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 USA - USA - Dopo la class action Johnson & Johnson sborserà 6,5 miliardi
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2 maggio 2024 19:13
 
Risarcimento “monstre” di 6,5 miliardi di dollari, l’equivalente del prodotto interno lordo dell’Eritrea. La terza più corposa della storia americana, dopo i casi della British petroleum e di Big tobacco.

È la cifra offerta dal colosso farmaceutico Johnson & Johnson alle migliaia di consumatori che hanno sporto denuncia tramite class action, sostenendo che il suo borotalco “Baby power” provochi tumori alle ovaie per via delle tracce di amianto presenti nel prodotto, oggi ritirato dal mercato.
La compagnia ha sempre negato e continua a negare l’esistenza di ogni legame tra il talco e le malattie, citando uno studio del 2020 condotto su 250mila donne americane che non stabilito nessuna correlazione statistica, ma ha voluto ugualmente chiudere un contenzioso che va avanti da oltre dieci anni per paura di conseguenze ancora più pesanti sulla sua reputazione e i suoi bilanci e sulla stabilità del titolo alla borsa a Wall Street. Non a caso a poche ore dall’annuncio dell’offerta di risarcimento il titolo del gruppo è lievitato, toccando un più 3,5%.

Il vicepresidente degli affari legali di J&J, Erik Haas illustra i dettagli dell’offerta spiegando che l’accordo è stato negoziato con gli avvocati dei ricorrenti mentre i pagamenti verranno effettuati in un arco di venticinque anni: «Questo piano è il culmine della nostra strategia di risoluzione consensuale annunciata lo scorso ottobre, e rappresenta un tentativo proattivo di chiudere questa controversia lunga e complessa».
Appena un anno fa J&J aveva proposto una cifra ancora più altra per chiudere la vicenda, 8,9 miliardi di dollari che venne però cassata da un giudice fallimentare che rifiutò di accordare la bancarotta di LTL Management, una società controllata dalla compagnia che sarebbe responsabile della produzione del borotalco.

L’offerta, che giuridicamente non rappresenta un’ammissione di illecito, sarà valida se verrà accettata da almeno il 75% dei ricorrenti entro un periodo di tre mesi.

In un procedimento separato J&J dice di aver risolto circa il 95% dei casi in cui si sostiene che la polvere contaminata dall'amianto abbia causato un altro cancro chiamato mesotelioma e ha raggiunto accordi provvisori per risolvere le cause a tutela dei consumatori intentate dagli Stati americani. Anche in questo caso i vertici di J&J avevano affermato che non esistono prove scientifiche della contaminazione.

Non è la prima volta che una class action occupa la scena mediatica d’oltreoceano, le denunce collettive negli Stati Unti, definite dalle equity rules federali del 1912, hanno infatti una lunghissima tradizione.

La prima a suscitare l’interesse dei giornali Usa nel 1947 con l’incendio della nave cargo francese SS Grandcamp che trasportava 2080 tonnellate di nitrato d'ammonio nel porto di Texas city: l’esplosione del cargo, che provocò la morte di 581 persone ferendone circa tremila, venne sentita a 250 chilometri di distanza sprigionando una potenza pari alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Familiari e amici delle vittime (8485 le denunce) intentarono causa allo Stato che non avrebbe fatto rispettare le misure di sicurezza violando il Federal Tort Claims Act approvato l’anno precedente che fornisce uno strumento legale per risarcire gli individui che hanno subito lesioni personali, morte, perdita di proprietà o danni causati da un atto negligente o illecito o da un'omissione di un dipendente del governo federale. Un giudice della corte distrettuale del Texas diede ragione ai ricorrenti ritenendo lo Stato «negligente», ma il caso arrivò fino alla Corte suprema e venne infine archiviato nel 1953.

La class action più celebre risale all’inizio degli anni 90 e immortalata dagli studios di Hollywood dal regista Steven Soderbergh: è il caso di Erin Brockovich, l’attivista ambientalista che raccolse centinaia di denunce contro Pacific Gas and Electric Company (PG&E), azienda di distribuzione di gas ed elettricità che contaminò le falde acquifere con cromo esavalente (sostanza usata come antiruggine), causando centinaia di tumori tra gli abitanti della cittadina di Hinkley. Grazie alla perseveranza di Brockovich, che all’epoca lavorava in uno studio legale e incappo’ per casi nel dossier, il gigante dell’energia fu costretto a pagare un risarcimento di 333 milioni di dollari a seicento famiglie.

Con esiti più o meno positivi e contorni a volte pittoreschi, le azioni collettive di consumatori, lavoratori o semplici cittadini si sono susseguite negli anni e non mancano gli esempi mediatici. Nel 2001, a nome di un milione e mezzo di dipendenti ed ex dipendenti, è stata denunciata la nota catena di abbigliamento Wall-Mart, accusata di discriminazione sessuale in quanto a parità di qualifica le lavoratrici avrebbero percepito salari inferiori a quelli dei loro colleghi maschi. Dopo dieci anni il caso viene accantonato da un’altra sentenza della Corte suprema.

Un altro buco nell’acqua è stata la class action nei confronti della casa farmaceutica Merck & Co che nel 2004 versò 250 milioni di dollari alla vedova di un paziente per gli effetti collaterali sul sistema cardiaco di un antidolorifico dopo la sentenza di un tribunale. Sfortunatamente le 24mila denunce che seguirono il caso non vennero prese in considerazione da un giudice federale che rifiutò lo status di class action.

Ci sono poi state azioni contro le catene di fast food, in particolare Burger King per “pubblicità ingannevole” in quanto gli hamburger rappresentati nelle foto erano più grandi di quelli venduti effettivamente ai clienti.

O quella intentata da due coniugi contro la Barilla, che aveva spacciato la sua pasta distribuita negli Usa come interamente italiana quando invece era prodotta da uno stabilimento del New Jersey. o ancora contro la Nutella per via del numero eccessivo di calorie contenute in un singolo barattolo. La Ferrero perse la causa ma se la cavò con una multa di appena tre milioni di dollari.

A pagare cinque milioni di dollari in seguito a un’altra class action l’azienda di rimedi omeopatici Boiron, denunciata per pubblicità ingannevole nel 2015: i gruppi di consumatori statunitensi puntarono il dito contro il più celebre prodotto della compagnia francese, l’anti-influenzale oscillococcinum, che promette di «guarire l’influenza in appena 48 ore».

(Il Dubbio del 02/05/2024)

 
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