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Guida in stato d'ebbrezza, è possibile la continuazione
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
26 ottobre 2009 10:18
 
La sentenza del GUP presso il Tribunale di Forlì, che ha riconosciuto l'applicabilità dell'istituto della continuazione tra i reati, relativamente a due fatti di guida in stato di ebbrezza commessi a distanza di un anno l'uno dall'altro, attese le medesime circostanze di fatto, la violazione della medesima disposizione di legge ed il presunto ristretto lasso di tempo intercorso tra i fatti-reato, merita alcune riflessioni.
Il provvedimenti in commento, infatti, si pone al di fuori dell’insegnamento ormai costante della giurisprudenza di legittimità.
E’, infatti, notorio il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale che può essere utilmente sintetizzato dalla pronunzia della Sez. IV della Suprema Corte di Cassazione del 25 Novembre 2004, n. 1285 (rv. 230715)[1], la quale ha affermato che “La continuazione può essere ravvisata tra contravvenzioni solo se l'elemento soggettivo ad esse comune sia il dolo e non la colpa, atteso che la richiesta unicità del disegno criminoso è di natura intellettiva, e consiste nella ideazione contemporanea di più azioni antigiuridiche programmate nelle loro linee essenziali”.
Prima, quindi, di affrontare direttamente il fulcro della questione, cioè il tema della compatibilità – o meno - del reato di guida in stato di ebbrezza con l’istituto della continuazione, si deve notare che il richiamato indirizzo del giudice di legittimità propone – illico et immediate – una palese distinzione all’interno della categoria dei reati contravvenzionali, con specifico riguardo all’elemento psicologico che giunga a connotare e contraddistinguere la condotta.
Si tratta di una chiara evoluzione ermeneutica dello spettro interpretativo dell’art. 42 comma 4 del codice panale, il quale recita “..Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.
Stando, infatti, ad una lettura rigorosa del testo codicistico, la disposizione in parola veniva interpretata come previsione legislativa che imponesse l’esclusione di qualsiasi forma di indagine in ordine alla tipologia ed alla qualificazione dell’elemento soggettivo.
Si affermava, infatti, con riferimento alla norma in parola, che il reato contravvenzionale presupponesse, per la sua perfezione, la sussistenza di una presunzione, quantomeno, di colpa-
Tale concetto veniva sintetizzato ed esemplificato, in giurisprudenza, dalla sentenza del Tribunale di Milano, 17 Giugno 2000[2] “….L'elemento psicologico nelle contravvenzioni è costituito almeno dalla colpa. La buona fede esclude la colpa e consiste in una ignoranza scusabile della legge penale. Elementi positivi dell'errore incolpevole sono un quadro normativo equivoco, una giurisprudenza oscillante, un comportamento della p.a. tale da generare una presunzione di legittimità della condotta”.
E’ questa, un’impostazione che si riconnette e ricollega direttamente al dettato della Relazione sul Progetto definitivo del codice (penale), ove si legge che “..pur senza escludere che le contravvenzioni possono riconnettersi a dolo od a colpa, dichiara irrilevante ogni indagine sulla natura dell’elemento psicologico ai fini dell’esistenza del reato.
Questa interpretazione autentica della norma, la quale individua una presunzione iuris tantum (che ammette cioè la prova contraria)[3], non è stata accolta in modo pacifico in dottrina, sulla scorta sia dell’osservazione che non è possibile una volta ”presunto il dolo, è presunta la colpa[4], che di una più articolata esegesi dell’art. 42 co. 4°, disposizione che, per essere correttamente applicata, non può prescindere, sul piano interpretativo, dal collegamento sistematico con il co. 2° dello stesso articolo[5].
Quest’ultima argomentazione considera, poi, che la differenza che connota il rapporto fra delitto e contravvenzione non risiede tanto nella offensività delle singole condotte (si chè la contravvenzione attenga per definizione ai delicti minores) o nella ricordata irrilevanza dello scrutinio dell’elemento psicologico, (si chè nelle contravvenzioni viga, comunque, al riguardo una presunzione iuris tantum), quanto piuttosto nella circostanza che nelle contravvenzioni vige pari ed uguale dignità fra i due elementi psicologici (dolo e colpa), mentre per i delitti la regola di imputazione soggettiva è il dolo; la colpa e la preterintenzione, invece, costituiscono espresse deroghe di carattere eccezionale.[6]
Si deve, peraltro, osservare (come sottolineato in nota 6) che la struttura di talun illecito contravvenzionale può apparire talmente spiccata e delineata, da escludere ogni sorta di dubbio in ordine al tipo di elemento psicologico che necessariamente sottenda allo stesso, sì da inserire il reato, ictu oculi, o nella categoria dolosa od in quella colposa.
Si tratta, a parere di chi scrive, di ipotesi che si propongono, però, come eccezioni, indubbiamente importanti e non sottovalutabili ,ma pur sempre eccezioni.
Esse possono legittimare e suscitare, indubbiamente, la possibilità di una specifica valutazione ad hoc, la quale possa portare al risultato di qualificare la reiterazione delle condotte illecite, qualora espressione di un disegno criminose unitario, sussumibili nell’istituto della continuazione.
Esse, peraltro, (ed è ciò che maggiormente importa) non appaiono, comunque, idonee a provocare una sostanziale modifica della regola generale, che è orientata nel senso di escludere l’applicazione dell’istituto al delitto colposo[7] ed alla contravvenzione non espressamente dolosa.
Il problema dell’applicabilità dell’istituto della continuazione alle contravvenzioni, così posto, non pare, però, risolvibile, prima di avere considerato altri fattori che dispiegano rilevante importanza sistematica.
In primo luogo va osservato che il cd. reato continuato, previsto dall’art. 81 cpv c.p., postula testualmente l’esecuzione di “un medesimo disegno criminoso”.
Con tale formula, infatti, il legislatore ha inteso definire un unico, quanto articolato e complesso scopo che anima l’ideazione dell’agente.
Esso si traduce, quindi, in un fine di natura criminosa realmente perseguito, cui le singole volizioni (originariamente tra loro autonome) aderiscono ed al raggiungimento del quale si armonizzano, perdendo la loro individualità.
 In dottrina, dunque, non pare esservi dubbio in ordina alla circostanza che il programma criminoso vada, pertanto, identificato con lo scopo[8]-
Al programma infatti «è connaturato che l'ideazione avvenga in vista di uno o più scopi: cioè in vista della realizzazione di un risultato o di più risultati concreti, la prospettazione dei quali muove l'azione. Se così non è l'idea stessa di programma diventa priva di senso».
Il rapporto di strumentalità fra lo scopo e le singole azioni criminose viene sottolineato anche da LEONE[9], il quale qualifica il disegno criminoso «in un fine unico, inizialmente concepito, che si realizza via via nelle singole azioni delittuose. Ciascuna di queste è presidiata da una volizione; ma ciascuna volizione si ricollega all'ideazione complessiva. Il disegno criminoso, pertanto, va configurato come la centrale direttiva delle singole volizioni in quanto conferisce a queste il loro contenuto».
Le singole azioni, ancorchè dilatate in un ragionevole arco temporale, ancorchè  non immediatamente collegate tra loro, devono, pur potendo risultare eterogenee, presentare il carattere della compatibilità.
Esse, cioè, nella loro ontologica diversità, devono apparire poste tra loro in inequivoca relazione di natura finalistica, sì da permettere il perfezionamento del programma inizialmente ipotizzato.
In secondo luogo, va rilevato l’importanza che una parte della dottrina riconosce ed attribuisce all'elemento teleologico dell'unitarietà del fine[10], posto che l’indirizzo a raggiungere lo scopo unitario, fa sì che ogni singola azione, che postula una volizione e che si esplicita in autonomo comportamento illecito, finisca per perdere la propria individualità.
In terzo luogo, si osserva che l’assoluta indifferenza, che la Relazione al codice pare propugnare, in relazione all’indagine in ordine all’elemento psicologico, non inficia minimamente la circostanza che l’azione o l’omissione debba essere commessa dall’autore con coscienza e volontà.
Il principio – contenuto nel co. 1° dell’art. 42 c.p. – implica che i due canoni psicologici primari, costituiti dalla coscienza e dalla volontà dell’agente, incidano direttamente sull’aspetto di esternazione naturalistica dell’azione o dell’omissione, senza, però, potere venire confusi con il dolo, la colpa o la preterintenzione.
Vale a dire che la coscienza – intesa quale consapevolezza e capacità del singolo di intendere il proprio comportamento – e la volontà – intesa quale intenzione del singolo di assumere un particolare modo di essere – rilevano esclusivamente su di un piano, quello dell’esistenza del fatto, che appare del tutto differente e ubicato in posizione inferiore rispetto a quello occupato dall’elemento psicologico[11].
Essi, pur costituendo un espressione della sfera psichica dell’agente, costituiscono fattori che si segnalano per un carattere di cd. “neutralità” rispetto al dolo ed alla colpa.
In assenza di questi requisiti, la condotta, dunque, non può esplicare effetti tali da renderla penalmente rilevante.
Essa, infatti, si limita ad introdurre le condizioni di fatto (materiali o psicologiche) per verificare, poi, la sussistenza quanto meno della colpa.
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Venendo al caso di specie ed utilizzando le premesse svolte, va osservato che:
1)  Il reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186 CdS, fatta eccezione per la previsione del co. 7°[12] (la quale pare non prestarsi a dubbi in ordine al proprio carattere doloso, atteso che non pare ipotizzabile un rifiuto colposo, ma, al più, un’impossibilità fisico o psichica del singolo a sottoporsi alla verifica) non pare costituire ipotesi di contravvenzione dolosa.
2) Lo stato di ebbrezza alcolica, laddove tale condizione non sia stato il risultato di una predisposizione del soggetto, sciente, deliberata e diretta in maniera strumentale a condurre un veicolo in stato alterazione[13], consegue usualmente ad un atteggiamento di imprudenza da parte della persona.
L’imprudenza è, come noto, uno dei requisiti che vengono usualmente valorizzati per la sussistenza della colpa, ergo, di norma, lo stato di ebbrezza presenta un carattere colposo.
Altre volte, invece, può trattarsi di accidentalità, che seppur non scriminante, e ricomprendibile nel concetto di imperizia, non giunge a travalicare i limiti della colpa.
3) Va, quindi, rilevato che l’essenza del reato in parola – sul piano precettivo e materiale – si perfeziona in presenza di una attività di conduzione di un veicolo, da parte di una persona che versi nella necessaria condizione personale di alterazione sopradescritta.
Vale a dire, che l’aspetto saliente, ai fini della classificazione della natura della contravvenzione prevista dall’art. 186 co. 1 e 2 Cds, concerne esclusivamente la condotta presupposta (l’assunzione di sostanze alcoliche).
Essa, indubbiamente, costituisce il fattore qualificante e specifico di illiceità del reato in esame.
La successiva azione posta in essere dal soggetto in stato di ebbrezza e consistente nel porsi alla conduzione del veicolo, non rileva (né può rilevare) ai fini dell’individuazione di un elemento psicologico diverso dalla colpa o prevalente su di essa.
A conferma di tale assunto, va, infatti, notato in punto di fatto, che la maggior parte di coloro che vengano incriminati per il reato in parola, non sono affatto consapevoli di versare in re illicita.
Costoro, infatti, non sono consapevoli (in assenza di manifestazioni sintomatiche evidenti) di avere assunto alcool in misura da superare la soglia minima di punibilità.
Se manca in loro tale consapevolezza, come si può sostenere seriamente che essi abbiano dolosamente violato la norma, deliberando il comportamento penalmente rilevante?
Nell’ipotesi in cui una persona – che non presenta ictu oculi indici che possano indurre a ritenere lo stato di ebbrezza – venga sottoposta, a campione, ad un alcool test con esito positivo, infatti, non si potrebbe mai pervenire alla conclusione che essa si sia posta al volante con la deliberata e specifica intenzione di commettere il reato di cui all’art. 186 CdS, poiché – con un giudizio ex ante – apparirebbe del tutto carente la prova del dolo.
CONCLUSIONI
Le premesse svolte portano ad una unica plausibile soluzione che si pone in senso opposto alla decisione del GUP presso il Tribunale di Forlì.
Militano a confutazione della stessa:
a)      il dimostrato carattere eminentemente colposo della contravvenzione contestata all’imputato.
Come già detto ci troviamo dinanzi a comportamenti che sono caratterizzati da profili di eventualità ed accidentalità, profili inconciliabili con il concetto di dolo contenuto nell’art. 43 co. 1 c.p.[14];
b)      l’impossibilità di potere sussumere, con carattere teleologico, in un più ampio programma generale di carattere criminale, una serie di violazioni del tipo di quella oggetto del processo.
Il disegno criminoso, di cui all’art. 81 cpv c.p., non pare potersi reggere efficacemente sulla base di condotte, che paiono prive di quel requisito necessario consistente in una preventiva e reiterabile volizione criminosa, che presuppone, inoltre, una rappresentazione della complessiva condotta illecita[15].
In un contesto di fatto e di diritto del tipo di quello descritto, pare, inoltre, assai difficile poter sostenere l’esistenza della programmazione una serie determinata di episodi di guida in stato di ebbrezza, posto che, in tale caso, il soggetto dovrebbe dimostrare la non occasionalità del fatto occorso, prova che si reputa particolarmente difficoltosa.
Al di là della valutazione di carattere teorico sin qui affrontata, va rilevato, inoltre, che il lasso temporale che si frapponeva fra i due episodi distanziandoli (un anno) è stato ritenuto dalla prevalente giurisprudenza elemento sfavorevole[16] 
 


[1] CED Cassazione, 2005, Riv. Pen., 2006, 1, 138. La fattispecie era relativa al concorso tra la guida in stato di ebbrezza e il rifiuto di consentire agi organi della Polizia stradale l'accertamento dello stato di alterazione e la Corte ha confermato la sentenza del Giudice di pace che aveva escluso l'ipotesi di continuazione definendo la guida in stato di ebbrezza causata da imprudenza e negligenza.
Ora questo specifico tema – compatibilità fra le due condotte – non sarebbe più risolvibile nel senso prospettato dalla sentenza, atteso il riconoscimento del diverso bene giuridico tutelato dalle due norme e, quindi, l’ammissibilità del concorso fra le specifiche ipotesi.
[2] Foro Ambrosiano, 2001, 99 nota di IANNUCCELLI
[3] Tesi confermata da Autori come PANNAIN, BATTAGLINI e MAGGIORE (in ARDIZZONE Codice Penale Ipertestuale UTET, TORINO, 2007) ed anche da B. Alimena, Del concorso di reati e di pene, in E. Pessina (a cura di) Enciclopedia del diritto penale italiano, V, Milano, 1903, 407-408, il quale riconosce che "assai difficilmente possa incontrare un reato continuato colposo. Esso dovrebbe verificarsi quando, con una sola intenzione colposa, si compissero più azioni ognuna delle quali esaurisse gli estremi di un reato. Evidentemente, il problema potrebbe nascere, sol quando i primi effetti lesivi non fossero noti al continuatore".
[4] Così ANTOLISEI in MANUALE DI DIRITTO PENALE UTET Torino
[5] ARDIZZONE Codice Penale Ipertestuale cit.
[6] Così in dottrina MANTOVANI in Diritto Penale, Cedam, 1992 pagg 359 ss.
Va osservato, inoltre, che  il principio in base al quale le contravvenzioni possono essere sia dolose che colpose non esclude che talune contravvenzioni presentino caratteri specificamente dolosi (es. molestia o disturbo alle persone ex art.660 c.p ; abuso della credulità popolare:art. 661 c.p.) o specificamente colposi (es. rovina di edificio o di altra costruzione di cui all’art. 676, se in questo caso si ravvisasse il dolo si verterebbe in ambito di delitto).
[7] Per vero qualche eccezione può presentarsi anche in materia di delitto colposo come affermato da. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, II, ed. 5ª, aggiornata da P. NUVOLONE - G.D. PISAPIA, Torino, 1985, 737, il quale pur escludendo l’applicabilità della continuazione in ambiti di delitti colposi, ammette la possibilità di una deroga "ove l'evento causato dal primo di questi fosse rimasto ignoto al reo, la continuazione di delitto colposo potrebbe verificarsi".
Viene, così, proposto l’esempio del cuoco di trattoria che adoperasse in più riprese un arnese di rame male stagnato, ripetendo lo stesso fatto colposo, e così cagionasse l'avvelenamento di più avventori.
[8] M. GALLO, Appunti di diritto penale. Le forme di manifestazione del reato, III, Torino, 2003, 256
[9] Voce Reato continuato, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1970, 972
[10] Per MANTOVANI, op. cit., 479, "non basta la mera unitarietà della rappresentazione o della deliberazione già per il fatto che non consente di distinguere, psicologicamente il reato continuato e il concorso di reati dolosi, quando entrambi siano posti in essere con condotte simultanee e immediatamente successive. In ambedue i casi, infatti, si ha la rappresentazione e la deliberazione, ab initio, dell'intera pluralità dei fatti criminosi".
[11] Anche se un antica giurisprudenza operava una commistione fra dolo e colpa – da un lato – coscienza e volontà – dall’altro – giungendo a sostenere che questi due ultimi elementi fossero già di per sé soli sufficienti ad integrare nelle contravvenzioni l’elemento psicologico (Cfr. Cass. Sez. I 10 Luglio 1967).
[12] Salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di rifiuto dell'accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5, il conducente è punito con le pene di cui al comma 2, lettera c). La condanna per il reato di cui al periodo che precede comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione. Con l'ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni precedenti per il medesimo reato, è sempre disposta la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida ai sensi del capo I, sezione II, del titolo VI.
[13] In proposito si può affermare che una siffatta ipotesi pare del tutto eccezionale oppure mero esempio di scuola, come potrebbe avvenire nel caso di una persona che si ubriachi sulla base di una scommessa che presupponga che egli guidi un veicolo in stato di alterazione senza commettere incidenti o senza essere oggetto di controllo.
[14] Il delitto:
è doloso [c.p. 133], o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione
[15] Zagrebelsky premette che "l'atteggiamento psichico in cui il disegno criminoso si sostanzia è quello della rappresentazione e coesiste con la rappresentazione e volizione che costituiscono il dolo proprio di ciascuna violazione" e conclude nel senso che "la nozione dei disegno criminoso delineata nel testo esclude la sua configurabilità nel caso di reati colposi".
[16] V. ex plurimis App. Milano Sez. II, 10-04-2006, M.F. "Non può essere riconosciuta la continuazione tra il delitto accertato con sentenza definitiva e quello per il quale si procede se quest'ultimo risulta commesso ad oltre un anno di distanza dal primo. Il notevole lasso temporale intercorso, infatti, rende del tutto improbabile che i fatti siano stati commessi in esecuzione di un'unica programmazione criminosa così a lungo protrattasi". (conf. App. Napoli Sez. III, 30-03-2005, A.G. e altri)
 
 
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