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Battesimi. Ovvero: la regina Elisabetta come don Camillo?
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
7 luglio 2015 19:02
 
E così, adesso, la “real bimba” britannica è stata anche battezzata e il suo nome, su cui, nell’attesa, si erano moltiplicate previsioni e scommesse, è stato registrato pure dalla Chiesa anglicana: Charlotte Elizabeth Diana.
Cronisti e commentatori ci hanno spiegato che “Charlotte” è un omaggio al nonno paterno, “Elizabeth”, ovviamente, alla bisnonna regina, e, buona ultima, “Diana”, a quella che sarebbe una giovanissima nonna (sempre paterna), se, in età ancora più giovane, non fosse scomparsa in un modo che ha del crudele.
Data la personalità di Diana, la sua effervescenza e irritualità, ma anche la sua tragicità, si capisce che per la corte britannica fosse problematico imporre alla nipotina il suo nome come primo (o unico) nome. Un nome, peraltro, oggettivamente troppo carico di suggestioni – quindi troppo pesante per le tenere spalle di una creatura che si affaccia alla vita e anche per quella che sarà una bambina, una giovinetta, una donna che ha tutto il diritto di crescere ed evolversi senza essere obbligata a rispondere alle aspettative, ma anche a dissipare i timori, di una eccessiva somiglianza con questa ingombrante nonna paterna. Tanto più ingombrante proprio perché fisicamente non c’è più.

Ma c’è un aspetto, in questa storia, che ha suscitato subito in me una sana ilarità. Mi è venuto in mente, infatti, un episodio di Don Camillo, il primo intramontabile romanzo del “Mondo piccolo” di Giovannino Guareschi , e sono andata a cercarlo, guidata da un vero indice con i titoli dei capitoli e non quegli asettici numeri che usano nei romanzi di oggigiorno.
Il capitolo, che avevo in mente io, è il secondo e si intitola, guarda caso, “Il battesimo”, in cui risulta l’effettiva somiglianza della regina Elisabetta con don Camillo.

Confesso che mi sento imbarazzata a dover riassumere una narrazione che, secondo me, è davvero unica, a ogni livello, sia letterario sia umano, e in questo capitolo, in particolare, intessuta di dialoghi fulminanti – tra don Camillo e i suoi interlocutori non solo terreni, perché c’è anche quello di lassù, il Cristo in croce sull’altar maggiore. Io ci provo, ma raccomando ai passanti di correre a leggere direttamente quelle pagine, e magari tutta la “favola”, come la chiamava proprio l’autore. Comunque, ecco qua il succo della storia.

Un giorno che don Camillo sta lucidando col sidol l’aureola di San Giuseppe, arrivano in chiesa, all’improvviso, un uomo e due donne, tra cui la moglie di Peppone, meccanico, capo del partito comunista e sindaco del paese.
Alla domanda di cosa vogliano, l’uomo risponde lapidariamente “C’è da battezzare questa roba”. La quale si rivela essere l’ultimo nato di Peppone. Dopo una breve scaramuccia verbale tra don Camillo e la moglie di Peppone, il prete si mette i paramenti sacri e si avvicina al fonte battesimale. E qui viene il bello. Alla domanda su come lo vuole chiamare, la donna risponde: “Lenin, Libero, Antonio”. Al che don Camillo, calmo, le dice di andare a farlo battezzare in Russia. Usciti i tre dalla chiesa, il Cristo ha parole severe verso il prete e gli dice che ha fatto “una grossa soperchieria” e che lo deve assolutamente battezzare. E a niente servono le rimostranze di don Camillo che sostiene addirittura di avere agito per il buon nome del Paradiso, perché, nell’ipotetico caso che questo bambino diventi una persona meritevole agli occhi di Dio, “come posso permettere che arrivi in Paradiso della gente che si chiama Lenin?”. Chiarito che al buon nome del Paradiso ci pensa Cristo da sé, a cui interessa che la gente sia onesta e non come si chiama, don Camillo si rassegna a trovare un modo per rimediare all’ingiustizia compiuta, ma non ha neppure il tempo di mettersi a pensare come, perché in chiesa entra Peppone col bambino in braccio e chiude la porta col chiavistello. L’intenzione è chiara: non uscirà di lì finché il bambino non sarà battezzato e col nome che vuole lui. E, tanto per essere convincente, depone il neonato su una panca, si toglie la giacca e si rimbocca le maniche. Don Camillo viene invitato dal Cristo, caso mai, a far capire a Peppone che dare nomi strani ai bambini può significare metterli nei pasticci da grandi, ma anche, se è necessario, a prendere le botte, a sopportare, a soffrire, seguendo l’esempio del suo Maestro.
Don Camillo si dice d’accordo di battezzare il bambino, ma “non con quel nome dannato”. E così l’incontro di pugilato tra questi “due omacci con le braccia di ferro” è assicurato. Dura una ventina di minuti e, alla fine, un suggerimento irrituale del Cristo, guida don Camillo nella mossa che stende Peppone. Che, rialzatosi da terra dopo un po’ di tempo, durante il quale don Camillo si è messo i paramenti sacri, porta infine il bambino al fonte battesimale e, quando il prete gli chiede come lo vuole chiamare, risponde: “Camillo, Libero, Antonio”. E qui ecco la generosità sorniona di don Camillo che suggerisce “Libero, Camillo, Lenin”, perché, aggiunge, i tipi come Lenin, quando hanno vicino un Camillo, “non hanno niente da fare”.
Ecco, a parte l’assenza di sberle fisiche (perché su quella di sberle mentali e morali non metterei la mano sul fuoco), mi sembra che quella vecchia volpe della regina Elisabetta, sorniona come pochi, si sia comportata allo stesso modo: ma sì, mettiamo alla bimba anche il nome di “Diana”, ma all’ultimo posto (come Lenin) e con accanto “Elisabetta” (come Camillo), perché una Diana, con l’Elisabetta accanto, “non ha niente da fare”. O, almeno, così, alla corte inglese, si spera!

Altri link:
l’episodio del battesimo nella versione cinematografica, un po’ ritoccata rispetto al romanzo, si può vedere qui .
Sito ufficiale di Giovannino Guareschi 
Sulla serie di romanzi con protagonisti Don Camillo e Peppone

 
 
 
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