. In seguito a ciò le autorità religiose resero noto che non era giusto che “tra martiri e moschea ci fosse un musicista polacco”. Dopo questa disposizione si cominciò a suonare l’inno che inizia con le parole “Allahüekber, Allahüekber, del compositore ottomano del XVIII secolo. A riflettere sui problemi che potrebbe causare l’opera nell’adattamento al ritmo di marcia, non sarebbe sorprendente che prossimamente si sostituisca la banda con una banda del corpo dei Giannizzeri.
Ancora la scorsa settimana è arrivata una iniziativa altamente simbolica in relazione alla cultura europea, e questa volta da parte del capo dello Stato. In alcuni Comuni si erano cominciate a erigere statue di Erdogan, al che egli aveva detto: “Ciò mi turba enormemente. Non voglio né che vengano erette mie statue né che vengano fatte mie maschere”. Ciò sarebbe ancora comprensibile, e avrebbe potuto valere come un’esemplare modestia, se non avesse proseguito: “Ciò contraddice i nostri valori”.
In un Paese, in cui a ogni angolo si possono trovare statue e maschere funebri di Atatürk, una osservazione del genere, ovviamente, ha importanza. Nell’Islam sculture e idoli, come anche la loro produzione, sono considerati idolatria. A seguito di queste parole di Erdogan, Tayfun Atay, autore che scrive su “Cumhuriyet” [Repubblica] gli chiese chi intendesse usando il “noi”, e aggiunse quanto segue: “In questo Paese, nelle Accademie di Belle Arti c’è un dipartimento di scultura. Vi sono gallerie e musei di sculture. Vi sono persone che amano le sculture. Col vostro ‘noi’ tutto ciò andrebbe a cadere? Se fosse questo il caso, ciò significa che sperimenteremo anche noi a Efeso, Aspendo o Perge ciò che ha fatto l’Isis nei siti dell’antichità”. Da molto tempo sono in crescendo gli attacchi alle statue di Atatürk. La tolleranza verso questi attacchi è stata interpretata come se il regime non li considerasse un problema. Poi ha fatto seguito la cancellazione dai programmi del nuovo anno scolastico della teoria della evoluzione e del kemalismo. Questa campagna che va sotto il nome di “nazionalizzazione della cultura e della scienza” ha mostrato il suo frutto più velenoso proprio la scorsa settimana.
La salma della madre del deputato dell’HDP [Partito democratico dei popoli] Aysel Tugluk, che è in prigione, doveva essere tumulata, secondo le sue ultime volontà, in un cimitero di Ankara. Quando il corteo funebre è arrivato al cimitero, è stato attaccato da una plebaglia che urlava parole come: “Questo è un cimitero di martiri, non permettiamo che vi siano sepolti terroristi! Non è un cimitero armeno!”. Di conseguenza lo HDP ha fatto esumare la salma già sepolta e le ha dato nuova sepoltura nella regione curda.
L’avvenimento ha rappresentato un shock anche per i sostenitori del regime. Ha dimostrato che la politica della spaccatura fomentata negli ultimi anni dal governo ha raggiunto persino i cimiteri. Che uno degli aggressori abbia fatto fare nella stazione di polizia una foto ricordo con il ministro degli Interni arrivato la sera stessa per indagare sull’accaduto, ha gettato ancora sale nella ferita.
Che ora si tratti di Chopin o di Itri, è certo che la Turchia nei dibattiti sulle bande musicali per la sepoltura – normali o del corpo dei Giannizzeri -, nei dibattiti su monumenti o idoli, sull’evoluzionismo o il creazionismo, sta marciando verso una mostruosa spaccatura.

(articolo di Can DÜNDAR, pubblicato su “Die Zeit” del 20 settembre 2017)
 
 
 
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