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'I giornalisti non si fanno molte domande sulle loro responsabilità'
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Articolo di Redazione
19 dicembre 2018 9:19
 
D. Cosa è cambiato nella vita e nella diffusione dell’informazione?
R. A metà del XIX secolo, nelle democrazie occidentali, la stampa di informazione è nata col progetto di raccontare delle storie piuttosto che pubblicare delle opinioni. Ci si poteva mettere d’accordo su dei fatti. Si dava fiducia a chi li raccontava e a chi si dava spesso come scopo di smentire o verificare alcune voci. L’esempio di Nellie Bly ne è testimonianza. Nel 1887, questa giornalista è andata a verificare che cosa realmente accadeva nel ricovero di Blackwell’s Island, una struttura psichiatrica per donne al largo di Manhattan. Delle voci terribili circolavano ma nessuno era mai andato a verificarle. La Bly propose a Joseph Pulitzer, il suo datore di lavoro, di farsi passare per matta. E restò in questa struttura per dieci giorni, dopo di che pubblicò il suo reportage sul New York World, divenendo all’epoca una vera e propria star. Fu una vicenda che divenne un pilastro: opporre dei fatti a delle voci. Pubblicazione che poi portò alla chiusura del ricovero, E questa vicenda ha fatto del giornalismo un “testimone-ambasciatore”. Ambasciatore del pubblico, ma a condizione di essere testimone: di andarci col proprio corpo, coi i suoi sensi, non con le sue idee. Questa idea del testimone-ambasciatore pone evidentemente tante domande, ma è decisiva nella storia del giornalismo. Essa ha messo al centro della deontologia giornalistica l’accurancy, la “esattezza dei fatti”, dovuta al pubblico. Essa ha conosciuto delle crisi. Ma oggi tre novità sono state scatenanti.
D. Quali?
R. Innanzitutto, il modo di diffusione delle voci è diventato molto più efficace. Prima, si trattava di spazio privato in altrettanto spazio privato – dall'alcova al ristorante, dal divano al cuscino. Con le reti sociali, siamo in uno spazio nello stesso tempo privato e pubblico, si parla ad un auditorio privato ma talmente ampio che diventa pubblico. Questo pone il problema del modo di essere esatto di queste reti sociali che eludono in parte le legislazioni in materia di espressione pubblica. Nessun “direttore della pubblicazione”, e nessuno che assomigli allo “stampatore” o al “venditore”, previsti dalla varie leggi sulla libertà d’espressione.
Inoltre, l’abitudine della lettura sullo schermo modifica l’attenzione. Alcuni studi mostrano che è di più bassa qualità rispetto ad una lettura tradizionale. Un atto esige riflessione per apprezzare ciò che ci racconta. La nozione di fatto è sempre più evanescente. Io lo constato presso i miei studenti, di fronte ai “fatti” raccolti su Internet. Il carattere empirico del fatto, tangibile, catturabile dal corpo, e raccontato come tale, non è più un’evidenza.
Infine, c’è l’atmosfera complottista. Meno i media “ufficiali” parlano di una questione, più la stessa è considerata vera. E’ terribile! Nel regime di confidenza che c’era prima, il giornalista verificava al nostro posto. Esso rispettava delle regole che ci permettevano di credergli. Provava ciò che scriveva con dati sensoriali, documenti, fonti ritenute affidabili. Ha sempre avuto delle crisi di credibilità, grazie al fatto che talvolta la professione giornalistica ha tradito queste regole, ma ora, è il principio stesso di una credibilità fondata su delle regole che è rimesso in discussione. Mi riferisco a quello che il filosofo Theodor Adorno (1903-1969) intende come “personalità autoritaria”. Con altri pensatori, lui ha molto ben diagnosticato dei fenomeni di rigetto di ciò che dicono le élite sul mondo, a vantaggio di una costruzione molto solida che mescola una formidabile incredulità – non si crede nulla di ciò che ci viene detto – ed una credulità formidabile – si avvallano delle storie rocambolesche.
D. Perché questa credulità irrazionale?
R. “Populismo” è una parola intrappolata. Io preferisco dire – per essere fedele ad Adorno, essenzialmente - un'atmosfera affascinante, nutrita dal desiderio di ricostruire il reale. Accade su uno sfondo di vera sofferenza, ma porta anche ad un desiderio di autorità – di un’autorità che avrebbe mandato tutto in aria per ricostruire un altro mondo. La situazione socio-economica generale alimenta angoscia e sfiducia. Ma è stata anche, dopo diversi decenni, in questo Paese come in altri, un abbandono delle classi popolari da parte delle élite politiche di ogni parte e dei media. Si sono troppo poco raccontate e pensate le ineguaglianze sociali, le sofferenze di “classe” - come si diceva prima, quando Marx era ancora presente nelle costruzioni delle idee. E’ per questo che io capisco la rivolta. Ma le rivolte possono anche generare delle nuove forme di dominazioni. E’ tutto un problema.
D. Nel suo poema sulla statua di …. Giove, La Fontaine scrive: “L’uomo è di ghiaccio di fronte alle verità; ed è di fuoco per le menzogne”. Ne “La società dello spettacolo” (1967) Guy Debord ritiene che “in un mondo veramente rovesciato, la verità è un momento di menzogna”. Da quando il fatto è indebolito? E quindi, chi lo dice e lo scrive, cioè il giornalista?
R. La crisi del giornalista “testimone-ambasciatore” non è recente. Mettere in crisi tutti i mandati, in alcuni momenti, fa parte della dinamica democratica. Ma questo è diventato molto notevole a partire dagli anni 1980, sullo sfondo della crisi economica, con la caduta spettacolare delle vendite di giornali che era iniziata con la comparsa di Internet. Per rimediarvi, si è visto nascere in Usa il “giornalismo pubblico” o “civico”. Era l’idea che alcuni giornali devono essere fatti in pubblico per ricollegarsi ai loro lettori. Nello stesso momento, i politici hanno cominciato a cercare essi stessi i “veri cittadini”, Durante la campagna che opponeva Clinton a Bush padre nel 1992, i candidati hanno un po’ bypassato le grandi redazioni: essi inviavano preferibilmente dei fax ai giornali locali e cercavano di confrontarsi con dei cittadini comuni. Internet, all’inizio, ha prolungato questo speranza di una democrazia diretta che farebbe risorgere la politica e il giornalismo. Ci siamo ricreduti, in seguito.
D. Non proprio, se si considera che le reti sociali, Facebook e Twitter, permettono questo dialogo diretto mandando in corto circuito i media tradizionali?
R. E’ vero, ma in questo caso, il giornalista è completamente dimenticato. E odiato. All’inizio della Rete, si poteva pensare di sentire più cittadini, di scoprire delle forme di giornalismo fatte per dei non-professionisti, tutto questo avrebbe portato ossigeno al mestiere. ..... Ma ora, la crisi democratica e quella del giornalismo non hanno fatto altro che accentuarsi. Si misurano oggi gli effetti perversi delle nuove tecnologie.
D. Si è letto sulle reti sociali che Macron stava vendendo la Francia all’ONU nel firmare il trattato di Marrakech sui migranti. In cosa le fake news intaccano la percezione del vero?
R. Questa costruzione della realtà è un incubo! Ne siamo sconcertati. Ma non serve a niente condannare. Siamo allo stadio dove bisogna comprendere. Si è obbligati a comprendere la forza del sentimento di tradimento che tutta una parte della popolazione sente nei confronti delle proprie élite. L’ex-primo ministro Manuel Valls una volta disse che spiegare era già una scusa. Che stupidaggine! Dopo settanta anni stiamo cercando di spiegare il nazismo e nessuno sta pensando di scusarlo! E’ tempo di spiegare e di comprendere mobilitando tutte le scienze sociali. Nella rivista di filosofia “Prismes”, che ho co-fondato l’anno scorso (edizioni Sens&Tonka), abbiamo tradotto degli estratti di un’opera del 1949, “I profeti dell'inganno” di Leo Löwenthal e Norbert Guterman. I due sociologi, il cui lavoro è collegato a quello di Adorno, decriptavano, nella democrazia americana dell’epoca, i discorsi molto costruiti che servivano a presentare “il mondo” come “ostile”. Nessuna forma di mandato, elettorale o giornalistico, resiste ad un tale punto di vista. Sta succedendo qualcosa del genere. Lo sento persino nei miei studenti.
D. Cioé?
R. Io talvolta sento delle frasi eclatanti come: “Tra una fake news su Internet e un giornale di proprietà di una grande capitalista vituperato, perché dare più affidamento all'uno o all’altro?”. Queste sono le parole degli studenti in scienze politiche di Assas. Non appartengono, a priori, ad ambienti molto svantaggiati.
D. Quali sono le grandi minacce per l’informazione?
R. C’é una minaccia che va al di là della stampa: le relazioni col testo sono molto drogate. Un testo esige un’attenzione profonda, un tempo di lettura. Tutto questo non è in forma in questo momento. La buona notizia è che il documentario invece va bene. Un’altra minaccia concerne il finanziamento dei media. Guarda cosa l'economia attuale della stampa francese provoca come reazioni!
D. Quale responsabilità hanno i giornalisti in questa in questa sfiducia vis-à-vis dei media e della loro professione?
R. Una parte molto importante. Il mestiere non si fa molte domande sulle sue responsabilità. Il fatto che il giornalismo si faccia sempre più dietro un computer, è un vero problema, quando dovrebbe, invece, rendere il mondo meno virtuale e più reale. Penso a quegli editori che, alla fine del XIX secolo e nel XX secolo, non sopportavano che i loro reporter fossero in ufficio. E gridavano loro: “Non voglio vederti là”. So che questo, inviare dei reporter, pone anche dei problemi economici. Tutto è legato. Ma bisogna veramente ricostruire il contratto. Spero che il senso del lavoro sul terreno coinvolgerà le prossime generazioni.
D. Come ritrovare una credibilità? La nuova legislazione contro le fake news potrà contribuirvi?
R. Io non vedo altra soluzione che continuare a fare del giornalismo, il migliore possibile. Sperando che ci sarà sempre bisogno di realtà fattuali in una società che racconta qualunque cosa. Io non credo, al contrario, che questo tipo di mandato si ricostruisca con la legge. In Francia, la legge del 1881 evocava già “le notizie false” nel suo articolo 27. Io difendo questa legge contro quelli che la vogliono riscrivere ogni cinque minuti o aggirarla. Le due proposte di legge votate a novembre sulle fake news sono ora davanti al Consiglio Costituzionale. Esse prevedono, nei periodi elettorali, un nuovo reato, diverso da quello delle “notizie false” presente nella legge del 1881, e una procedura in merito per procedere spediti. Ci sarà quindi una libertà d’espressione per tutti i giorni, ed una libertà d’espressione speciale per i periodi elettorali. Io diffido delle eccezioni. Credo che ci saranno da aspettarsi degli effetti perversi. Alcuni giudici, nelle urgenze, rischiano di sospendere un’informazione che dopo magari si dimostrerà come esatta. O si rifiuteranno di farlo, per mancanza di elementi fattuali sufficienti, che saranno percepiti come una conferma delle fake news incriminate …

(intervista di Eric Fottorino a Géraldine Muhlmann, giornalista e politologa, pubblicata sulla rivista “Le Un” del 18/12/2018)
 
 
 
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