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Turchia. Un Paese bloccato
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Stati uniti d'europa di Redazione
18 settembre 2017 12:07
 
 Il film “Abluka”, infinitamente disperato, di Emin Alper narra come il sospetto disgreghi la vita delle famiglie turche.
Il quarantenne camionista Ali di Izmir, l’anno passato, ha denunciato la moglie per “offesa al nostro Presidente”. Alla denuncia l’uomo ha allegato una registrazione audio che dimostrava che la donna aveva inveito quando in televisione era comparso Erdogan. L’uomo chiedeva che la moglie fosse punita e aveva fatto domanda di divorzio. “Denuncerei anche mio padre, se insultasse il nostro Presidente”.
Nella costituzione psichica di Ali sono presenti i segni della depressione che ha colto la Turchia. L’ostilità seminata da Erdogan spacca la società e le famiglie. A causa dell’apparato di delazione alimentato dal governo, la Turchia vive una situazione di microblocco che rende superflui i controlli statali.
Il film “Abluka”, in programmazione questa settimana [in Germania] (titolo internazionale: Frenzy), porta sullo schermo questa situazione paranoide. Nel suo ultimo film “Beyond the Hill” il regista Emin Alper aveva fatto vedere le paure di una società che si arma contro un nemico invisibile. Adesso, in un film ancora dalle tinte fosche, si occupa del modo in cui il sospetto, piantato nella coscienza delle persone, aizza gli uni contro gli altri un Paese, città, quartieri, vicini e, sempre di più, anche o membri della stessa famiglia. Il film documenta come l’occhio del Grande Fratello, che ha sotto controllo ogni angolo a livello nazionale, si trasformi in un blocco totale che porta a livello locale le persone di un quartiere, a osservare ogni casa, ogni finestra, ogni vita, e a fare denunce.
Risultato: un isolamento, che dalle prigioni si riversa sulle strade, dalle strade nelle case, penetra attraverso gli schermi televisivi nei salotti, e si insedia sempre di più nella psiche. Un assedio totale, nel quale tutti bloccano tutti. Un potere statale, che con i controlli dei documenti, barriere di sicurezza, blindati ed elicotteri tormenta la società, e, grazie all’attitudine della piccola gente, penetra fin dentro le minime cellule della società. Una società inchiodata alla croce della paura.
Il film “Abluka”, classificato dal regista come “thriller psico-politico”, ci fa vedere da quale situazione psichica il camionista Ali registri la voce della moglie e corra alla polizia.
In questo fatto gioca un ruolo una moltitudine di fattori; la paura che qualcuno possa sentire, l’aspirazione ad accattivarsi le simpatie del potere, l’astuzia di approfittare della confusione, il rifiuto della propria irrilevanza servendosi di una denuncia; tutte quante motivazioni che nella storia hanno portato le società in mostruose catastrofi. Alla fine delle due ore vi sentite oppressi dalla distopia [immagine di una società spaventosa].
Il film ha un effetto infinitamente disperato. Tratteggia il ritratto di uno Stato che in tutta la sua grandezza ha dato in mano alla piccola gente volenterosa, che è caduta così in basso da cercare nella spazzatura materiale per costruire una bomba, la competenza della crudeltà, e che ha perduto la ragione nel terrore da esso stesso creato.
Le fosse comuni, che le squadre di sterminio su incarico della città, riempiono di cadaveri di cani, sono tremende. Eppure un cacciatore, che di nascosto accoglie un cane, ci infonde coraggio per il futuro.
In questo avvelenamento di massa, che dura da così tanto tempo, si cela anche il controveleno per la guarigione delle anime e delle ferite. Appena la Turchia lo riporterà alla luce, il Paese romperà il blocco, in cui è prigioniera.

(articolo di Can Dündar, pubblicato su “Die Zeit” del 06/09/2017)
 
 
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