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POLLI UMANI E NON NELLA SPAGNA DELL'INQUISIZIONE
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
15 gennaio 2009 0:00
 
Ogni tanto mi torna in mente un'opera del poeta e scrittore spagnolo del "secolo d'oro" Francisco de Quevedo, che fu al centro di un di un mio esame universitario. Si tratta della Vida del buscavida, che in italiano e' tradotta come "Vita del briccone", oppure "Vita del pitocco" o in altri modi ancora, dato che il termine buscavida non ha un solo corrispondente in italiano, anche se si intuisce immediatamente di cosa si tratta; in fondo l'espressione "buscarsi la vita" e' nota anche in italiano con la stessa allusione non propriamente laudatoria. Il motivo per cui mi viene spesso da pensare a questo romanzo picaresco e' il ricordo divertito che ne conservo, anche se, andandolo a rileggere oggi, mi sono accorta di quanto sia cambiata la mia sensibilita'; infatti adesso alcuni passaggi mi danno decisamente fastidio e trovo a volte sgradevole tutto quello spietato fuoco di fila disamorato e sarcastico su tutto e su tutti, compreso l'Io narrante, don Pablo. Il quale, a dispetto del "don", che dovrebbe alludere a una nobile nascita, e' figlio di un barbiere ladro e di una fattucchiera di Segovia, piu' volte fatti oggetto di attenzioni molto concrete (leggi: galera e botte) da parte della cosiddetta Giustizia.
Il fatto e' che, all'universita', questo libro ci fu letto a lezione interamente in lingua originale, tradotto e commentato, dal docente di Lingua e letteratura spagnola, che aveva un nome famoso, e che, in quel corso, si divertiva davvero come un matto. In particolare, mi ricordavo un episodio che ha a che vedere con i polli, che ho messo nel titolo di queste noterelle, e che fra poco raccontero'. Nel rileggere il romanzo ho verificato che questo episodio, tutto sommato, e' fra quelli meno violenti dell'opera che, come si sara' capito, e' tutto fuorche' "politicamente corretta". Del resto il concetto chiave per Quevedo e' il disinganno, che, essendo egli cresciuto molto vicino alla Corte, deve avere respirato fin dal primo vagito e bevuto col primo latte, maturando, quindi un'autentica misantropia (e non solo misoginia, come molti sottolineano).
 
Nella marcia di avvicinamento alla burla, di cui e' protagonista don Pablo proprio, guarda caso, ad Alcalá, dove aveva studiato Quevedo, e' bene dare qualche maggiore informazione sul protagonista. Come gia' accennato, i genitori si distinguevano, come dice l'autore, per una loro particolare nobilta' d'animo, che consisteva, fra l'altro, nell'alleggerire tasche troppo pesanti o ridare alle ragazze verginita' perdute … Tuttavia il figlio non intendeva seguire le orme paterne o materne, ma voleva elevarsi un po', e pretese di andare a scuola, il che ottenne. Li' strinse amicizia con don Diego, il figlio di un cavaliere, e fini' con l'accasarsi da lui, senza cessare di avere molte avventure nella sua citta' natale, Segovia, finche' il padre di don Diego decise di mandare il figlio e l'amico, fatto "scudiero", prima a pensione da don Cabra, un istitutore estremamente tirchio che riduceva tutti i pensionanti alla fame fino a farne morire uno, poi ad Alcala' dove si svolge l'episodio che piace a me. Naturalmente tutti i personaggi e gli eventi sono descritti con dovizia di particolari ironici oppure apertamente sarcastici, creando quadri di indubbia potenza evocativa di una societa' corrotta da cima a fondo, dove ciascun individuo viene sottoposto, suo malgrado, a spietati riti di iniziazione, di fronte ai quali, probabilmente, gli scherzi dei "nonni" nella vita di naja meriterebbero il Nobel per la pace.
 
Ecco dunque Diego e Pablo ad Alcala', dove alloggiano in una casa presa in affitto con altri studenti. C'era qui una governante che faceva ampie creste sulla spesa, e alla quale si uni' il nostro eroe che, pur volendo bene, a modo suo, a don Diego, non perdeva occasione di ingannarlo.
Nel cucinare, osserva Pablo, se la governante poteva usare carne di capra o di pecora non c'era verso che ci entrasse del castrato e, se disponeva di ossi, quella che veniva a mancare per il brodo era proprio la carne. Ragion per cui "faceva dei minestroni tisici …. e dei brodi che, se fossero stati solidi, avrebbero assomigliato a una collana di cristalli". E per le feste, per dare una parvenza di grasso alla minestra, ci aggiungeva moccoli di candela.
Quando compravano all'ingrosso olio, lardo o carbone, la meta' dell'acquisto la mettevano via i due furfanti, e poi, dopo un po', cominciavano a invitare gli studenti a moderare i consumi, perche' l'olio o il carbone stava gia' per finire e bisognava comprarne dell'altro … A ogni nuovo acquisto la governante e Pablo ne mettevano da parte la meta' per se' e cosi' andavano avanti, senza ignorare certi trucchetti per dimostrare ai padroni che loro erano onesti. A volte, dunque, la governante si metteva a questionare con Pablo sul prezzo che aveva pagato per un certo acquisto, e davanti a don Diego quasi lo accusava di volere ingannare tutti, cosi' che don Diego mandava qualcuno al mercato a sincerarsi se il prezzo pagato era stato davvero quello e, avutane conferma, la sua fiducia in Pablo cresceva, mentre anche la governante faceva la sua bella figura di donna attenta agli interessi dei padroni. Andando avanti cosi', in capo a un anno avevano raggranellato una somma di denaro veramente forte. Che non c'era necessita' di restituire, osserva Pablo, dato che la governante ogni settimana si confessava e faceva la comunione …
E qui si apre la descrizione di questa santa donna che portava al collo un grande rosario carico di immagini, croci e indulgenze. Rivolgeva le sue preghiere a un centinaio di santi e aveva bisogno davvero di tutti questi protettori, vista la mole di peccati che commetteva. Quando andava a dormire, diceva un profluvio di preghiere, tutte in latino "per fingersi innocente", e quando Pablo e don Diego riuscivano a sentirla si sbellicavano dalle risate per gli sfondoni che naturalmente diceva. Oltre che fare la governante, la donna svolgeva qualche "secondo lavoro": era "conquistatrice di cuori" e "dispensatrice di piaceri, vale a dire ruffiana", e quest'ultima attivita' la considerava una sorta di dono celeste o di vocazione, come era per il re di Francia guarire i malati di scrofola.
Nonostante tali affinita' elettive fra la governante e Pablo, quest'ultimo non le risparmio' una delle sue trovate. Bisogna dire che la vita degli studenti, e specialmente quella dei loro servitori, sembra fosse sempre all'insegna della fame. Di sicuro era cosi' per Pablo che amava fare succulenti pasti, possibilmente a sbafo.
La governante teneva in cortile diverse galline e un giorno a Pablo venne voglia di mangiarsene una. Ma, come fare a impadronirsene? Un giorno la donna ando' in cortile col pastone e comincio' a chiamare i polli, dicendo piu' volte: "Pio pio pio!". Pablo si mise subito a gridare: "Ma cosa avete fatto? O povero me! Mi tocchera' di andare a denunciarvi". La governante si turbo' e gli chiese che cosa avesse mai fatto perche' lui si agitasse a tal punto, insinuando che lui la stesse prendendo in giro. "Prendervi in giro? Giammai. E' una cosa troppo grave. Non posso fare a meno che andare all'Inquisizione senno' saro' scomunicato". Sentendo parlare di Inquisizione, la donna chiese se avesse fatto qualcosa contro la fede. "Sciagurata", le rispose Pablo, "non vi rendete neppure conto di quel che avete commesso. Questo e' il peggio. Direte all'Inquisizione che siete stata una scema e che ritrattate tutto, ma non osate negare la bestemmia". "Ma che cosa ho mai fatto?", insiste' la donna a questo punto davvero spaventata. "Ma come fate a non esservene accorta?", incalzo' Pablo, "se non riesco neanche a proferire le vostre parole per paura di bestemmiare anch'io!".
E cosi' Pablo le spiego' che, chiamando i polli con "pio pio", aveva pronunciato il santo nome dei papi, vicari di Dio e capi della chiesa. La governante divento' bianca come un cencio lavato e comincio' a giustificarsi: non aveva usato malizia nel chiamare i polli a quel modo, e avrebbe ritrattato, ma adesso chiedeva a Pablo di non denunciarla. Al che lui giuro' e spergiuro' che non poteva passare sopra alla cosa, perche' ne andava della salvezza della sua anima. In un, diciamo cosi', impeto di generosita', le fece pero' una proposta. Lei doveva giurargli che non c'era stata malizia da parte sua e dargli i due polli che erano accorsi a quel richiamo perche' erano di certo dannati a causa della bestemmia; lui sarebbe andato a portarli a un famiglio dell'Inquisizione perche' li bruciasse…
Quando la donna, ancora in preda a un forte tremito, si disse d'accordo, Pablo sembro' ripensarci a causa del rischio che correva personalmente. E se il famiglio avesse pensato che fosse stato lui, proprio lui a bestemmiare? E se lo avesse fatto torturare? E concluse che sarebbe stato meglio che a portare i polli all'inquisizione ci fosse andata la governante stessa. La povera donna comincio' a implorarlo e infine Pablo acconsenti' a farle questo grande, enorme, smisurato piacere e si fece consegnare i due polli, che nascose nella sua stanza. Poi fece vista di uscire e dopo qualche tempo torno' dalla governante a raccontarle che era riuscito non tanto a convincere il famiglio, quanto a seminarlo, quando se ne era visto seguito. Ora il pericolo era passato, e la donna, sollevata e riconoscente, gli dette mille abbracci e, cosa piu' importante di tutte, gli regalo' un altro pollo. E tre!
Cosi' Pablo porto' i tre polli a un rosticciere, se li fece cuocere a puntino per mangiarseli in compagnia degli altri servitori.
La beffa, come quasi tutte le altre di questo romanzo, fu scoperta anche dalla vittima, la quale, mentre tutta la casa ne rideva, si abbatte' moltissimo e poco manco' che, per la rabbia, svelasse le ruberie perpetrate da Pablo. Ma fu abbastanza lucida da rendersi conto che cio' non le conveniva, dato che anche lei era stata, all'occasione, grande parte in causa.
 
Dopo questo episodio, e' naturale, il rapporto con la governante si guasto', e di li' a poco finirono anche il suo servizio a don Diego e il soggiorno ad Alcalá. Non prima pero' che Pablo venisse a sapere da un suo zio, che faceva il boia a Segovia, di quanto elegantemente e nobilmente fosse salito sul patibolo suo padre, mentre la madre stava adesso nelle prigioni di Toledo perche' sorpresa a disseppellire i morti; in casa le avevano trovato "piu' gambe, braccia e teste che in una cappella di ex voto …". Adesso era in attesa di recitare "in un auto" con altri quattrocento condannati (in spagnolo "auto" significa rappresentazione sacra e "autodafe'", cioe' il rogo, e naturalmente, qui, e' a questa seconda rappresentazione che l'autore ironicamente si riferisce). Con questa sorta di paterna e materna benedizione, Pablo prende la sua strada che lo portera' a spennare nuovi polli e a essere a sua volta spennato, finche', decidera' di tentare la fortuna nelle Indie, ma, come osserva rivolgendosi al signore destinatario della storia della sua vita, "mi ando' ancora peggio …. Perche' non migliora mai il proprio stato chi muta solamente il luogo, e non anche il modo di vivere e i costumi". Una conclusione che rivela il moralismo di Quevedo, che del resto e' una costante di questo romanzo e di altre opere di questo disincantato uomo di corte.
 
NOTA
Le citazioni sono riprese da: Quevedo, Vita del briccone, (introduzione, traduzione e note di Raoul Precht), Garzanti, Milano 1991.  L'episodio narrato si trova nel sesto capitolo della parte prima (pp.43-51). Informazioni sull'autore e sull'opera vengono sia dal predetto libro sia dal Dizionario delle opere e dei personaggi e dal Dizionario degli autori, entrambe di Bompiani.
Questa traduzione segue una delle redazioni dell'opera di Quevedo che contiene l'episodio, a cui faccio riferimento. Infatti, non tutte le edizioni lo riportano perche' vengono da testi censurati dall'Inquisizione. La storia del testo di questo romanzo e' interessante. Composto nei primi anni del XVII secolo, deve aver girato in copie manoscritte passate da privato a privato, e fu pubblicato, anonimo, nel 1626 a Saragoza. Quevedo non ne rivendico' mai la paternita', e si puo' capire, dato che, come si vedra' nella breve biografia che segue, aveva gia' abbastanza problemi. L'attribuzione dei critici, peraltro certa, e' avvenuta dopo la sua morte, e solo nel 1908 fu pubblicato, come redazione originale dell'opera, il testo di un manoscritto rinvenuto nella biblioteca dello studioso Menendez y Pelayo, che presentava molte diversita' con le edizioni a stampa -segno che non era caduto sotto le forbici della censura.
 
Francisco de Quevedo y Villegas nacque a Madrid 17 settembre 1580 e mori' a Villaneuva de los Infantes l'8 settembre 1645. In virtu' dell'attivita' dei genitori conobbe molto presto la vita della corte spagnola; infatti, il padre era segretario di Anna d'Austria (quarta moglie di Filippo II) e la madre era dama di corte. Studio' al Collegio imperiale dei gesuiti fino al 1596, quando si reco' all'universita' di Alacalá de Benares, dove studio' lingue classiche e moderne e inoltre filosofia, retorica, logica, matematica e fisica, dotandosi di un grande bagaglio culturale tanto che pote' corrispondere in latino con l'umanista fiammingo Justus Lipsius (Giusto Lips) che ne elogiava la vastita' del sapere, nel quale spiccava la conoscenza diretta dei classici greci e latini, alla cui traduzione Quevedo si dedico' con passione. Si puo' anche dire subito che l'esperienza studentesca si riversera' nella Vida del buscavida, che peraltro dovrebbe essere stato scritto fra il 1601 e il 1608, quasi in presa diretta con la vita universitaria dell'autore, ma di cui Quevedo, dopo la pubblicazione nel 1626, non rivendichera' mai la paternita'. Abbandonata l'idea di studiare teologia, Quevedo, che si era occupato a Corte, nel 1601 ne segui' il trasferimento da Madrid a Valladolid, e nel 1603 comincio' a diventare noto come poeta perche' alcuni suoi componimenti furono inclusi in un'antologia Flores de poetas illustres españoles, accanto a poesie dei gia' famosi Lope de Vega e Góngora; con quest'ultimo Quevedo ebbe sempre un rapporto acrimonioso che dette materia a molte polemiche letterarie dell'epoca. Nei primi anni del Seicento, il giovane Quevedo sara' anche protagonista di fatti di cronaca che lo videro valente spadaccino. Nel 1606, al ritorno della Corte a Madrid, Quevedo si dedico' definitivamente alla letteratura, pubblicando altre poesie e lavorando anche a un'altra opera satirica Sogni e discorsi morali. In quel periodo divenne uomo di fiducia del duca di Osuna che nel 1613 fu nominato vicere' di Sicilia e con lui si trasferi' nell'isola svolgendo delicati incarichi diplomatici. Nel 1615 Quevedo fu inviato a Madrid come ambasciatore siciliano, fra l'altro, con lo scopo di corrompere i ministri di Filippo III per far ottenere a Osuna il vicereame di Napoli. Ottenuto il quale, Osuna nomino' l'amico ministro delle finanze. Nel 1620, fallita la congiura, che aveva per obiettivo quello di portare la Repubblica veneta sotto il dominio spagnolo e che coinvolse sia Osuna sia Quevedo, obbligo' i due a tornare in patria per essere arrestati. Mentre Osuna mori' in carcere, Quevedo ottenne dopo qualche tempo, di essere relegato nella propria casa di Torre de Juan Abad. Tornato in liberta', lo troviamo accompagnatore di Filippo IV in Andalusia, e poi, nel 1626, in Aragona. Del 1627 e' la pubblicazione dei celebri scritti satirici Sogni e discorsi morali. In seguito gode' della protezione dal favorito di Filippo IV, Olivares, che gli ottenne il titolo onorifico di segretario reale. Il rapporto col conte-duca non fu lineare; da un lato Quevedo lo elogio', facendone addirittura un panegirico, dall'altro ne critico' alcune azioni; rifiuto' anche la sua proposta di recarsi ambasciatore a Genova. Cedette pero' alle insistenze della moglie di Olivares in fatto di matrimonio; nel 1634, si sposo' infatti con una ricca vedova, alla quale, secondo dei pettegolezzi, cerco' di sottrarre parte del patrimonio. Prima del matrimonio aveva avuto una lunga relazione con un'attrice, dalla quale forse ebbe dei figli. Nel 1639 Quevedo fu accusato di essere l'autore di un memoriale contro Olivares, fatto pervenire, anonimo, al re. Senza un'accusa specifica, fu gettato in carcere, da dove uscira' soltanto alla caduta di Olivares, nel 1643. Quevedo trascorse gli ultimi due anni di vita prima a Torre e poi in un'altra sua tenuta, Villanueva de los Infantes.
Quevedo ha scritto moltissimo su argomenti diversi; verso la fine della vita scrisse il Trattato della divina provvidenza, la biografia di San Paolo e quella di Marco Bruto. Raccolse anche la sua opera poetica, che pero' fu pubblicata dopo la sua morte, fra il 1648 e il 1670, con il titolo di Il parnaso spagnolo.

Su Quevedo e le sue opere si possono consultare i seguenti siti: clicca qui (ritratto)
clicca qui (vita e opere)
clicca qui (opere di Quevedo disponibili in italiano)
 
 
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