Esiste certamente una piccolissima fetta di risparmiatori
che potrebbero beneficiare di programmi di educazione
finanziaria, ma si tratta di percentuali da prefisso
telefonico, lo zero virgola qualcosa dei risparmiatori si
metterebbe a seguire qualche programma di educazione
finanziaria.
Allora la gente come puo pensare di
scegliere i propri investimenti?
Chi e causa del suo mal pianga se stesso!
5 marzo 2017 7:01 - ziogio
Innanzitutto ringrazio "federico6198" per gli ampi
chiarimenti molto interessanti che mi sono salvato per
potermeli leggere con più calma.
Chiedo invece ad Alessandro Pedone se non sia possibile con
quel milione che dovrebbe essere stanziato, se lo sarà,
anziché dei corsi scolastici che diventerebbe una cosa
lunga un bella AP che può girare anche su cellulari e
tablet con un DIZIONARIO FINANZIARIO interattivo ma
soprattutto semplice proprio per neofiti che pur leggendo e
seguendo giornalmente le notizie, analizzandole e
confrontandole con altre fonti non hanno la dovuta
dimestichezza specifica della finanza.
25 febbraio 2017 18:09 - federico6198
Si è realizzata una progressiva deregolamentazione dei
mercati finanziari :
Il sistema Banca d’Italia: quando i controllori diventano
controllati.
Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella
rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog il 13.1.2016;
ringraziamo l’autore Corrado Griffa ed AdviseOnly per la
gentile concessione alla riproduzione.
Nell’immaginario collettivo, Banca d’Italia (come altre
banche centrali) per decenni è stata una sorta di luogo
sacro, dove si studiava e reclamizzava il “sacro Graal”,
che però negli ultimi tempi sembra sempre più evaporato ed
alla mercé di critiche, spesso doverose: e quando gli dei
cadono, lo fanno precipitosamente e con gran rumore. Il
sistema dei controlli di Banca d’Italia viene sempre più
spesso messo sotto esame: valgano come esempi i casi delle
banche commissariate con significativo ritardo rispetto al
momento della percezione della crisi (leggi, crediti
inesigibili) e la carenza di effettivi controlli sulla
raccolta bancaria (leggi, obbligazioni subordinate).
Ma Banca d’Italia è davvero “super partes” nei
confronti delle banche italiane?
Vediamo di mettere chiarezza. Certo, la Banca Centrale
Europea ha accentrato molte funzioni, prima gestite dalle
banche centrali nazionali; ma le banche centrali nazionali
continuano ad avere un importante ruolo di vigilanza e
controllo sulle banche nazionali, in particolare quelle che
non rientrano nella “top list” vigilata dalla BCE.
Ricordiamo che le banche operanti in Italia sono 1.755
(banche in forma di società per azioni, BCC, casse di
risparmio, banche popolari, casse rurali ed artigiane, casse
raiffeisen, mediocredito, filiali di banche estere) e che
Bankitalia ha inoltre il controllo sugli intermediari non
bancari, sulle società di gestione ed intermediazione
mobiliare, su altri soggetti vigilati.
Ma chi sono gli azionisti delle banche centrali
nazionali?
Se la domanda ha una semplice risposta per Banca
d’Inghilterra, Bundesbank, Banque de France e Banco de
Espana, tutte possedute interamente dai rispettivi governi
(che nomina, ma non impone vicoli di mandato, ai governatori
ed ai consiglieri dell’organo di gestione), per la Banca
d’Italia la risposta è molto più frammentata, proprio
come i suoi azionisti; infatti, l’assetto proprietario
attuale di Bankitalia è il risultato di fusioni,
privatizzazioni, trasformazioni delle banche che, una volta
pubbliche, nel tempo si sono anche aperte all’azionariato
privato; nel caso di Banca d’Italia, l’essere azionista
non porta a indirizzare od indicare la rotta della gestione,
lasciata interamente alla struttura della Banca.
Una prima sorpresa: le banche italiane principali posseggono
complessivamente circa l’88% del capitale della banca
centrale.
I principali azionisti (dati aggiornati a settembre 2015)
sono IntesaSanPaolo (30,3%), Unicredit (22,1%), Generali
(6,3%), CariBologna (6,2%), INPS (3,0%), INAIL (2,7%) Carige
(4,0%), Gruppo CRAsti (3,1%, di cui 2,1% Biverbanca), BNL
(2,8%), MPS (2,5%), Cariparma (2,0%).
Un assetto alquanto peculiare: i controllati che formalmente
controllano il controllore, ma da cui dipendono
sostanzialmente; un evidente conflitto di interessi, a tutto
vantaggio del mantenimento e della prosecuzione della
“nomenclatura di sistema”.
Ai lettori potranno forse sorgere dubbi amletici
sull’effettiva modalità e “spontaneità” dei
controlli operati da Via Nazionale.
Ma le sorprese sono anche altre.
Il patrimonio della banca centrale è di 36,7 miliardi di
euro, inclusi i fondi rischi generali; a normativa attuale,
non corre l’obbligo per le banche azioniste di allineare
il valore della quota posseduta al valore del patrimonio
della banca centrale; alcune banche adottano il criterio del
costo storico, altre hanno adeguato il valore della
partecipazione negli anni. E spesso la rivalutazione così
effettuata ha “aiutato” i bilanci delle banche
partecipanti al capitale.
Ai partecipanti al capitale sono distribuiti dividendi per
un importo massimo del 6% del capitale stesso: si tratta,
quindi, di un importo massimo di 450 milioni di euro, da
dividere fra tutti i partecipanti. I restanti utili sono
destinati a distribuzione e/o accantonamento: accantonamento
alla riserva ordinaria, fino alla misura massima del 20 per
cento; accantonamento alla riserva straordinaria e ad
eventuali fondi speciali, fino alla misura massima del 20
per cento; distribuzione allo Stato (che non è azionista
della Banca d’Italia) per l’ammontare residuo: un
“beneficiario di ultima istanza”.
Trattandosi di partecipazione in una banca centrale, non
quotata e soggetta a restrizioni nella circolazione delle
sue azioni, una trattativa per la cessione di una sua quota
deve essere “benedetta” dalla Banca d’Italia stessa
(l’oggetto di una trattativa, allo stato peraltro
puramente teorica ed accademica, che sceglie l’eventuale
acquirente, fissando le regole della trattativa) e soggetta
alle sue indicazioni; “contendibilità” e
“liquidità” dello strumento sono quindi modeste,
diremmo assenti, e soggette a molteplici vincoli.
Una banca centrale che sembra usare pesi diversi, con
ritardo rispetto ai tempi richiesti, che si trova a vigilare
su banche che sono azioniste della banca centrale stessa; ce
n’è a sufficienza per chiedersi, come nell’”Amleto”
di Shakespeare, se “c’è del marcio nel manico del
sistema”.
Consob :
Consob, il caso della funzionaria
che vigila su stessa
La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita
a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo -
L’intervento e la replica
di Milena Gabanelli e Giovanna Boursier
Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a
responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati
a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore
dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria
all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la
correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati,
vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che
dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità
chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori
sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di
Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob
avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste
banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala
gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro
azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non
regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste
informazioni?
Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la
dirigente Consob ha un personale interesse. Da
un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi
irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca
nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di
vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni
della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su
cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato
compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche
per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli
risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una
mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le
dirigenze ai dipendenti.
Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per
salvare il salvabile di amici e clienti «influenti» ,
aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del
tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che
con il direttore della banca Consoli condivideva una
masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi
prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce
a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni
valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche
Paola Deriu.
L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del
2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima
assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel
massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10
casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli
addetti della banca hanno provveduto a soddisfare
l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi
c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza
dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la
storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di
vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine
2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di
circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di
vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al
responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco
che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca
stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono
di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la
vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga
dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione
dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital
gain».
Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la
rideterminazione del valore secondo perizia appena
effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e
tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno
dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di
Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che
la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il
ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre
specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato
entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a
posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima
dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle
plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore
dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e
quindi di plusvalenze non ne avrà.
L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella
nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di
chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di
prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le
azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe
Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso
una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di
attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland
milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio
cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico,
dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila
euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione
era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di
Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato
a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano
perché nella documentazione i dipendenti della banca si
comunicano internamente che la cessione è stata revocata e
trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di
fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro
società è in liquidazione.
Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione?
Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo
previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di
comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato
più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel
2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno
dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti
pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già
a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e
reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di
adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in
particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa
banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e
avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori.
Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il
problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la
banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al
malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle
responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di
migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso
tutto.
24 febbraio 2017 21:40 - giorgio canella
l'educazione finanziaria male non fa e , di sicuro, serve a
qualcuno e questo qualcuno sono le attività di formazione
....ma, se vogliamo cominciare dalle scuole, vuol dire che
ci vorranno 20 anni per educare gli italiani...nel
frattempo che succede ? mi avrebbe convinto di più
qualcosa che, fin da subito, avesse previsto di far pagare,
fino all'ultimo centesimo , chi imbroglia la gente e li
avesse definitivamente allontanati da qualsiasi attività
che ha a che fare col denaro, ma non mi pare di avere visto
iniziative di questo tipo.....poi, se si riconosce che la
mancanza di educazione finanziaria è la prima causa delle
fregature prese dai risparmiatori è come dire che , per
avere un minimo di certezza che il medico prescriva ciò che
davvero serve, è necessario che il paziente sia laureato
in medicina ....mi pare una gran presa per i fondelli.
24 febbraio 2017 20:03 - lucillafiaccola1796
questi stanno li solo a rubà e non sanno governà...
l'abbiamo capito, anche i più stupidi. E poi mentono
spudoratamente. Vogliono 20 miliardi per il MPS, ma in
realtà al MPS servono solo 5 milardi. Gli altri li vogliono
ridare al padre della ministra etruria ed alle altre tre
fallite con tizia..no e caian..o coi soldi dei
Risparmiatori. Ma se paghiamo Noi Contribuenti, per non
perdere i risparmi, vogliamo GESTIRE NOI quanto E' DI NOSTRA
PROPRIETA'. PER SEMPRE. Non che Noi paghiamo e poi loro
svendono ai privati loro a..mici Miao! Stavolta a schifìo
finisce!
24 febbraio 2017 16:34 - savpg8801
Non per l'entità dello stanziamento, ma per il fatto che
non serve a nulla per una serie di motivi: se si organizzano
alcune ore di insegnamento scolastico, chi le porterà a
compimento? forse gli insegnanti di scienze o di italiano?
Anche quelli di matematica meglio deputati, che potranno
dire su questo variegato ed aleatorio mondo che viene
definito macroscopicamente" finanziario "? E se li
paragoniamo ai corsi di qualche ora per l'educazione di
lingua inglese o musicale o altre discipline accessorie dove
non escono se non muniti di traduttori Google o altri da
smartphone? O sempre sempre con phones in mano a scegliere
su Spotify o centinaia di altri net musicali? Se poi
spalmeranno questi soldi nelle tasche di qualche ente(ma
quale?) che con qualche seduta di una o due orette presso le
salette dei centri sociali illustrerà qualcosina per
esempio cosa sono i bot o i fondi comuni...sperando che si
possa condensare l'esperienza, mai bastante, di operatori in
campo da decenni, certo che dirò anch'io... avete ancora
una volta scaraventato i nostri soldi dalla finestra come si
faceva un tempo lontano in cui si buttavano le figurine
"alla coja", tipo Marchese del Grillo con le monete
incandescenti al popolo.
Certo, i governanti non sanno far altro che cavarsela
stanziando qualche somma del cittadino tassato, per
risolvere cose a cui servirebbe ben altro. Ma così chiudono
la seduta.
24 febbraio 2017 0:27 - federico6198
Olivia :
Grazie spero di essere stato utile
24 febbraio 2017 0:17 - Olivia
Bellissimo commento Federico 6198, Complimenti!
23 febbraio 2017 11:35 - NN1999
E l'educazione finanziaria di coloro che hanno posto in
essere contratti su derivati facendo perdere ancora oggi
all'Italia miliardi di euro? Ma con quale diritto questi
babbei (autocensura!!!) si permettono di fare queste cose?
Sarebbe possibile una class action contro costoro per il
ristoro dei danni?
23 febbraio 2017 1:17 - federico6198
1) Che cos'è l'analfabetismo funzionale e perché riguarda
la metà degli italiani
Il 47 per cento degli italiani, pur sapendo leggere e
scrivere, non riesce a comprendere le informazioni e a
interpretare la realtà. Ma chi è un analfabeta funzionale?
Enrico Mentana conia il neologismo webete
Sanno leggere, scrivere e fare i calcoli. Ma non sanno
comprendere e interpretare la realtà che li circonda e le
informazioni a cui sono esposti. Non riescono a capire un
articolo di giornale pur riuscendo a leggerne le parole, non
riescono a compilare una domanda di lavoro o a interagire
con strumenti e tecnologie digitali e comunicative e
rimandano ogni informazione alla propria esperienza diretta.
Sono gli analfabeti funzionali.
L'analfabetismo funzionale – diverso da quello strutturale
di chi non è in grado di leggere e scrivere – è un
fenomeno sempre più diffuso, secondo cui un individuo ha
imparato le basi della scolarizzazione, ma non è in grado
di leggere i termini di un contratto, di compilare una
domanda di lavoro, di interpretare o riassumere un testo.
Secondo la definizione del rapporto Piaac-Ocse, un
analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto
quello che legge in maniera acritica, non riuscendo a
“comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con
testi scritti per intervenire attivamente nella società,
per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le
proprie conoscenze e potenzialità”.
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In Italia il 47 per cento degli individui è analfabeta
funzionale. Lo rivela lo Human development report 2009, un
indice calcolato tra i paesi dell'Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). L'Italia,
avendo un alto numero di analfabeti funzionali, si trova in
una posizione alta in classifica.
“Una persona è funzionalmente alfabetizzata se può
essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali
l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento
del suo gruppo e della sua comunità e per permetterle di
continuare a usare la lettura, la scrittura e la
computazione per lo sviluppo proprio e della sua
comunità”. Questa è la definizione di alfabetismo
funzionale che dà l'Unesco nel 1978.
Analfabetismo è l'incapacità dell'individuo di decifrare
l'ambiente e partecipare alla società in cui vive,
incapacità di usare abilità in modo funzionale in
attività tipiche della vita quotidiana, come leggere gli
orari dell'autobus o usare un computer.
Quanti sono gli analfabeti funzionali in Italia?
Secondo Tullio De Mauro, noto linguista, gli analfabeti
funzionali in Italia sarebbero addirittura l'80 per cento,
dal momento che “soltanto il 20 per cento della
popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi
indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per
orientarsi in una società contemporanea”.
Le indagini statistiche a cui si riferisce De Mauro
compaiono in due volumi diversi: La competenza alfabetica in
Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione (Franco
Angeli, 2000) e Letteratismo e abilità per la vita.
Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni
(Armando editore, 2006).
Negli anni Cinquanta l’analfabetismo vero e proprio in
Italia riguardava il 30 per cento dei cittadini, che non
sapevano né leggere né scrivere, ma con l’espansione
dell’istruzione scolastica gli analfabeti assoluti sono
diminuiti, fino a toccare oggi una percentuale bassissima.
Nel 1861, l'Italia contava una media del 78 per cento di
analfabeti con punte massime del 91 per cento in Sardegna e
del 90 per cento in Calabria e Sicilia. Due anni prima, nel
1859 fu introdotto per la prima volta l'obbligo di due anni
di scuola, poi diventati tre nel 1877 con la legge Coppino e
cinque nel 1904 con la legge Orlando. Nel 1923 la riforma
Gentile porta l'obbligo scolastico ai 14 anni.
Nell’Italia repubblicana l'obbligo scolastico gratuito di
8 anni (elementari e medie) fu inserito in Costituzione con
l’articolo 34. L'ultima importante riforma arriva nel
1963, e riguarda la scuola media unica, che porta al crollo
definitivo del tasso di analfabetismo.
Secondo i dati Istat oggi gli analfabeti strutturali, coloro
che non sanno leggere e scrivere, sono una minoranza.
Secondo il Rapporto delle Nazioni Unite sul Programma delle
Nazioni Unite per lo Sviluppo 2013 l'Italia si trova al
54esimo posto su 179 paesi analizzati, con un tasso di
alfabetizzazione del 99,2 per cento.
Secondo la ricerca Istat l'Italia in cifre del 2016, in
Italia il 6,3 per cento dei cittadini maschi ha una licenza
elementare, il 36 per cento la licenza media, il 6,8 per
cento ha un diploma di 2-3 anni, il 35,6 per cento ha un
diploma di 4-5 anni e il 15,3 per cento ha conseguito la
laurea.
Per quanto riguarda le donne, l'8,2 per cento licenza
elementare, il 30,5 per cento la licenza media, il 6,6 per
cento ha un diploma di 2-3 anni, il 34,9 per cento ha un
diploma di 4-5 anni e il 19,8 per cento ha conseguito la
laurea.
Analfabetismo funzionale e social network
“I social media danno diritto di parola a legioni di
imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere
di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito
messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola
di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”,
aveva affermato Umberto Eco, dopo aver ricevuto la laurea
honoris causa in Comunicazione e cultura dei media a Torino,
a giugno 2015.
Ormai il binomio analfabetismo funzionale-social network è
sotto gli occhi di tutti, dal momento che tutti hanno lo
stesso spazio per potersi esprimere. Gli analfabeti
funzionali sono definiti spesso coloro che non sono in grado
di comprendere informazioni, post e articoli condivisi sui
social network, creando polveroni e rivelandosi terreno
fertile per la proliferazione incontrollata di fake news,
condivise migliaia di volte in maniera acritica.
Enrico Mentana a tal proposito, qualche mese fa coniò il
neologismo webete, la crasi tra le parole web ed ebete, che
ha più o meno le stesse caratteristiche
antropologico-sociali dell'analfabeta funzionale che si
affaccia nel mondo dei social network.
2) La logica del senso comune
Anche se ogni persona utilizza una propria logica di
ragionamento esiste una logica propria del
buon senso che viene utilizzata da tutti: una logica della
quotidianità.
Per cuocersi un uovo al tegamino non c’è bisogno di
ricorrere alla matematica, le relazioni che
manipoliamo non sono gestite in maniera rigorosa.
La conoscenza condivisa è quella che la maggior parte delle
persone ritengono per buona anche se
quello che tutti pensano non è detto che corrisponda alla
verità.
La verità non è un concetto democratico.
Il concetto di senso comune non ha un significato univoco e
ciò ha indotto a darne valutazioni
molto diverse. Inteso come sinonimo di "buon senso" (ossia
come innata disposizione "pratica" a
comportarsi ragionevolmente nelle circostanze ordinarie
della vita) esso viene di solito apprezzato
positivamente. Se gli si attribuisce un significato
conoscitivo (intendendolo come un bagaglio di
conoscenze, giudizi, convinzioni e principi largamente
condivisi anche da chi non ha particolari
competenze) può essere valutato in modi opposti. Infatti è
possibile vederlo come atteggiamento
ingenuo, acritico e molto spesso fallace (cui vengono
contrapposte le conoscenze precise e
criticamente vagliate del sapere specialistico e in
particolare scientifico).
Questo atteggiamento svalutativo è stato assunto dai primi
filosofi greci, e poi da molti filosofi della
modernità. Tuttavia sin dall'antichità è stata presente
anche una tendenza opposta: il fatto che certe
convinzioni e principi appaiano condivisi dalla stragrande
maggioranza degli uomini è visto come
una garanzia della loro validità, che diverse filosofie
hanno cercato di giustificare. L'età moderna ha
"tematizzato" il problema del senso comune: sin dal
Settecento sono così apparse sistematiche
difese del senso comune, che si sono ripresentate anche in
seno alla filosofia contemporanea,
chiarendo per un verso la sua natura e, per altro verso, la
insopprimibilità della sua funzione in
quanto presupposto necessario per ogni discorso filosofico e
per la stessa scienza.
I saggi raccolti nel volume “valori e limiti del senso
comune” di E.Agazzi offrono una panoramica
abbastanza completa su questo insieme di problemi,
analizzando dapprima i principali tentativi di
caratterizzare il senso comune e le vicende della sua
considerazione nella storia del pensiero
filosofico. Vengono in seguito studiati i rapporti che il
senso comune intrattiene con la filosofia da
un punto di vista sistematico, ossia con le principali
branche in cui la filosofia stessa si suddivide.
Segue una parte dedicata allo studio dei rapporti fra senso
comune e scienza, sia da un punto di
vista generale, sia rispetto ad alcune discipline
specializzate.
Come conclusione, si considera il ruolo che la credenza e la
certezza (che sono le caratteristiche
salienti del senso comune) ricoprono in qualunque conoscenza
umana. In un momento storico come
il nostro, in cui si avverte l'urgenza di poter fare
affidamento su una qualche base "comune" per
affrontare i problemi che incalzano "globalmente"
l'umanità, questa complessa riflessione sul valore
del senso comune (che non esclude la presa di coscienza
anche dei suoi limiti rispetto ai saperi
disciplinari) appare ricca di significato e attualità.
Se l’universo è un gigantesco computer allora per ogni
evento dovrebbe esserci una precisa causa.
Quello che ci appare tuttavia è una aleatorietà degli
eventi anche se alcuni eventi possono essere
previsti con una certa probabilità. Questo significa che
l’osservatore possiede la conoscenza delle
cause che determinano l’evento.
Secondo Popper esistono tre mondi M1 mondo fisico M2 mondo
psichico M3 l’interazione tra i
due. Nel suo libro “la logica aperta della mente”
Ignazio Licata afferma che l’osservatore è un
generatore di mondi (M1 M2 M3). Una definizione ontologica
della realtà può fondarsi sulla
comunicazione (in principio era il verbo e il verbo era
presso Dio).
LA LOGICA EMOTIVA :
Tutti avrete sentito parlare dei test che hanno la finalità
di misurare il quoziente intellettivo (Qi) di una
persona.
Il quoziente intellettivo è un punteggio che esprime le due
capacità standard, quella verbale e quella
logico-matematica, e che è l’indice dell’intelligenza
classica esaltata dal sistema scolastico. Cioè, è
quell’intelligenza di cui è semplice constatare la
presenza nei risultati del “primo della classe”.
Il fatto che si ottenga un punteggio alto (cioè che tenda a
150 che è il punteggio massimo) può essere dunque motivo
di vanto o di soddisfazione personale, anche se non è un
punteggio che esprime l’intelligenza complessiva di una
persona.
Infatti, non sempre chi è stato il primo della classe è
riuscito a realizzare la propria personalità nella società
che ha trovato fuori dalle mura scolastiche. Anche se,
spesso, si può riscontrare, in chi ha un alto Qi, la
tendenza a sviluppare altre capacità che esulano dalle
competenze verbali e logico-matematiche (anche se, appunto,
non è una regola misurabile).
Così come, chi a scuola era il classico “intelligente ma
non studia”, ha spesso visto un’evoluzione esponenziale
della sua vita personale e lavorativa.
Ciò è dovuto al fatto che, per definire l’intelligenza
di una persona, complessivamente intesa, dobbiamo
considerare altre caratteristiche che vanno al di la delle
mere capacità verbali e logico-matematiche.
Tali capacità, che si affiancano a quelle standard, possono
essere sintetizzare dal concetto di intelligenza emotiva.
L’intelligenza emotiva rappresenta e convoglia tutta una
serie di intelligenze non esattamente enumerabili e non
precisamente misurabili che afferiscono alla sfera delle
capacità interpersonali.
Al di la di un elenco che se ne potrebbe fare (acutezza,
intuito, attenzione, destrezza, agilità, socievolezza,
precisione, rapidità, sensibilità ecc.) al fine di
esaminare i vantaggi di tali capacità, ritengo opportuno
analizzare gli ambiti attraverso i quali le intelligenze
interpersonali si sviluppano e possono dare valore alla vita
in termini di realizzazione di se stessi.
Numerosi psicologi sono giunti, di recente, alla conclusione
(in maniera concorde con quanto aveva definito Gardner) che
il Qi non è una misura sufficiente a definire le
potenzialità di un individuo quando questo si allontana dal
mondo accademico.
Infatti, hanno cercato di definire un concetto di
intelligenza emotiva che transitasse per la descrizione di
ciò che è necessario possedere per avere successo nella
vita. In particolare, Salovey definisce cinque ambiti
attraverso i quali le abilità personali si possono
sviluppare:
1.Conoscenza delle proprie emozioni. Essere consapevoli
delle proprie emozioni apre la strada alla conoscenza di se
stessi che a sua volta rappresenta la circostanza che ci
aiuta a gestire al meglio la nostra vita.
2.Controllo delle emozioni. Le persone che riescono a
gestire le proprie emozioni (dopo averne avuto
consapevolezza) sono meno esposte agli effetti nocivi degli
eventi negativi della vita (come una sconfitta o un
rifiuto), in quanto non si fanno travolgere dagli impulsi
emotivi che tali circostanze generano.
3.Motivazione di se stessi. Nel momento in cui si è capaci
di non farsi travolgere, in senso negativo, dagli impulsi,
si riuscirà ad essere speranzosi ed ottimisti ottenendo la
giusta motivazione per perseguire, nonostante gli incidenti
di percorso, gli obiettivi prefissati.
4.Riconoscimento delle emozioni altrui. La capacità di
ascoltare e comprendere le emozioni altrui (empatia)
predispone le persone che ne sono dotate ad una missione
sociale in quanto possono trasmettere ad altre persone la
capacità di essere consapevoli delle proprie emozioni e di
riuscire a motivarsi.
5.Gestione delle relazioni. Le abilità sociali afferiscono
a tutte quelle capacità che consentono agli individui di
influenzare gli altri (comunicazione, leadership, gestione
dei conflitti, sviluppo delle relazioni, ecc.).
Ovviamente non tutti hanno le medesime abilità e
all’interno di questi ambiti utilizzeranno al meglio
quelle che sono le caratteristiche più evidenti della
propria personalità emotiva.
Daniel Goleman, uno psicologo statunitense specializzato in
psicologia clinica e sviluppo della personalità, ha dato un
grosso contributo nel far comprendere che, attraverso questi
ambiti, ciascuno di noi, partendo dalla propria base
neurale, può innescare un processo di apprendimento per
migliorare quelle caratteristiche che in noi non sono
particolarmente sviluppate e che invece potrebbero aiutarci
per riuscire in un determinato contesto.