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Donne in fuga
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Articolo di Redazione
22 marzo 2012 15:54
 
Das Frauenhaus Violetta di Zurigo è un rifugio per madri e figli che in famiglia subiscono violenza psichica, fisica, sessuale. Tetto spiovente e persiane alle finestre, la Casa delle donne sembra una comunissima abitazione unifamiliare, invece è sbarrata come una fortezza giacché ci sono uomini che non esiterebbero a entrare per vendicarsi e magari uccidere. Bunker, ma anche luogo protetto e "isola di pace", come la chiama l'assistente sociale Amina.

"Ti trovo e t'ammazzo"
Giovedì pomeriggio. Cambio di turno e Amina riceve le consegne dalla collega. "Lena ha gli incubi". "Prende antidepressivi?" "La visita con la psicologa è fissata per la settimana prossima". "Può avere l'auto?" "Il Servizio sociale ha detto di sì; con i mezzi pubblici rischierebbe troppo".
Lena è una svizzera trentacinquenne entrata qui una settimana fa con la figlia di tre anni. La prima volta che suo marito ha perso il lume della ragione è stato quando lei ha parlato di divorzio. E' successo due anni e mezzo fa e da allora non la lascia in pace; ogni tanto rispunta all'improvviso e comincia a picchiare. Nessuno sa dove abiti né quando potrebbe colpire di nuovo. L'ultimo sms che le ha mandato: "Ti trovo e t'ammazzo".

I compiti dell'assistente
Prima d'occuparsi della sua serenità, Amina deve affrontare la violenza. La cosa più importante è il colloquio, che nella prima settimana avviene quasi ogni giorno. Ascolta semplicemente, le fa capire che le crede e sta dalla sua parte. "E' una cosa che rasserena e dà stabilità".
Quando Lena è più calma, affrontano le questioni pratiche: aspetti economici; le visite con il medico, la psicologa e l'avvocato; la denuncia contro il marito. La parte amministrativa è un mezzo importante contro la violenza.
Poi inizia l'opera di pacificazione. Si tratta di rafforzare la coscienza di sé, d'accompagnare la vittima verso i suoi diritti. "Le donne devono uscire di qui avendo sperimentato come si può provare pace e senso di sicurezza. Molte di loro non le conoscono, non hanno mai avuto una vita normale priva di violenza. Devono sapere che valgono qualcosa. E' quanto gli vorrei trasmettere".

"Lui sempre picchiato testa"

E' giovedì sera e Adeleke cucina per le ospiti e il personale. Ha 27 anni, è originaria del Togo e due giorni fa è entrata qui con i suoi cinque figli. Suo marito le diceva: "Io sono la legge, tu sei in mano mia". In cattivo tedesco spiega che per suo marito lei non faceva mai niente di buono "Lui sempre picchiato testa", dice a capo chino.
Racconti di violenza. Nella sala giochi i bambini dipingono storie dai colori accesi: esseri enormi dalle bocche spalancate e denti come speroni di roccia. Al piano di sopra, nella sala fumatori, le madri si scambiano le loro storie. In ufficio tutti questi racconti riempiono un'intera parete di raccoglitori.

Ci sono persone convinte che le storie di violenza abbiano trasformato Amina e colleghe in nemiche degli uomini, che le Case delle donne siano luoghi dove si coltiva l'odio verso il maschio e dove si fa di tutto per togliere i figli ai padri. L'anno scorso due organizzazioni hanno chiesto, con l'aiuto corposo dei media, di chiudere le 18 Case esistenti, o quanto meno di pubblicare il loro indirizzo segreto. Ma poco tempo fa un tribunale ha rigettato l'istanza.
In realtà, queste strutture sono largamente accettate e la loro utilità non è messa seriamente in dubbio da nessuno. Le assistenti non s'arrabbiano nemmeno più. Sarebbe una ben misera soddisfazione maledire gli uomini! E anche penosa per le ospiti. "Molte sono ancora innamorate", dice Amina. E ci sono donne che non vogliono separarsi perché da straniere dovrebbero poi abbandonare la Svizzera.

Una spirale di maltrattamenti, dipendenza, amore

Alcune donne sono talmente abituate a essere maltrattate da non riuscire nemmeno a immaginare qualcosa di diverso, sorde a qualsiasi alternativa. Spesso subentra un meccanismo opaco, dove la vittima non odia semplicemente il suo carnefice, ma ne dipende, lo ama e vorrebbe tornare da lui. La pacificazione come la intendono Amina e colleghe è una faccenda complicata, da non dormirci la notte. L'unica cosa certa è che la Casa è sicura. Senza la videocamera al portone, senza le serrature di sicurezza, senza il "bunker", non ci sarebbe pace.

Difficoltà economiche perché l' argomento è ostico
Se non esistessero le Case delle donne, dove troverebbero rifugio Lena, Adeleke, la macedone Memnune? Potrebbero anche essere già morte. Sei anni fa, l'Ufficio statistico federale pubblicò un unico rapporto speciale sugli omicidi registrati tra il 2000 e il 2004. In media 25 donne all'anno vengono uccise nell'ambiente domestico -due al mese. Ma è solo la punta dell'iceberg perché sotto si nascondono le sopravvissute. Nella sola città di Zurigo, nel 2010 la polizia è intervenuta 368 volte per episodi di violenza domestica e nel 95% dei casi gli autori erano uomini. Poi c'è il grosso dell'iceberg sommerso e perciò invisibile, in quanto molte donne hanno troppa paura o vergogna a chiamare la polizia.
Peccato che le Case delle donne debbano lottare tanto con i soldi. Per lo più sono strutture nate da fondazioni private, e benché fruiscano di sussidi pubblici e donazioni private, molte di loro hanno i conti in rosso e sono costrette a respingere domande di aiuto.
Susan Peter è una delle amministratrici, ed è sempre a caccia di soldi. Ciò che desidera soprattutto è una ricerca seria sui costi della violenza domestica. "A quel punto avremmo finalmente gli argomenti che la politica potrebbe far propri". Le ricerche sui costi si fanno su tutto: si studia quanto si spende per la raccolta dei rifiuti, quanto per l'obesità infantile, persino quanto ci vengono a costare i passaggi a livello incustoditi. E sono tutti studi collegati a misure economiche, a campagne mediatiche e a programmi di prevenzione. Perché per la violenza domestica è così difficile farlo? Perché non c'è un partito che prenda di petto questo tema?

(traduzione e adattamento di un articolo di Yvonne Staat per Beobachter.ch del 15-03-2012, A cura di Rosa a Marca)
 
 
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