Plenaria del Parlamento europeo con menu fisso. Sulla lavagnetta c’è il piatto forte della casa: la PAC, la politica agricola comune. Quasi 350 miliardi di euro per i prossimi sette anni a sostegno degli agricoltori e degli allevatori europei e della loro produzione, con uno sguardo (che prova a essere sempre più attento) alla sostenibilità della filiera alimentare e alla tutela della biodiversità e dell’ambiente.
Ma il piatto è impegnativo e non è facile da digerire (anche se, ancora per oggi, potete scegliere fra l’hamburger di carne e quello vegano).
Il voto, in modalità spezzatino, è stato spalmato per tutta l’estensione della seduta plenaria, da ieri sera fino a venerdì pomeriggio. In ogni sessione si deciderà della sorte dei vari emendamenti sui tre dossier che rappresentano solo la prima tranche della più globale riforma della PAC post-2020. Una riforma che è figlia delle battute finali della scorsa legislatura e che, secondo molti detrattori, non sarebbe oggi sintonizzata con gli obiettivi di politiche verdi e sostenibili ancorate nel Green Deal ma anche in una strategia settoriale quale la Farm2Fork, che vuole accompagnare la trasformazione dei sistemi alimentari europei.
Dalla cucina, però – dove gli chef stellati sono almeno tre, quanti sono i principali gruppi del Parlamento europeo che puntellano la maggioranza von der Leyen, PPE, S&D e Renew Europe – sono arrivate modifiche dell’ultima ora, con l’anticipazione dell’inizio del voto che ha portato progressisti e ambientalisti – Verdi e GUE/NGL – sulle barricate, a chiedere un rifiuto in toto della riforma.
Proprio ieri c’è stata una notte dei lunghi coltelli (da macellai, s’intende), per quanto digitale (in ragione del rapido aumento di contagi da Covid-19 in tutta Europa, il Parlamento è tornato a riunirsi da remoto annullando ancora una volta la trasferta verso Strasburgo). Bocciato il primo emendamento posto al voto, quello più radicale, che, se approvato, avrebbe comportato il rigetto in blocco di quanto fatto finora. Il proposito era quello di riavvolgere il nastro e ripensare l’intero futuro della PAC alla luce della nuova agenda Green dell’Ue, come ricordato su Twitter anche Greta Thunberg.
Tornando al menu fisso, il primo pilastro della PAC al voto questa settimana è l’Organizzazione comune dei mercati (COM) dei prodotti agricoli, relatore il socialista francese Eric Andrieu – uno dei pochi rimasti dopo la slavina dei macroniani nel 2019 -. È all’interno di questo file che si combatte una delle battaglie più simboliche della riforma della politica agricola comune, quella sui
veggie-burger, diventata rapidamente icona della dicotomia fra conservazione del sistema di consumo com’è oggi e cambio di paradigma.
Due emendamenti nella relazione di Andrieu, approvata poco prima delle elezioni europee del 2019 dalla commissione Agricoltura del Parlamento, prevedono infatti il divieto dell’impiego di denominazioni relative a carne e latticini per prodotti che sono in realtà a base vegetale, ma che degli originali tendono a riproporre gusto, consistenza e apporto nutrizionale. Sarebbe uno stop senza appello, quindi, alla commercializzazione non solo dei
veggie burger, ma anche delle salsicce vegane e di prodotti “tipo yogurt” o “sostitutivi del formaggio”.
Quanto ai latticini, come si vede, il riferimento è più blando e tende a colpire etichettature che richiamino la somiglianza ai prodotti caseari. Da anni è infatti già vietato l’impiego di denominazioni come latte, burro e yogurt per prodotti che non derivino da latte animale (qualche eccezione è naturalmente tollerata, ad esempio latte di cocco e burro d’arachidi), come ha ricordato nel 2017 la Corte di Giustizia dell’Ue, insistendo sull’effetto fuorviante per i consumatori di prodotti che non indichino in maniera inequivocabile l’origine.
Una soluzione di compromesso potrebbe essere offerta oggi da una modifica presentata proprio da Andrieu a nome del gruppo socialdemocratico, che rimetterebbe alla Commissione europea la definizione ultima di una questione così spinosa.
Un provvedimento simile al
veggie-burger ban era stato approvato in Francia alcuni mesi fa («I termini bistecca e formaggio devono essere riservati a prodotti di origine animale»): proprio Parigi è, del resto, fra i
player più attivi (e con maggiori interessi) sui dossier agricoli europei.
Trovatevi il vostro nome, insomma, dicono i rappresentanti dell’industria tradizionale della carne e dei latticini, «ed evitateci questo scenario orwelliano». E indicano anche un precedente, all’attenzione dei colleghi: «Fate come con la margarina», che non è commercializzata come burro vegetale.
«Le nostre sono etichettature funzionali e informative per i consumatori», controbattono i pionieri della dieta ricca di proteine vegetali, tra cui anche molte multinazionali, da Nestlé a Findus, che si sono avventurate nell’universo in rapida crescita delle proteine vegetali – in Germania, ad esempio, la nazione più vegetariana d’Europa quasi un consumatore su due sta provando a ridurre l’acquisto di carne -. «L’uso di riferimenti culinari per i surrogati consente una più facile integrazione nell’alimentazione quotidiana», dice l’organizzazione dei consumatori europea BEUC. Secondo un suo sondaggio – tra l’altro – oltre il 40% degli europei interpellati sarebbe d’accordo con il mantenimento dei nomi, purché sia chiaro nell’etichettatura che si tratta di opzioni vegetariane e vegane.
Il sostegno a una dieta
plant-based è uno degli elementi chiave della Strategia Farm2Fork, il piano con orizzonte decennale presentato dalla Commissione europea a maggio che si pone come obiettivo la trasformazione in ottica sostenibile dei sistemi alimentari europei e la riduzione dell’impatto ambientale e climatico dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi – inquinano più di auto e furgoni messi insieme, dice Greenpeace.
La
Farm2Fork ha pure l’ambizione di guidare gli europei verso stili di vita e alimentari più salutari – anche attraverso una riduzione nel consumo di carni rosse e trasformate -, nella prevenzione di malattie potenzialmente letali, a cominciare da quelle cardiovascolari.
«Più salutari dei nostri? Quelli a base vegetale sono spesso prodotti chimici ultra-processati, ricchi in additivi, sali, grassi e zuccheri», tuonano i rappresentanti degli agricoltori a Bruxelles, come la potentissima COPA-COGECA. La lobby zootecnica, che si propone di tutelare la trasparenza nell’etichettatura nell’interesse dei consumatori, si è spinta fino a dichiarare di volersi ergere a tutela del «patrimonio culturale europeo», come la salumeria italiana.
«
Se non è fatto di carne non è un hamburger», è la campagna contro «l’abuso delle denominazioni» che si sta scontrando sui social con gli slogan di ambientalisti, produttori di alimenti a base vegetale e fieri vegetariani/vegani. Una campagna che si è presto materializzata nella sempre meno battuta metropolitana di Bruxelles, con una mossa dal fascino antico: pure nella fermata di Schuman, a due passi da Parlamento e Commissione, sono spuntati i manifesti – tributo al pittore di casa René Magritte – che illustrano la composizione di un hamburger vegetale per poi sentenziare:
Ceci n’est pas un steak.
(articolo di Gabriele Rosana su Linkiesta del 21/10/2020)