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Rette Residenze Sanitarie Assistenziali: il Consiglio di Stato ribadisce che i parenti sono esclusi dal calcolo della compartecipazione
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Osservatorio legale di Claudia Moretti
3 agosto 2012 17:19
 
Con tre recenti pronunce depositate il 10 luglio scorso (le sent. n.4085/2012, 4077/2012 e 4051/2012)**, il Consiglio di Stato (Cds) ha ribadito il proprio orientamento in merito alla compartecipazione dei costi di ricovero delle persone ultrasessantacinquenni, non più autosufficienti.
Si tratta di tre casi nei quali il Cds ha ribaltato tre sentenze del Tar Brescia che avevano visto vincenti le amministrazioni, con norme e regolamenti con cui si chiedevano e si computavano nel calcolo della retta, anche i redditi Isee dei familiari (inclusi o esclusi dal nucleo familiare del paziente).
Una situazione ormai nota e generalizzata in molti comuni e regioni d’Italia, non solo in Lombardia. In sintesi, la norma nazionale tratta la materia in modo puntuale, anche grazie alle convenzioni internazionali sulla disabilità e stabilisce che per determinati soggetti più deboli (portatori di handicap e ultrassessantacinquenni non autosufficienti) si debba aver riguardo al solo reddito irpef dell’assistito, corretto secondo i parametri del proprio Isee (e dunque con gli abbattimenti dovuti alle scale di equivalenza), e non si possa chiedere alcunché (né direttamente né indirettamente) ai parenti.
Per ragioni di bilancio, molti enti locali, supportate da leggi regionali illegittime (si veda il caso della Toscana), non rispettano la legge e si regolamentano e comportano in modo ad essa contrario. Come?
Chiedendo ai parenti –di solito figli- dei pazienti la situazione reddituale ISEE del proprio nucleo (dunque anche quella del coniuge), oppure costringendo di fatto gli stessi a sottoscrivere atti di impegno al pagamento nei confronti delle RSA che esercitano il servizio di ricovero.
Con le sentenze citate, il Cds, ritorna a ribadire i concetti chiave della normativa nazionale e impone alle amministrazioni convenute di calcolare i costi di degenza sulla base del solo reddito del paziente, con l’aggiunta di una precisazione interessante, a difesa dell’utenza: si chiarisce che la situazione di non autosufficienza (che per un ricorrente era stata posta in dubbio dalle amministrazioni convenute, in ragione di carenza documentale) è facilmente dimostrabile sulla base dei documenti che riguardano l’invalidità civile ai sensi della l. 104/92, e ciò a prescindere dalla concessione o meno dell’assegno di accompagnamento.
Molti pazienti, già dichiarati non più autosufficienti ai fini della l. 104 citata (con invalidità al 100%), una volta visitati dalla commissione che decide sul ricovero (Unità di Valutazione Multidimensionale), vengono dichiarati un po’ meno autosufficienti, e pertanto privi di quello stato di bisogno che impone il ricovero. E viene così negato loro -o posposto per graduatoria- il servizio.
Si legge nella sentenza n. 4085 richiamata:
“…[..] la sussistenza delle “condizioni di cui all’art. 3, co. 3”, della legge 5 febbraio 1992 n. 104 (secondo cui “qualora la minorazione, singola o plurima abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume valore di gravità”) è stata debitamente accertata nei modi di legge, ossia dalla commissione medico-legale di Brescia “ai sensi della legge 104/92 art. 4” in data …..come da certificato in atti.”
Dunque, sarà più semplice “imporre” la certificazione sulla propria invalidità (e non autosufficienza) alle varie commissioni e ai servizi sociali che mirano a “scremare” i richiedenti, in base a propri autonomi indici di isogravità e bisogno.
Isogravità e bisogno che molto spesso, più che dalla situazione clinica e sanitaria, dipendono dalla presenza, rectius dalla mera esistenza, di figli e parenti del malato.

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**si ringrazia l’Avv. Franco Trebeschi
 
 
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