L’85,7% degli italiani ha acquistato, almeno una volta, un prodotto di marca al discount. «Del resto, ormai, il 70% dei discount mostra a scaffale una presenza rilevante dei brand, rispetto alle private label. Qualità, investimenti in ricerca&sviluppo sono però alcuni tratti che distinguono i primi dalle seconde. È difficile che la stessa azienda produca gli uni e le altre. Forse è successo solo in un primo momento, al debutto sul mercato della marca privata»: commenta così Francesco Mutti, presidente di Centromarca e a.d. dell’omonima azienda parmense specializzata nella lavorazione del pomodoro, uno dei risultati più interessanti emersi dall’Osservatorio permanente sui consumi della stessa associazione. Ossia il dato sulla presenza dell’industria di marca in un canale di vendita come il discount che, puntando tradizionalmente sulla convenienza, ha sempre scommesso poco sui marchi, commercialmente parlando. «Eppure persino in Germania, dove nascono i discount, queste insegne hanno aperto ai brand», rilancia Mutti, rinfocolando la lunga diatriba sulla sfida brand-marca del distributore e ricordando che è dagli Anni ‘70 che le insegne della distribuzione parlano del tramonto della marca.
Secondo l’Osservatorio Centromarca su dati Niq, tra grandi e medie marche il peso dei brand è stabilmente del 54,5% in supermercati, iper e libero servizio, contro un 22,7% della marca privata, nel periodo gennaio-settembre 2024.
Mutti: vorrei l’origine della materia prima rigorosamente sul fronte dell’etichetta
Più che sulle percentuali di quote di mercato, invece, forse meglio concentrarsi sulle prospettive di tutto il largo consumo nel 2025, anno in cui «credo senz’altro ci sarà una discreta stagnazione. La complessità vissuta anche nel 2024 rimane e diventa un dato di fatto», aggiunge il presidente di Centromarca che, a margine della presentazione del nuovo Osservatorio, risponde anche sulla recente inchiesta della Bbc sulla presenza di pomodoro cinese nelle conserve italiane. «L’industria di marca viene scelta per la sua qualità. Quindi, lo spettro della passata italiana fatta con pomodoro cinese è un danno di immagine per il Sistema Paese, anche perché il 98% del settore è lontano da queste pratiche. Vorrei l’origine della materia prima rigorosamente sul fronte dell’etichetta». Peraltro, i brand credono e investono nella comunicazione arrivando a pesare quasi il 24% del totale inserzionisti pubblicitari (dato Nielsen 2023). Dal 2019 al 2023, hanno mantenuto una media annuale di spesa in réclame al rialzo del 2,1%, contro il -0,6% del totale mercato e il +0,1% del largo consumo.
Digitalizzazione, logistica, scambio di dati: le sfide del largo consumo
Quali sono le priorità del largo consumo, secondo Mutti? Sicuramente l’efficienza della filiera che è già a un buon livello, secondo il presidente dell’associazione italiana dell’industria di marca che riunisce circa 200 imprese e i loro oltre 2.400 marchi, spaziando dall’alimentare alla cura della casa e della persona, dal bricolage ai giocattoli. Ma in una prospettiva di progressiva concentrazione delle aziende della distribuzione «non sempre uno sviluppo in questa direzione è sano», avverte Mutti, «quando anche il mancato rinnovo di un contratto può arrecare svantaggi alla filiera. Un rischio che c’è in Italia così come in altri mercati nazionali come quello francese, dove però», prosegue Mutti, «c’è una legislazione molto attenta e dettagliata, per esempio alla tempistica di chiusura dei contratti». La concentrazione nella distribuzione moderna italiana resta un tema aperto, molto evocato e non sempre realizzato, motivo per cui l’appunto di Centromarca risulta ancora più interessante.
Certo è, ha aggiunto lo stesso Mutti, che «ci sono attorno mille micce accese. Penso alle sfide comuni a tutto il largo consumo, che diventano anche proposte al governo e di cui potremmo vedere i primi risultati l’anno prossimo. Tra le scommesse principali c’è la digitalizzazione, la logistica che peraltro ha costi molto fluttuanti e ancora lo scambio di dati, che ancora non vengono condivisi tra i vari protagonisti della filiera ma che, oggi più che mai», conclude Mutti, «sono basilari per fotografare stili di vita di consumatori non solo sempre meno fidelizzati ma anche sempre più divisi tra quello che dichiarano nelle indagini di mercato e quello che realmente fanno all’atto dell’acquisto».
(Marco A.Capisani su Italia Oggi del 13/12/2024)
CHI PAGA ADUC
l’associazione non percepisce ed è contraria ai finanziamenti pubblici (anche il 5 per mille)
La sua forza economica sono iscrizioni e contributi donati da chi la ritiene utile
DONA ORA