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Senza fissa dimora secondo Marziale
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
5 ottobre 2009 18:09
 
Fra le mille e una differenza che contraddistinguono l'umanità, mi è venuta adesso incontro quella fra i senzafissadimora e i senza fissa dimora.
Col primo termine, l'espressione unita a formare un'unica parola (senzafissadimora), intendo indicare coloro che non hanno un tetto sulla testa perché l'hanno perso per uno di quei numerosi motivi che da sempre, e specialmente adesso, hanno impoverito e impoveriscono tanta gente anche nel mondo cosiddetto "sviluppato".
Col secondo termine, scritto con le tre parole separate (senza fissa dimora), mi riferisco invece a quegli individui che di tetti ne possiedono talmente tanti che non si sa più a quale indirizzo rintracciarli (e va detto che e-mail e sms non sanano davvero la situazione).
Beninteso: niente di nuovo sotto il sole. A spingermi a questa considerazione è stata infatti la rilettura di un epigramma del poeta latino, ispanico per nascita, Marco Valerio Marziale, che adesso propongo a chi legge queste righe. Marziale (vissuto all'incirca fra la metà del I secolo e l'inizio del II secolo dell'era volgare) fu un attento osservatore degli usi e costumi della società romana e nei suoi dodici libri di epigrammi si leggono molte descrizioni fulminanti, impietose, addirittura feroci su personaggi noti o meno noti del suo tempo. Tutto sommato, l' epigramma LXXIII del settimo libro, che propongo adesso, e che è rivolto a un tipo "senza fissa dimora" di nome Massimo, è fra quelli meno irriverenti, pur segnando a dito un modo di vivere che è oggettivamente ridicolo, da un lato, e umanamente offensivo, dall'altro. E se oggi questo modo di essere senza fissa dimora non ci scandalizza più di tanto, beh, vuol dire che il livello morale della nostra società (e anche il nostro personale) è caduto davvero alquanto in basso.
Naturalmente, una composizione così semplice nella sua densità di significato e anche così attuale potrebbe spingere chi la traduce a farne subito una "variazione sul tema". Io però desidero offrire a chi legge una traduzione il più possibile fedele, limitandomi a dire in italiano quello che Marziale ha scritto in latino (per l'originale vedere l'appendice). Eccola qui:
 
Una casa ce l'hai sull'Esquilino, una casa
ti appartiene sul Colle di Diana;
e tuoi comignoli annovera il patrizio quartier;
da una parte ti affacci sul tempio di Cibele la vedova
dall'altra hai la vista sul tempio di Vesta,
di qua vedi il nuovo tempio di Giove, di là quello vecchio.
Ma dimmi, dove ti posso trovare?
Da che parte ti devo cercare?
Uno che abita dappertutto, Massimo
non abita da nessuna parte.
 
Come si capisce, il Massimo dell'epigramma, possiede case in diverse parti di Roma, e Marziale gli fa osservare che in pratica è introvabile per chi lo vuole incontrare e che, pretendendo di avere dimora dappertutto, in realtà non ha una vera e propria dimora. E', per l'appunto, uno senza fissa dimora. Che dire, poi, di chi ha più case in città diverse e magari anche in diversi paesi del mondo? Non che un fatto del genere non si desse al tempo di Marziale, ma il poeta latino non l'ha preso in considerazione, forse perché, tutto sommato, per stigmatizzare questa miseria della ricchezza, gli bastava restare nell'ambito, peraltro non angusto, della città di Roma. Noi però, oggigiorno, potremmo sbizzarrirci a vasto raggio, spaziando per l'intero pianeta, dato che la boria degli attuali ricchi sembra conoscere ancor meno limiti e confini di quella dei   nababbi (e dei potenti) del passato. E' quanto invito a fare i miei cinque fra lettori e lettrici, usando possibilmente il fioretto dell'ironia e non la clava della volgarità.
 

 
APPENDICE:
Il testo originale in latino è questo:
Marco Valerio Marziale, Libro VII, epigramma LXXIII
Esquiliis domus est, domus est tibi colle Dianae,
et tua patricius culmina vicus habet;
hinc viduae Cybeles, illinc sacraria Vestae,
inde novum, veterem prospicis inde Jovem,
dic ubi conveniam, dic qua te parte requiram:
quisquis ubique habitat, Maxime, nusquam habitat.
 
NOTA:
Marco Valerio Marziale nacque a Bilbilis, vicino all'odierna Calatayud, verso il 40 dell'era volgare, e morì nella stessa città verso il 104.
Dopo aver fatto in patria studi di grammatica e di retorica, Marziale si recò a Roma nel 64, quando era imperatore Nerone. Nella metropoli si legò subito di amicizia con i suoi conterranei, Seneca e Lucano, che purtroppo dovette perdere presto per il suicidio dei due grandi uomini indotto dallo stesso imperatore dopo che era stata scoperta la congiura dei Pisoni. La vita di Marziale nella capitale dell'impero fu segnata dalla povertà. Di fare l'avvocato, unica professione redditizia che avrebbe potuto svolgere con la sua preparazione, non se ne parlava nemmeno; lui voleva scrivere, e così visse come "cliente" di uomini potenti, avendo sempre problemi di soldi, anche quando arrivò a possedere una piccola casa sul Quirinale, che peraltro era a un terzo piano in una via molto rumorosa, e un poderetto a Nomentum, da cui ricavava pochissimi frutti della terra. I suoi versi cominciarono a diventare noti nell'80, quando Marziale dedicò all'imperatore Tito il Liber de Spectaculis , in occasione dell'inaugurazione dell'anfiteatro Flavio (il Colosseo). L'imperatore gli concesse un privilegio, lo "ius trium liberorum", che di solito era conferito a chi, coniugato, aveva tre figli, anche se sembra che Marziale non fosse neppure sposato. Tale privilegio non lo rese ricco, ma lo legò a doppio filo con l'imperatore e, quando gli fu confermato da Domiziano, costrinse il poeta all'adulazione sperticata del nuovo crudele signore.
 Dopo la morte di Domiziano, dal 90 in poi, Marziale cercò di adattarsi al gusto del nuovo imperatore, Nerva, moderando l'adulazione e usando un linguaggio più castigato. Dedicò a questo imperatore i libri X e XI degli Epigrammi. Quando Marziale si accorse di non avere il successo che si aspettava, lasciò definitivamente Roma per tornare nella natia Bilbilis. Lì trascorse gli ultimi anni presso una ricca amica di nome Marcella che gli assicurò una vita tranquilla, e lì scrisse il dodicesimo e ultimo libro degli Epigrammi. Oltre alle opere già menzionate, Marziale ha al suo attivo anche una raccolta intitolata Xenia (brevissime composizioni che accompagnano un dono) e un'altra intitolata Apophoreta ("doni da portare via", cioè quelli offerti ai commensali dopo un banchetto).
Marziale voleva scrivere l'epopea della vita quotidiana e in effetti i suoi quadretti di vita nella metropoli di Roma (ma non solo) sono pressoché ineguagliabili. E' considerato un maestro dell'epigramma e a lui hanno guardato come a un modello tutti gli scrittori di epigrammi dal Medioevo all'età moderna. Anche se dichiara espressamente di ispirarsi a Catullo, il poeta vissuto un secolo prima di lui, Marziale si può però associare, per la materia che tratta e la resa poetica, a tanti altri artisti precedenti, come Plauto, Terenzio e Orazio, o a poeti pressoché contemporanei quali Persio, Giovenale e Petronio. La sua poesia più genuina si nutre di elementi diversi; accanto a una vena di commozione e nostalgia, troviamo l'ironia e il sarcasmo, dettato talora dall'insofferenza per la grama esistenza a cui si trovava costretto e che sentiva sommamente ingiusta.
 
LINK
Una presentazione della vita e delle opere di Marziale che mi è piaciuta si trova a questo link:
http://www.club.it/autori/grandi/marco.valerio.marziale/indice-i.html .
 
 
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