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L’occhio di Paolo Rossi
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Articolo di Gian Luigi Corinto
5 luglio 2022 11:38
 
Appartengo a una generazione cresciuta nel mito di Armando Picchi, uomo di classe anche se livornese, amabile e ben pettinato anche se giocatore interista. Picchi giocava come libero, il difensore che non si muoveva mai dalla propria area di rigore, dentro la quale lui non faceva entrare nessuno, con l’aiuto dei terzini e dello stopper, beninteso. Poteva essere anche bassino, l’importante è che non si muovesse dalla propria area. Il libero aveva la maglia numero 6, rigorosamente, i terzini il 2 e il 3, lo stopper aveva il 5. Il marketing delle maglie non c’era, né poteva esistere una cosa come AP6. Picchi era la quintessenza del gioco all’italiana, quello che in tutto il mondo si chiama catenaccio, come in tutto il mondo allegretto, diminutivo musicale di allegro, serve ad indicare un andamento celere e vivace ma temperato. Il catenaccio è una cosa nostra, di gente come Gipo Viani, Alfredo Foni e soprattutto Nereo Rocco ed Helenio Herrera, allenatore di Picchi all’Inter. Anche noi ragazzi si giocava col libero, nel campo della parrocchia. La tattica era il contropiede, la mossa in campo degli abili di mente e d’occhio rapido ma gracili di gambe e torace, anche dentro l’area di rigore. Gracile non era Saul Malatrasi quando giocava nell’Inter e nel Milan, nato mediano e diventato libero per sostituire Armando Picchi infortunato. Ecco, Malatrasi era il vero libero, più di Picchi, perché meno di questi tecnico e recuperato da Rocco dalla serie B per giocare nel Milan e vincere nel 1969 la Coppa dei Campioni contro l'Ajax di Johan Cruijff e la Coppa Intercontinentale vinta contro l’Estudiantes de La Plata di Buenos Aires.

Devo confessare che io giocavo libero perché ero gracile e meno bravo di tutti quegli altri che correvano come matti evitando le buche più dure nel campo del prete. Di testa ero una schiappa, ma rapido di gambe. Rubavo il tempo a quelli più grossi di me, facevo un passo e mi liberavo della palla subito, per paura di prenderle. Però… però fuori dal campo eravamo tutti grandi esperti di calcio e calciatori, collettori di figurine ma lettori di Giovanni Arpino sul Guerin Sportivo e di Gianni Brera.

Da quest’ultimo s’imparava la geopolitica del corpo gracile, si studiava il confronto fisico tra orgogli nazionali, tra italiani sempre piccoli e smunti di fronte ai corpi angolosi degli Inglesi, che avevano le ginocchia a punta per fare male, di fronte ai corpi compatti come panzer dei Tedeschi, che in più erano biondi e baffuti. Per non dire del Brasile che schierava come terzini gente che da noi avrebbe dato le pappine a Rivera in quanto a classe e tocco di palla. E poi Pelé saltava più di Burgnich, nonostante Tarcisio protendesse invano il pugno per fermarlo nella finale di Mexico 70. A noi italiani, non ci restava che la tattica furba, un pensiero debole, una cosa smart si direbbe oggi. Ma non si dice, perché prima di ogni partita si dice sempre faremo la nostra partita, ce la giochiamo, non abbiamo timore reverenziale, anche se poi si fanno le barricate davanti alla porta.

A un certo punto alla nostra fantasia calciofila è apparso Johan Cruijff, e non da solo. Si faceva accompagnare da tipi come Suurbier, Krol e Neeskens, che tenevano sempre la palla, tanto che in porta lasciavano uno qualsiasi, il signor Jongbloed, che tutto faceva fuorché parare. Cominciava l’era del calcio totale, del gioco a tutto campo, del giocare sempre tenendo la palla. Ancora non era il tiki-taka della Spagna, non si ingannino i più giovani, ma insomma la seduzione di lasciare il gioco all’italiana per scimmiottare il calcio-spettacolo era forte. Eppure l’Olanda non vinse i Mondiali né nel 1974 né nel 1978, quando pareva che dover ricevere la Coppa d’ufficio, per forza d’inerzia. Argentina e Germania ebbero ragione degli arancioni spettacolari che tennero la palla ma non ottennero la Coppa.

Ho pensato a questo prima che Paolo Rossi ci lasciasse. Ci ho pensato mentre aspettavo di operarmi di ernia inguinale a Careggi, ospedale che raggiungo a piedi da casa mia, costeggiando il campo del prete. Nella stessa camera c’era un signore di 86 anni, Silvano, già operato dello stesso male.
“Non sarà mica juventino, lei?”
“Chi io? Non sono un gran tifoso… ma juventino no. Mi intendo di calcio, credo, almeno lo seguo, dal 1982 tifo solo per la nazionale.”
“Bene, se no, non si parlava. Io ho giocato nella Sestese ai miei tempi. Anche contro il Milan, quello dei giovani, con Trapattoni. Si perse, erano più forti, non ci fu storia, ma io ho giocato tanto. Si giocava sempre. Poi ho smesso per fare il commesso viaggiatore, in Lombardia, ma sono di Sesto Fiorentino.”
“E di chi si ricorda meglio? di quelli famosi voglio dire.”
“Io mi ricordo di molti, ma uno specialmente me lo ricordo bene. Se lo ricorda lei un tale Bicchierai? aveva iniziato con me.”
“Certo, era del Catania in serie A, vero?”
“Sì, e poi ha giocato un sacco di anni nell’Inter. Era uno scarpone, non si sapeva mai dove mandava la palla, allora si faceva carriera anche se eri uno scarpone.”
“Era meglio, c’era il libero, c’era il catenaccio e c’era posto anche per Bicchierai. Avevo la figurina Panini, me lo ricordo bene.”

Prima dell’Olanda, ancora negli anni Settanta il genio calcistico italiano consisteva nel “prima non prenderle”. Tra noi che si seguiva le partite alla televisione, in sale affollate e fumose, la sofferenza di vedere giocare la Nazionale era vero sadomasochismo. Masochisti nell’affidarsi a gente come Picchi, Guarneri, Bercellino, Salvadore, Puja, Rosato, Cera, che con la punta del piede evitavano un gol che sembrava già fatto, sadici nel vedere gli Inglesi infilzati a Wembley da Capello che fece gol con una gamba ripiegata in gesto rachitico al 42esimo del secondo tempo. Era l’amichevole Inghilterra-Italia del 14 novembre 1973 e in panchina sedeva Valcareggi. Più che sedere che cosa poteva fare, dopo avere inventato la staffetta Mazzola-Rivera in Messico nel 70 ed essere naufragato in Germania nel 74? Fare schifo proprio in Germania, dopo 4 anni dal 1970 di Italia-Germania 4 a 3 era una vergogna nazionale. Fu rivoluzione inevitabile e venne Bernardini che convocò in Nazionale tutti, anche Domenico Caso. Lasciò il posto a Enzo Bearzot, mentore di Paolo Rossi contro ogni evidenza fisica.

Berazot andava dicendo che si ispirava al calcio totale olandese, che contro chiunque l’Italia avrebbe imposto il proprio gioco, come già predicava Fulvio Bernardini, detto il Dottore. Bearzot mentiva. Non ci fa paura nessuno, imponiamo il nostro gioco diceva serio. Mentiva, ma non gli credevamo. E si soffriva, in buona compagnia, perché i critici erano con noi, e noi con loro, contro lo scimmiottamento del gioco nordico, contro il tradimento geopolitico del corpo gracile. Siamo un popolo di poeti, santi e trasmigratori con il corpo scolpito dall’inattività, il fisico possente di un ragioniere con gli occhiali, di un impiegato del catasto che passa le giornate seduto a controllare rendite e visure. Come faceva Berazot a non vedere questa cosa tanto ovvia e patente? S’era diffusa la voce che non ci capisse nulla di calcio. Anche quello sotto di lui, Cesare Maldini, ci pareva poco ispirato, elegante con la giacchina a righe bianche e celesti, ma ignorante di tattiche e strategie. Non avevamo capito che il Commissario mentiva, non c’è altra spiegazione. A meno di pensare male. Pensare cioè che il Mondiale 82 l’abbia vinto Giovanni Trapattoni, col suo catenaccio e il blocco Juve, nel quale Paolo Rossi c’era.

Tra grandi discussioni e pressioni, Enzo Bearzot aveva messo insieme una rosa di 40 calciatori, prima di partire per la Spagna. Dalla lista fu tolto Bettega, attaccante juventino ma ingessato alla gamba sinistra, messo fuori insieme ad altri, tra mille polemiche dei critici osservanti che volevano Beccalossi a tutti i costi. Insomma in Spagna giocava la Juve con qualcun altro. Tutti si aspettavano di tornare a casa subito.

Se lo ricordate bene, Paolo Rossi era sotto peso, magro e rifinito, distrutto da due anni di squalifica per mancata denuncia nel calcioscommesse. Ma gli erano rimasti gli occhi. Con quelli lui vedeva lo spazio diversamente da chiunque altro. Vedeva i due metri dove spostarsi per uccellare il terzino. Gli altri erano ciechi. Furono ciechi oltre che polli i Brasiliani, belli, narcisi, smaglianti, ma corti di vista. Annebbiati i Polacchi, ancora persi nelle pianure sconfinate dell’area di rigore, dove spuntava uno secco che la metteva dentro. Trafitti i Tedeschi non solo da Paolo Rossi sbucato dal nulla, ma anche da Tardelli, il tonitruante corridore impazzito e da Spillo Altobelli, entrato per caso in partita,

Un retroscena dice che Giovanni Trapattoni apparso in sogno a Bearzot la sera prima della finale gli consigliò: “Catenaccio, catenaccio, Enzo. Al posto di Antognoni, metti Bergomi. Tanto davanti hai San Pablito.” Giancarlo Antognoni aveva giocato un mondiale splendido ma era infortunato. Un terzino al posto della Luce di centrocampo? Ormai in finale i critici tacevano, non osavano più discutere le scelte del Commissario, alzavano appena il sopracciglio. Trapattoni forse non apparve a Bearzot, ma a sognarlo fu Tardelli, che lo disse in giro e fu creduto. Paolo Rossi era la sublimazione del catenaccio, del contropiede fulminante, della gestione dello spazio piccolo, della visione rapida delle soluzioni beffarde. Quei lampi di genio e velocità che lasciano di stucco sia i fisicati sia i palleggiatori narcisi, che si sentono sgusciare tra le gambe un furetto toscano e ancora si chiedono come hanno fatto a non vederlo.
 
 
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