testata ADUC
Il lato oscuro dei mondiali di calcio Qatar 2022
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Redazione
20 ottobre 2022 9:05
 
Mancano poche settimane all’inizio dei Mondiali di calcio più bollenti degli ultimi anni. Per chi non lo sapesse, le elevatissime temperature del paese ospite, il Qatar, hanno imposto che il torneo si giochi in inverno (invece che nei soliti mesi di giugno-luglio). Ma non solo per questo si tratterà di un evento eccezionale. L’esclusione della Russia dal torneo e il clima da “guerra fredda” che aleggerà introno allo stadio sono solo parte del pesante contesto politico che farà da sfondo a questi Mondiali 2022. Un retroscena da brividi, secondo il movimento internazionale (ma principalmente tedesco) BoycottQatar2022, a cui hanno aderito – con tanto di appelli e interviste – numerosi club sportivi e personalità di spicco come il mitico calciatore francese Eric Cantonà. E proprio da questo simpatico personaggio vorrei partire per una breve riflessione sul mondo del calcio, prima che comincino a piovere migliaia di news su FIFA world cup Qatar 2022 e, ovviamente, prima che il gioco abbia inizio.

BoycottQatar2022
A partire dal 2010 (anno in cui la FIFA ha assegnato al Qatar il ruolo di nazione ospitante per i mondiali 2022) il mondo del calcio ha cominciato ad interessare sempre di più la ricchissima dinastia regnante del Qatar e i suoi investitori: nel 2014 e nel 2016 l’emirato si è aggiudicato l’organizzazione della Supercoppa italiana, nel 2019 la (neo) nazionale di calcio ha vinto per la prima volta la coppa d’Asia contro il Giappone e nel 2021 il paese ha ospitato per la prima volta la coppa Araba riconosciuta ufficialmente dalla FIFA. Da allora sono stati costruiti sul territorio del Qatar ben 8 stadi ultratecnologici e annessi poli dedicati al merciandising sportivo. In questo periodo di tempo, però, il resto del mondo non si è limitato a guardare.
Nel 2020 nasce il movimento BoycottQatar2022, e da allora le sue accuse e rivendicazioni hanno acquisito una certa eco nel mondo dello sport e non solo. I promotori del movimento scandiscono in 4 punti le motivazioni di un tale attacco a questa decima edizione della Coppa del Mondo. In primo luogo, la mancanza di diritti umani: la FIFA sarebbe andata contro i suoi stessi articoli etici (come “operare all’interno di un ambiente non discriminatorio”) assegnando il mondiale ad un paese come il Qatar in cui “l’omosessualità è proibita dalla legge, le donne sono gravemente svantaggiate dalle normative legali, e l’abbandono individuale dell’islam è perseguito come un crimine capitale”.
Da qui, il secondo punto dell’attacco da parte del movimento: nella scelta fra diversi candidati per l’assegnazione del ruolo di paese ospite del Mondiale la FIFA si sarebbe fatta corrompere da “diversi milioni di euro in tangenti pagati nel periodo precedente della decisione della FIFA”. Diverse inchieste sono state svolte a proposito, l’ultima e la più bollente quella di Libération, sul ruolo ambiguo di Nasser Al-Khelaïfi, presidente del Paris Saint Germani, il club più ricco sulla scena calcistica mondiale.
Ma le accuse del movimento non si fermano qui. Corruzione e legislazione antidemocratica e illiberale nascondono un retroscena raccapricciante. BoycottQatar2022 parla di “condizioni di lavoro indegne”: secondo stime proposte dal sito, e confermate dall’ultima inchiesta del Guardian, dal 2010 in Qatar sarebbero morte sul lavoro (si parla di cantieri da costruzione) circa 6 mila 500 persone, stranieri poveri fatti emigrare “a tempo determinato” da paesi come l’Africa, l’India, il Pakistan, il Nepal, lo Sri Lanka per lavorare alla costruzione degli stadi e dei nuovi poli turistici legati al Mondiale. Si tratta di centinaia di migliaia di persone sfruttate in disumani campi di lavoro e tenute per mesi in pessime condizioni di alloggio e senza cure. Per avvalorare i dati raccolti, i promotori del movimento hanno pubblicato sul sito diverse testimonianze ed interviste, sia di giornalisti che negli ultimi anni hanno tentato di accedere ai cantieri, sia di lavoratori riusciti a scampare ai duri mesi di lavoro forzato. Infatti, sulla petizione che è stata fatta circolare dal movimento, si parla di “fermare la Coppa del Mondo che sanguina.
Intanto, Amnesty International e Human Rights Whatch hanno chiesto che la FIFA e gli sponsor del torneo istituiscano un fondo di solidarietà per ripagare le decine di migliaia di lavoratori migranti morti o infortunati sul lavoro durante la preparazione del Mondiale. Oggi, diversi sindaci francesi si rifiutano di favorire la proiezione pubblica delle partite della Coppa, per motivi umani ed ambientali. Il socialista Benoît Payan, a capo di un’ampia coalizione del comune di Marsiglia, ha dichiarato in un comunicato che “Marsiglia, fortemente attaccata ai valori di condivisione e solidarietà nello sport, non può contribuire alla promozione di questo Mondiale di calcio 2022 in Qatar”. Pochi giorni fa anche il sindaco di Bordeaux ha detto in un’intervista: “Avrei davvero l’impressione, se il Bordeaux accogliesse queste fan zone, di essere complice di questo evento sportivo che rappresenta tutte le aberrazioni umanitarie, ecologiche e sportive”.

In Italia l’associazione ADUC sta chiedendo all’Anci e a tutti i sindaci italiani di unirsi in un’iniziativa simile a quella dei colleghi francesi, sottolineando che “il nostro non è un Paese secondario per il calcio, e quando si dice e si fa qualcosa suscitiamo una certa attenzione”. Alcune società di sport popolare italiane hanno già diffuso un comunicato aderendo all’hashtag #boycottqatar2022. Ho riportato le accuse di BoycottQatar2022 innanzitutto perché è giusto che si sappia quello che accade dietro le quinte dello spettacolo più visto del mondo. Si potrebbe far seguire a quanto denunciato dal movimento un discorso politico intorno all’uso strumentale che le istituzioni occidentali – come la FIFA – portano avanti sia della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, che del presunto valore progressista di un mondo senza frontiere e a libera circolazione di mano d’opera a basso costo.
Ma non è questa la riflessione che, a mio parere, volevano stimolare le centinaia di giocatori, sportivi e spettatori che hanno preso parte al movimento di denuncia. Infatti, sotto ai punti di condanna di sfruttamento del lavoro, come a tirare le somme di una lunga inchiesta, si trovano le voci “nessuna cultura calcistica” e “commercio al posto del calcio”. Si legge: “In Qatar, non esiste una cultura calcistica storicamente cresciuta con club tradizionali e una base di fan significativa. Il calcio in Qatar è essenzialmente un prodotto allevato con un sacco di soldi”. E ancora: “La decisione di scegliere il Qatar come paese ospitante non segue considerazioni sportive, ma solo commerciali. Il Qatar vede il torneo della Coppa del Mondo come il coronamento dei suoi precedenti investimenti, con l’aiuto del quale il paese vuole aprire un promettente campo commerciale nel settore dello sport. La FIFA spera che il torneo gli dia nuove prospettive sui mercati delle regioni islamiche”.
Con questa conclusione la battaglia del movimento BoycottQatar2022 assume, a mio parere, un significato molto più ampio. Perché non si limita a rivelare gli orrori nascosti dietro al sistema dello spettacolo e al mondo del business internazionale in cui viviamo. Ma mostra come questo sistema, per avanzare imperterrito verso la meta della redditività su ogni cosa e ad ogni costo, debba invadere ed infrangere tutte le componenti della vita umana, a partire da quelle più elementari e diffuse – e proprio per questo anche le più importanti. Esattamente, ciò che emerge con insistenza tra le righe dell’inchiesta, è una denuncia della corruzione dei valori sportivi del gioco del calcio esercitata dal sistema capitalistico, e della sfera dell’attività umana fondamentale del gioco e del tempo libero tout court. D’altronde, è proprio grazie alla solidità e al senso di comunità cui sono abituate queste associazioni di tifosi e di sportivi che il loro movimento è riuscito a diffondere per il mondo questa fortissima campagna politica.

Il Capitale nel pallone – riflessioni sul mondo del calcio tratte dal saggio “Il miglior goal è stato un passaggio” del filosofo francese Jean-Claude Michéa

Infatti,non è solo un pallone che rotola. Antonio Gramsci definiva il gioco del calcio “un regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta”, Eric Hobsbawm “religione laica del proletariato”. Le loro opinioni restano per alcuni ancora cariche di significato, per altri invece sono incomprensibili o sbagliate. Per la maggior parte degli intellettuali di sinistra, fatta eccezione per Pier Paolo Pasolini che lo amava e ci giocava, e pochi altri, il calcio è stato ed è ancora il nuovo oppio del popolo. Per i più rimane uno spettacolo messo in scena da personaggi ignoranti e di dubbia morale, nient’altro che una fonte di alienazione per la massa imbruttita, che si distrae dai “giusti valori” e dalle occupazioni culturali e politiche più meritevoli (1). Il filosofo francese Jean Claude Micheà la pensa diversamente e ha dedicato una riflessione al football, con l’obiettivo di sottolineare il ruolo benefico del “people’s game” per eccellenza, nella storia ma anche oggi, e per dimostrare che anche in questo campo di gioco la logica liberale ha compiuto, e sta compiendo, la sua opera di annientamento delle componenti più umane (2).

Il gioco diventa industria
Michèa sostiene che il sistema capitalistico funzioni solo sottomettendo alle sue leggi l’insieme delle componenti della vita umana, dalle istituzioni, alle attività, fino ai modi di vivere delle diverse culture, come l’attività artistica, la ricerca scientifica, la vita familiare, le tradizioni popolari. L’obbiettivo: rendere ciascuno di questi ambiti una fonte di profitto. Un fenomeno culturale così di massa e così internazionale come il calcio non avrebbe mai potuto sfuggire al processo di “vampirizzazione” capitalista, che trasforma tutto in una fonte di profitto. E così il calcio si è trasformato in un’industria mondiale del divertimento, indubbiamente strumento efficace di soft power, ovvero oppio del popolo (2). Ciò che la capitalizzazione ha trasformato e piegato ai suoi scopi è precisamente l’originaria logica del gioco: il gioco suscita piacere proprio grazie alla sua dimensione di gratuità costitutiva, cioè per definizione ogni attività ludica è qualcosa di inutile che funziona e si diffonde proprio perché è in grado di sottrarsi alla dimensione del bisogno, all’obbligo dell’impegno e all’isolamento imposto dalle differenze sociali e di classe che dominano le occupazioni quotidiane e le relazioni umane (3).

Dribblig game e passing game: quali valori mettono in scena il gioco di squadra e il calciobusiness?

Tuttavia, con l’aggettivo di “inutile” non si intende denigrare le attività ludiche (di cui lo sport è solo una sfumatura, ma si potrebbe fare un paragone con tutto il mondo della finzione artistica). “Inutile” qui vuol dire che il valore che il gioco veicola non è quantificabile in generale, e menchemeno in termini monetari. Come ogni attività il cui valore non sia quantificabile, anche il calcio ha una lunga storia, che va ripercorsa se se ne vuole trarre qualche insegnamento. Inizia ad essere razionalizzato all’inizio dell’Ottocento nelle public schools dell’élite inglese, ma alla fine del secolo è già diventato lo sport popolare per eccellenza. Il passaggio dal calcio elitario al calcio operaio e popolare coincide con un altro passaggio, quello dal dribblig game al passing game. Il dribbling game era basato sull’ideale aristocratico del self made man, la prodezza individuale era fondamentale, per cui ogni giocatore che si trovasse in possesso palla doveva aprirsi da solo una via verso l’area avversaria e fare gol, per dimostrare di essere forte. Il calcio non era ancora un vero gioco di squadra.
Secondo Micheà l’invenzione calcistica delle società operaie, dovuta probabilmente al senso di cooperazione che implicava il lavoro comune in fabbrica, invece è l’arte del passaggio, quindi l’idea che la costruzione fondamentale di ogni azione di gioco fosse di fatto una pratica collettiva. Il passaggio, chiave di volta dell’originario gioco del calcio, è sempre una scommessa sulla riuscita dell’azione dell’altro, il pallone deve essere ceduto, dato, precisamente là dove il compagno in movimento sta per trovarsi. E’ di gran lunga il modo più efficace perché il gioco continui e la squadra, tutta insieme, finalizzi il suo obiettivo. Questo costante movimento collettivo della squadra che attacca si può descrivere come il “triplo vincolo”, il nocciolo del Saggio sul Dono di Marcel Mauss: darericevere-ricambiare, da cui deriva la teorizzazione dell’antropologia positiva, basata su un’idea di natura umana fatta di necessaria fiducia e comune decenza, senza l’esclusione di componenti agonistiche coma vendicatività, competizione e forza. Ritroviamo nell’essenza del gioco del calcio (dalla sua trasformazione da gioco dell’élite economica industriale a gioco popolare) l’idea fondamentale del socialismo originario, secondo la quale se un gruppo privilegia la solidarietà e l’aiuto reciproco, ecco che allora ognuno può trovare le condizioni ottimali per la propria personale realizzazione. E per la maggiore probabilità di vincere: quindi siamo agli antipodi della visione liberale della società che risulterebbe unicamente dall’azione di individui isolati ed auto-interessati che agiscono solo per la propria personale realizzazione.
Ecco il significato del titolo del libro sul calcio di Jean Claude Micheà, è una battuta di Eric Cantona, centravanti mito del Manchester United, che nel film Il mio amico Erich di Ken Loach risponde così a chi gli chiede quale sia stato il suo goal più bello: “Il mio goal più bello? È stato un passaggio!”. Oggi, mentre viviamo la capitalizzazione esasperata anche dell’ambito del gioco, lo spettacolo che ci offre lo sport tende quasi a trascurare la logica del passaggio e del lavoro di squadra, nonostante siano il “sale” di qualunque formazione o tattica vincente, e il segreto del successo di questo gioco nella Storia. La narrazione calcistica preferisce invece soffermarsi sul singolo, sulle prodezze di calciatori che non a caso vengono gestiti come vere e proprie industrie.

Inoltre, la partita tipo è diventata priva di qualunque immaginazione per quanto riguarda gli schemi d’attacco, perché basata sul primato assoluto della situazione difensiva. Perché il calcio trasformato in un’industria, con i club sportivi che sono aziende quotate in Borsa, non si gioca più per giocare ma per vincere ad ogni costo. Solo la vittoria è redditizia. Si abbandonano le vecchie concezioni basate sul piacere e sulla bellezza del gioco, sulla messa in scena dei valori della comunità in cui si gioca, per sottometterle ai principi che ora lo stanno governando. La sconfitta sportiva è il peggior risultato che si possa ottenere, dunque l’unica performance da evitare, è la figura del peggiore. Ogni altro risultato invece dovrà essere considerato come un male minore, di gran lunga preferibile a qualunque sconfitta. Ritroviamo qui il principio stesso del “dilemma del prigioniero” che costituisce uno dei punti cardine della teoria di tutti i giochi e della “scienza” economica liberale.
È noto che la soluzione più “razionale” per ogni concorrente non sia mai la migliore, la quale si realizzerebbe se la natura umana concepita alla base della società non fosse quella piegata alla logica liberale, cioè se i partecipanti del gioco avessero fiducia l’un l’altro e se facessero gioco di squadra. Solo così la soluzione più razionale sarebbe anche la più conveniente per i due giocatori. Invece, se si seguono le leggi umane che sono alla base della logica liberale, la soluzione preferibile è sempre quella che appare solo come la meno dannosa possibile, perché si presuppone che ogni giocatore ragionerà necessariamente in modo egoista. Quindi la squadra-azienda, preoccupata innanzitutto di proteggere i propri investimenti, non gioca più per giocare, e cercare di vincere, ma gioca per non perdere. Ecco che si comprende il primato assoluto della situazione difensiva. Se esasperata, questa tattica è anche detta catenaccio: costituire un muro di difensori per evitare di prendere goal e limitare al minimo la costruzione del gioco in avanti. Georges Boulogne, uno dei massimi teorici di questo gioco, arrivò a rispondere all’allenatore della famosa Ungheria, Gusztàv Sebes – il quale sosteneva che non gliene fregava granché di prendere cinque goal se la sua squadra ne realizzava sei – che il punteggio ideale di una partita moderna fosse la vittoria per 1 a 0. E’ nota la tattica di gioco di ogni squadra contemporanea che segni per prima: non farsi prendere troppo dal gioco e limitarsi a conservare il risultato. Il calcio incentrato su una tattica essenzialmente difensiva per anni si è rifatto a tre fattori per realizzare punti: un attaccante isolato, spesso un fuoriclasse straniero pagato a peso d’oro, il contropiede, ovvero l’arte di segnare sfruttando un errore dell’avversario, e infine il calcio piazzato, ovvero calci di punizione e rigori, ottenuti senza esitare a ricorrere a cadute simulate. Le statistiche relative agli ultimi due decenni su questo sono inappellabili: una squadra di serie A realizza massimo trecento passaggi a partita, mentre il Barcellona, erede del vecchio passing game, ne fa in media novecento (dati che risalgono al 1998, anno di pubblicazione del libro).

Queste evidenti conseguenze che coinvolgono lo spirito e la tattica del gioco sono fomentate da pratiche esterne, che fanno da contorno alle partite e alle squadre: la subordinazione dei club al potere dell’industria e dell’oligarchia finanziaria (di cui la sentenza Bosman che ha svincolato i giocatori dal club di appartenenza rappresenta un momento decisivo), l’esposizione mediatica quasi grottesca degli avvenimenti sportivi, commentati spesso da incompetenti che si concentrano solo su aspetti secondari come l’arbitraggio, il comportamento dei tifosi, il grado d’impegno fisico e psicologico dei giocatori e i personaggi famosi. Non esiste argomento pubblico più discusso, ma del gioco si parla poco. Infine, anche nel mondo del calcio, una generalizzazione della corruzione, legata anche alla legalizzazione delle scommesse. In più, il business ormai ha sempre meno bisogno degli spettatori veri, tifosi appassionati di calcio e di gioco, che sono spinti dai prezzi folli dei biglietti ad assistere allo spettacolo dal divano di casa e che presto con la costruzione di nuovi stadi supermarket saranno invitati a consumare una partita come se facesse solo da sfondo alle nuove meravigliose cattedrali del consumo, sul modello del basket statunitense (sembra incredibile ma già oggi all’interno del vecchio stadio Meazza di Milano c’è il museo più visitato della città). Questa trasformazione ancora in divenire ha già coinvolto sia i giocatori che il pubblico, il vero protagonista di questo sport da sempre.

La critica svolta per il gioco del calcio è un buon esempio del modo in cui il Capitale moderno snatura metodicamente i fondamenti – non soltanto popolari ma umani in generale – di tutti gli aspetti di vita condivisa. Mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che non rende. Bisogna attraversare brevemente la Storia del gioco del calcio per comprendere come mai la gran parte degli intellettuali non colga l’importanza di questo sport per la costruzione del sentimento comune e per il valore di umanità che nonostante tutto continua a veicolare.

Piccola Storia del gioco del calcio
Lo sport è l’attività più vecchia del mondo. Alcuni pensano che sia nato proprio nell’antica Grecia, teatro delle battaglie raccontate da Omero per sostituire la competizione distruttrice della guerra con una competizione positiva che spingesse alla collaborazione i cittadini e creasse equilibrio tra le diverse città. Più avanti nel tempo si hanno testimonianze di giochi collettivi simili al calcio, come il calcio fiorentino del Cinquecento, di cui Machiavelli era un appassionato, o come il gioco della pallacorda in voga a Parigi. In realtà lo sport come lo concepiamo noi oggi è un’invenzione moderna: solo tra la fine del Settecento e il primo Ottocento sorge la volontà esplicita di codificare metodicamente le regole, e la preoccupazione di razionalizzare lo spazio e il tempo di ciascun gioco. Questo avviene all’interno delle public schools inglesi, luoghi dell’élite aristocratica che si affacciava al nuovo mondo industriale. L’invenzione risulta chiaramente legata a quelle forme di razionalizzazione e di laicizzazione della vita collettiva, nonché all’immaginario dell’eguaglianza nel suo significato minimale, e allo spirito nobile del fair play, che caratterizzavano il nuovo mondo urbano e industriale. In questo ambito le prime critiche all’attività sportiva arrivarono dalla Chiesa cattolica, che ci vedeva un’invenzione protestante, e dagli ambienti nazionalisti, che opponevano al gioco gratuito e decadente circoli militarizzati di ginnastica che avevano lo scopo di preparare i giovani alla guerra. Dall’Inghilterra lo sport si diffuse in tutta Europa sotto forma di anglomania, segno del progresso. Il calcio però conosce presto un destino differente. E’ il primo sport moderno di cui la classe operaia inglese, e sulla sua scia gli operai di tutte le nazioni del mondo, abbia molto rapidamente fatto propria la sostanza della pratica, fino ad essere riconosciuto, già intorno al 1890, come people’s game per eccellenza. Le motivazioni di questo cambiamento sono sicuramente la facilità e l’economicità di questo sport (per giocare bastano una palla e quattro sassi per le porte), l’istituzione della libertà del sabato pomeriggio strappata dai sindacati britannici, e il riconoscimento ufficiale nel 1885 della figura del calciatore professionista. Per quanto sorprendente possa sembrare oggi, l’istituzione del professionismo era una rivendicazione operaia, poiché ha permesso alle squadre di giocare con uno stipendio, quindi ad armi pari con le squadre dell’aristocrazia economica.

L’intellettuale medio, l’uomo d’affari e il calcio

o sport dunque nasce come il gioco dell’aristocrazia capitalista, epoca in cui le nuove élite intellettuali non provavano ancora nessun disprezzo nei confronti dell’attività sportiva, anzi la praticavano mettendosi in mostra. Era una moda. Ma via via che il calcio si andava trasformando in peoples game’s, lo sguardo che gli veniva rivolto dalla borghesia intellettuale ha iniziato a cambiare. In primo luogo, si può notare che il nuovo disprezzo manifestato da questa élite appare selettivo, infatti le classi abbienti non si sono allontanate dallo sport nel suo insieme, ma si sono concentrate su attività inaccessibili alle classi popolari, come l’equitazione, le gare automobilistiche, il golf, il tennis. Dalla seconda metà del secolo scorso l’élite intellettuale di sinistra ha rivolto al gioco del calcio principalmente due tipi di critica: in un primo momento l’ha descritto come un’attività eccessivamente bellicosa, addirittura fascista (qui non si intende negare le derive dello sport nell’Italia fascista e dell’atletica nella Germania dell’Est, che però assomigliano molto di più ai quei circoli militarizzati di ginnastica che avevano avversato il calcio nascente in quanto attività disinteressata), e più di recente l’ha paragonato allo spirito stesso del capitalismo liberale. Capostipite della scuola sociologica che fa questo secondo tipo di critica radicale allo sport, e in particolare al calcio, è stato Jean Marie Brohm, che nella sua filosofia riduce l’idea di competizione unicamente alla forma di concorrenza che costituisce il principio del liberalismo.

Contrariamente alle critiche da sinistra, negli ultimi anni lo sguardo dell’élite economica ha decisamente invertito la rotta: a partire dalla sentenza Bosman, imposta all’Uefa dalla “corte di giustizia” europea nel 1995, che stabiliva che i calciatori dell’Unione europea potessero trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, a un altro club, purché facente parte di uno stato dell’Ue, i club sportivi hanno iniziato a trasformarsi nelle aziende che sono oggi, capaci di ingaggiare a prezzi altissimi i migliori giocatori di tutto il mondo, e così i migliori professionisti si sono trasformati in veri e propri mercenari in quanto moltiplicatori di utili per le società che prima erano impensabili. Era inevitabile che le élite della società capitalista, quelle del mondo degli affari, dei media, della moda o dello showbiz, finissero per posare gli occhi sui nuovi “dei” del calcio, e provassero a trasformarlo in un videogioco telecomandato dall’alto, caro per tutti a partire dai biglietti dello stadio.

L’intellettuale medio però, soprattutto se di sinistra, continua a pensare ancora oggi che il successo del calcio sia dovuto unicamente alla sua evidente funzione di oppio del popolo. Jean Claude Michea ci avverte: si potrebbe credere che un disprezzo manifestato così tranquillamente derivi dalla loro abitudine a navigare di continuo nel mondo virtuale dei segni siano, e che quindi siano portati a trascurare il corpo e a dimenticare il presupposto fisico della vita, come approfondisce Christopher Lasch nel capitolo Il declino dello spirito sportivo, in La cultura del narcisismo. Tuttavia, questa visione delle cose non può bastare da sola per spiegare le forme anche violente che può assumere l’odio degli intellettuali quando si parla di questo gioco. L’ipotesi più ragionevole secondo l’autore è che se gli intellettuali, presi nel loro insieme, disprezzano il calcio, è perché quest’ultimo incarna lo sport popolare per eccellenza. Infatti, gli intellettuali di ogni tempo, “quelli che fanno un lavoro di concetto”, hanno l’abitudine di immaginare l’attività della quale vivono come una lotta contro le illusioni del “volgo” o del “senso comune”, cioè le idee e i gusti delle classi popolari, che l’avanguardia considera sempre come una serie di ostacoli alla loro stessa virtù e all’emancipazione in generale. Il disprezzo dell’intellighenzia per il calcio, nato all’inizio del 900, e diramatosi nelle sue nuove forme nella seconda metà di quel secolo, assume ancora oggi la forma di una battaglia disinteressata che punta a sanare le classi inferiori, poverette, dalla loro inclinazione a farsi alienare.
Micheà sottolinea quindi il paradosso che la riconciliazione delle nuove classi abbienti con lo sport più popolare del pianeta, che ha cominciato ad avvenire in questi ultimi tempi, coincida con il momento preciso in cui la pratica di tale sport ha cominciato ad essere sempre più snaturata dalla sua stessa crescente subordinazione alla logica del mercato. L’ironia della storia è che questa viscerale incapacità degli intellettuali di comprendere il calcio come una specie di teatro a cielo aperto di importanti valori sociali che suscitano passioni è esattamente ciò che impedisce loro di criticare con tutta la radicalità del caso le derive capitalistiche del calcio contemporaneo. E delle derive capitalistiche del tempo libero delle persone in generale. Una critica che sottolinea gli aspetti intollerabili che caratterizzano la trasformazione capitalista dell’universo sportivo e insieme dell’intera rosa delle caratteristiche umane fondamentali, non può essere fatta da coloro che tacciano di arretratezza e ignoranza ogni valore comune, senza coglierne l’essenza, come quelli che vedono il gioco del calcio come alienazione. Infatti, chi conosce l’universo della solidarietà sportiva popolare non si meraviglia che una critica così forte e articolata allo sfruttamento che sta dietro ai prossimi Mondiali i Qatar provenga proprio dagli ambienti e dai club dei veri giocatori e tifosi, invece che dagli ambienti intellettuali dove, in teoria, ci si occupa di politica tutti i giorni.

Il calcio è un gioco diffuso universalmente perché è un piacere condiviso. In esso le persone riconoscono sottotraccia la solidarietà e la sfida che caratterizza la natura umana nel suo intimo ma senza la schiavitù quotidiana legata al lavoro e al proprio ruolo nella società. Il calcio è la simulazione di un sentimento che unisce chi gioca e chi tifa, questo è il ruolo che lo sport, e in particolare il calcio, ha sempre svolto nella società.

Gli intellettuali che non capiscono che lo snaturamento di questo gioco rischia di privare le persone di una base importante della loro identità, e che non comprendono l’importanza di un divertimento così universalmente declinato in tutte le sue componenti e per tutte le culture, non fanno che negare uno di quei pochi piaceri che il “sistema” non è ancora riuscito ad annichilire del tutto.


Note
- Nel suo libro sul calcio Jean-Claude Michéa ricorda che il calcio e la politica, il calcio e la patria, sono sempre stati legati a doppio filo, e su questi vincoli d’identità i politici di ogni fazione giocano spesso a loro vantaggio. Lo si è visto durante quest’ ultimo campionato europeo, in diverse occasioni. È stata messa in scena, per esempio, la solita contrapposizione funzionale democrazia-dittatura, di cui si serve l’ideologia liberale (in questo caso europea) per nascondere la gabbia economica a cui tutti siamo sottoposti. È stato il caso dell’incontro Germania-Ungheria, quando l’UEFA ha strumentalmente deciso di colorare il suo simbolo con l’arcobaleno della bandiera Lgbt per attaccare il primo ministro dell’Ungheria Orban che a sua volta ha cancellato il suo viaggio a Monaco per partecipare alla partita. Oppure si pensi all’imbarazzante situazione in cui si sono trovati i giocatori della nazionale italiana davanti alla questione se inginocchiarsi o meno in favore del movimento antirazzista statunitense Black Lives Matter. E da ultima, ma non meno importante, la strumentalizzazione della vittoria italiana da parte del governo Draghi, e della stampa (quasi) tutta che hanno festeggiato gli azzurri grazie ai quali “l’Italia -sarà- di nuovo al centro dell’Europa”, come ha titolato il quotidiano la Repubblica in prima pagina all’indomani della finale. D’altra parte però non si può non notare che, nonostante i tentativi del potere, il gioco del calcio sfugge sempre al controllo grazie alla sua enorme popolarità. Basta considerare, dopo un anno di costrizioni pandemiche, con quanta poca severità siano state accolte dalle autorità le manifestazioni di gioia dei tifosi nelle strade, soprattutto in quest’ultima vittoria italiana, ma anche per la vitoria dell’Inter nell’ultimo campionato. A volte, ancora oggi, il potere non può nulla contro un forte sentimento popolare così condiviso. Cercare di manipolare il calcio ha funzionato in molte circostanze, ma può anche diventare un’arma a doppio taglio da maneggiare con prudenza, soprattutto nei momenti di crisi.

- Lo scorso aprile il colpo mortale al people’s game stava per essere assestato dalla cosiddetta Super Lega, una sorta di competizione privata e chiusa alle altre squadre che avrebbe dovuto riunire i club più ricchi (non quelli più titolati) d’Europa. Il campionato dei super ricchi da spalmare sulle tv di tutto il mondo per un pubblico non di appassionati ma di consumatori di una planetaria operazione di marketing era stato pensato dalla Juventus di Andrea Agnelli e dal Real Madrid di Florentino Perez, due squadre simbolo del potere nel calcio degli ultimi settanta anni. L’esperimento però è fallito. Raramente spericolate operazioni finanziarie oggi trovano ostacoli insormontabili, eppure è accaduto. Questa clamorosa battuta d’arresto significa forse che per qualcuno il vero spirito del gioco resiste ancora. Non è un caso se le tifoserie organizzate di alcuni dei club più famosi (compresi gli ultras italiani) si siano opposte duramente a questa invasione di campo dell’economico nel “regno della realtà umana esercitata all’aria aperta”.

- Il concetto di “piacere disinteressato” suscitato dal gioco è lo stesso che descrive minuziosamente Schopenhauer nel libro III del Mondo come volontà e rappresentazione. Questo sentimento, che secondo il filosofo sorge nell’animo umano grazie alla contemplazione delle opere d’arte, attività che egli descrive come un gioco, permette agli uomini di accedere ad un livello di conoscenza superiore, liberata dalle forme mutevoli della conoscenza, e cioè dal dolore che caratterizza la vita degli uomini nella sua dimensione più corporea. Secondo un altro filosofo, Friedrich Nietzsche, il piacere e il disinteresse, quindi il gioco, sono la migliore disposizione d’animo con cui l’uomo può affrontare la vita, e accettarne la sorte con amore. Questo è alla base del concetto nietzschiano di “amor fatis”, che troviamo disseminato all’interno di tutte le sue opere, e della sua stessa esistenza.

- Nietzsche nel saggio Agone omerico parla delle due Eris, dee gemelle che rappresentano la competizione, ma mentre la prima è cattiva, è la dea distruttrice della guerra, la seconda ha un ruolo benefico, ed è esemplificata dal sorgere dell’attività agonistica nell’antica Grecia, proprio nell’epoca di transizione dalle società guerresche pre-omeriche, di cui ci parla Omero, alle poleis, le città-stato, dove nacquero altre fondamenta di civiltà e altri ordini valoriali, di cui ci parlano la storia e la filosofia greca che studiamo oggi.

(L.M. su Ancorafischiailvento.org del 20/10/2022)
 
CHI PAGA ADUC
l’associazione non percepisce ed è contraria ai finanziamenti pubblici (anche il 5 per mille)
La sua forza economica sono iscrizioni e contributi donati da chi la ritiene utile

DONA ORA
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
AVVERTENZE. Quotidiano dell'Aduc registrato al Tribunale di Firenze n. 5761/10.
Direttore Domenico Murrone
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS