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Trappole trappoline trappolotte /1
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
21 gennaio 2018 13:57
 
 Avviso ai lettori: in calce all'articolo è pubblicata la replica di Change.org

Titolo scherzoso per una materia che tanto scherzosa non è.
Nel 2017, infatti, mi sono ritrovata a dover sistemare tre questioni, secondo me, “trappolose” (tanto per continuare nell’invenzione fantasiosa di variazioni sul tema “trappola”).
Le tratterò una per volta, così fanno più figura. No!?
Comincio con la situazione, in cui mi ha aiutato la fortuna.
 
Riguarda Change.org.
Divido queste noterelle in due parti.
Dapprima il racconto della mia avventura e poi un riassunto di ciò che sono venuta a sapere, cercando informazioni su Internet su questo colosso delle petizioni; in particolare un articolo comparso su “L’Espresso” con la data del 18 luglio 2016, a firma di Stefania Maurizi.
 
La mia avventura
Non so come né quando, ma qualche anno fa mi sono trovata a ricevere le petizioni di questa piattaforma e ne ho pure firmate, anche se non condividevo al cento per cento il contenuto, guidata dall’idea che poteva essere un bene che certe cose fossero portate all’attenzione delle autorità (europee, nazionali o locali, a seconda dei casi).
Ogni tanto, in coda alla petizione, veniva l’appello a sostenerla economicamente, con una donazione anche piccola. Non so se ho fatto qualche piccola donazione in passato, ma è certo che ne ho fatta una di 3 euro il 23 agosto 2017. Pensavo di aver fatto la donazione “una tantum”, perché non avevo letto niente che mi facesse pensare a un’altra opzione.
Ma quando, dopo pochi minuti, mi arrivò la mail di ricevimento da parte di Change.org, mi venne un colpo leggendo che, secondo loro, avevo preso un impegno mensile (e, poi, fino a quando?).
Di lì a poco altra mail che mi chiede di confermare il mio indirizzo mail, e poi un’altra ancora dello stesso tenore.  Non confermo niente e intanto vado a vedere il settore da loro indicato nel caso uno ritenesse di aver ricevuto quella loro mail per errore. Ma mi trovai in un ginepraio, fra l’altro inizialmente in inglese (poi riuscii a trovare la stessa cosa in italiano!). Ma le opzioni non mi convincevano, e così mi limitati a non rispondere alle loro sollecitazioni di confermare il mio indirizzo mail. Ma naturalmente ero parecchio agitata e pensavo di dover disturbare un mio amico che sa l’inglese e che si muove bene in questi frangenti.
Finalmente, però, la mattina dopo, trovo una nuova mail che mi confortò. Conteneva infatti un nuovo riepilogo della mia donazione che veniva considerata “UNA TANTUM”!  Puf puf!
Così mi tranquillizzai.
Ma … il 22 settembre 2017, ecco la sorpresa. Sull’estratto conto della mia carta di debito, che uso per le operazioni su Internet, trovo un nuovo addebito di tre euro da parte di Change.org.
E qui mi agito e mi arrabbio. Ovviamente. Soprattutto perché mi avevano comunicato la registrazione del mio obolo come “una tantum”, e qui si rimangiavano la parola.
Ma … di nuovo una sospensione. Un’altra sorpresa che questa volta colpirà loro.
Perché, alla metà di settembre la mia Banca mi aveva comunicato che, per una questione di maggiore sicurezza, il 30 settembre sarebbe scaduta (molto in anticipo) la validità della carta in mio possesso per essere sostituita da un’altra, facente parte di un circuito, appunto, molto più sicuro. Piccolo neo: mentre la carta vecchia era gratuita, questa nuova sarebbe costata (ahimè) 16 euro all’anno.
A questo punto, tuttavia, il cambiamento della carta ha impedito a Change.org di continuare a spillarmi 3 euro al mese, e quindi i 16 euro del suo costo si stanno rivelando un guadagno, perché, altrimenti, in fondo a un anno ne avrei sborsati 36,00 (e per quanto tempo?)
Magari sarei anche riuscita, con l’aiuto del mio giovane amico, a bloccare questa grave scorrettezza, ma sarebbe costata fatiche e arrabbiature. Meglio così.
Gli spudorati, comunque, il 23 ottobre mi hanno inviato una mail così formulata: “Annapaola, perché non aggiorni i tuoi dati di pagamento?”. E qui mi è venuto da compiere, nel segreto di casa mia, un gesto al limite dell’oscenità.
Per tutta risposta ho preteso la cancellazione del mio indirizzo e ho ignorato la loro richiesta di motivarla.
Fine della storia.
 
L’inchiesta di “L’Espresso”
Nel colmo dello sconcerto e della rabbia feci una ricerca su Internet e scoprii un articolo interessante che era comparso su “L’Espresso”  nel luglio 2016 dal titolo “Così Change.org vende le nostre mail
In esso non si parla della meschinità che ho subito io, ma di qualcosa di ancora più grave: il commercio dei dati personali, di cui entrano in possesso. Si tratta di dati sensibili, perché legati a opinioni politiche e sociali. Nell’articolo si può leggere il prezzario, ottenuto con una certa fatica dalla giornalista e non smentito dalla piattaforma americana, applicato a chi lancia petizioni sponsorizzate da associazioni come le ONG fino ai partiti politici per ottenere gli indirizzi mail dei firmatari (che poi vengono usati per aggiornare questi ultimi sull’andamento della petizione). Le cifre vanno da 1,50 a 0,85 a indirizzo, a seconda che ne vengano comprati “solo” diecimila o si arrivi all’acquisto di più di cinquecentomila.
Change.org nel 2016 era sotto inchiesta in Germania,  perché viola le leggi di questo Paese in materia di privacy. Inoltre  l'azienda si è mostrata refrattaria ai rilievi di tecnici tedeschi che l’avevano invitata a cambiare sistema. Perché, per esempio, il fatto che essa metta a disposizione degli utenti un box, dove il firmatario dà l’assenso a essere aggiornato sull’andamento della petizione (da cui nasce il commercio dei dati), non rispetta la legge tedesca in materia di privacy, e quindi la piattaforma americana deve adeguarsi a questo fatto.
Inoltre, leggendo l’articolo, si viene a sapere che Change.org non è un’associazione no profit di stampo progressista, ma una sorta di costola dell’impresa sociale Change.org. Inc. , fondata nel Delaware (un paradiso fiscale USA), con quartier generale a San Francisco.
Ora, se è vero che permette a chiunque, anche a un senzatetto, di lanciare petizioni in modo gratuito, è altresì altrettanto vero che lucra abbondantemente con le petizioni promosse, come già detto, da tanti tipi di associazioni che hanno bisogno di avere un indirizzario mirato di persone che firmeranno volentieri le loro proposte.
Come ha spiegato la rivista “Wired”, se uno ha firmato una petizione sugli animali, l’azienda sa che quella persona avrà una certa tendenza (quantificata con precisione) a firmare una petizione anche sulla giustizia. E ancora di più sulla giustizia economica, per i diritti degli immigrati e per l’istruzione.
Ecco, in breve, le magagne di Change.org.. Roba grave, come si vede. E nel turbinio di soldi, che ci possiamo facilmente immaginare, che pretenda anche di spillare soldi dai firmatari delle petizioni “per allargare la platea dei firmatari”, facendo giochetti come quello di cui sono rimasta vittima io, mi pare una bella presa in giro della buona fede della gente comune. Degna di un serio e severo pollice verso.


PUBBLICHIAMO DI SEGUITO LA REPLICA DI CHANGE.ORG

Change.org: siamo dalla parte dei nostri utenti

In riferimento all’articolo pubblicato il 21 gennaio 2018 sul sito Aduc, Change.org risponde all’autrice, Annapaola Laldi.

Andando con lo stesso ordine delle questioni affrontate nell’articolo, ci teniamo a riportare la nostra versione dei fatti sull’esperienza dell’utente. Chiaramente siamo dispiaciuti che gli avvenimenti l’abbiano portata a pensare che Change.org voglia ingannare i suoi utenti.

Non è così. In merito all’operazione effettuata il 23 agosto 2017, Annapaola Laldi ha versato 3€ per aumentare la visibilità di una petizione, come giustamente riportato. In seguito alla promozione (azione univoca), noi di solito proponiamo agli utenti di sostenere la missione di Change.org facendo diventare il proprio contributo, dal mese successivo, un sostegno regolare alla piattaforma. Quest’azione è del tutto facoltativa e non necessaria ai fini della promozione: l’utente può liberamente decidere di non aderire. Per approfondire alleghiamo una schermata del messaggio che il sistema propone all’utente.

Come l’utente ha riportato, il sistema invia il resoconto dell’operazione anche via email. Nel momento in cui l’utente, quindi, dovesse accorgersi di aver erroneamente aderito a un contributo regolare, può interromperlo in qualsiasi momento. Infatti, basterà cliccare sul collegamento dedicato alla cancellazione presente nell’email che Change.org invia come ricevuta dell’operazione. Oppure, è possibile cancellarlo accedendo al proprio profilo su Change.org (come spiegato in questa guida che abbiamo pubblicato anche sul sito per maggiore trasparenza). Infine, noi rispondiamo a tutti gli utenti che ci scrivono agli indirizzi di contatto sempre indicati (e ce n’è uno ad hoc per chi contribuisce mensilmente: [email protected]) e ci occupiamo di risolvere in tempi brevi ogni problema.

Change.org non è una no-profit e non si è mai spacciata per tale. Change.org Inc. è una Public Benefit Corporation, un’impresa sociale con sede negli Stati Uniti (come esplicitato anche nelle nostre email). La nostra missione è quella di permettere alle persone, ovunque si trovino, di creare il cambiamento che vogliono vedere e crediamo che il modo migliore di raggiungere questo obiettivo sia combinare la visione di una no-profit con l'innovazione e la flessibilità di una start-up. Questo approccio ci permette di mantenere la piattaforma di petizioni gratuita e aperta per tutti. Per questo, per riuscire a sostenere gli ingenti costi, ci affidiamo al libero contributo dato dai nostri utenti.

Per quanto riguarda le accuse su “Change.org vende le email dei suoi utenti”, che l’autrice dell’articolo riprende da un pezzo pubblicato sull’Espresso nel giugno 2016, sono già smentite dalle parole dell’allora direttrice Elisa Liberatori Finocchiaro. Per chiarimento: fino al 1 agosto 2016, giorno in cui in Italia è stato dismesso, il modello di business della nostra azienda prevedeva un servizio di lead generation, offerto in modo legale e trasparente, rivolto principalmente alle associazioni di volontariato, per ampliare la propria platea di possibili donatori e volontari. Ogni utente aveva la possibilità - ogni volta che firmava una petizione sponsorizzata (e valeva solo per questo tipo di petizioni chiaramente identificate) - di decidere se voleva essere contattato dall’organizzazione che sponsorizzava l’annuncio e che solo in tal caso acquisiva la sua mail. Questo modello non è più attivo in tutto il mondo, non abbiamo contratti in essere con organizzazioni per acquisizione di email e ogni accusa in tal senso è falsa.
 
 
 
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AVVERTENZE. Quotidiano dell'Aduc registrato al Tribunale di Firenze n. 5761/10.
Direttore Domenico Murrone
 
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