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 ITALIA - ITALIA - Coca cola o succo d'arancia? Le banalizzazioni del ministro dello Sviluppo Economico sull'educazione alimentare
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Notizia 
8 luglio 2019 12:23
 
“La Coca Cola me la porto a scuola”?Quattro cose che Di Maio dovrebbe sapere
Di fronte alla platea di Coldiretti, il ministro dello Sviluppo economico, Luigi di Maio, ha detto che: «l’educazione alimentare si deve fare nelle scuole prima di tutto eliminando tutti questi distributori di cibo spazzatura che viene somministrato ai nostri figli» e che è «assurdo che un bambino nel corridoio della sua scuola abbia ancora un distributore di Coca Cola o prodotti non made in Italy». Piuttosto, «mettiamoci un bel distributore di succo d’arancia». Se è vero che in tempi di campagna elettorale permanente, stare dietro a ogni dichiarazione resa da un politico per compiacere un particolare segmento elettorale rischia di essere un’attività inutilmente defatigante, è altrettanto vero che l’ul-tima affermazione del ministro Di Maio merita di essere analizzata con attenzione. Quelle poche frasi, infatti, rappresentano un esempio plastico della troppo diffusa abitudine di banalizzare un tema serio (quale l’educazione alimentare), spostando l’attenzione su un falso problema (in questo caso, i distributori automatici nelle scuole con prodotti a marchio Coca Cola), con il risultato non solo di non aiutare la causa di cui ci si dice promotori, ma anche di aumentare il rischio di danni collaterali (ad esempio, per restare su un tema che il ministro Di Maio dovrebbe avere a cuore, allo sviluppo economico del paese).

1. Quanto è spazzatura il cibo “spazzatura”?
Quella del cibo “spazzatura” è una categoria ormai così abusata da risultare priva di un significato proprio e riconoscibile: qualsiasi cibo può diventare “spazzatura”, quando ciò fa comodo a chi ha scelto di attaccarlo. Ma la verità è che il cibo cosiddetto “spazzatura” (qualunque cosa ciò voglia dire) è sempre meno “spazzatura”. I gusti dei consumatori sono da tempo in fase di cambiamento e, pertanto, le imprese si stanno adattando, riducendo la quantità di zucchero presente nei propri prodotti al fine soddisfare la nuova domanda dei propri clienti. In Europa, tra il 2000 e il 2015 si è registrato un taglio del 12% degli zuccheri presenti nei soft drink: ed entro il 2020, si assisterà a una ulteriore diminuzione del 10%. Visto che si parla di Coca Cola, è utile ricordare che ormai il 60% dei prodotti dell’azienda è a ridotto, basso o nullo contenuto calorico e che per ogni versione “full sugar”, sul mercato è disponibile anche la versione “zero”. E c’è di più. Nel 2018, l’industria europea dei soft drink (Unesda) ha assunto l’impegno di non vendere più bevande zuccherate nelle scuole secondarie dell’Unione europea, distributori automatici inclusi (qui è possibile trovare traccia del plauso espresso da Coldiretti in proposito). Ciò ha fatto seguito all’ulteriore scelta (datata 2006) di astenersi dalle vendite di soft drink nelle scuole primarie e di introdurre limitazioni alla pubblicità nei canali diretti a bambini sotto i 12 anni. In altre parole, il timore (così paternalistico) del ministro Di Maio sul «bambino (che) nel corridoio della sua scuola (ha) ancora un distributore di Coca Cola» è, quantomeno, fuori tempo massimo.

2. Qualche dato sulle arance italiane
Un altro e classico refrain, in questo genere di comunicazione politica, è dato dal facile manicheismo: nella lotta tra i “cattivi” e i “buoni”, Di Maio ha schierato la Coca Cola contro i succhi d’arancia. Dove c’è la prima, non possono esserci i secondi? Falso, ovviamente. In primo luogo, niente vieta che si vendano (come avviene) entrambi i prodotti e che (come è naturale) sia il consumatore a scegliere cosa preferire. E questo vale anche per il consumatore più giovane e, quindi, “immaturo”, il quale dalla propria famiglia e dai propri educatori, non certo dallo Stato, imparerà quanto necessario per esercitare consapevolmente la pro-pria libertà di scelta. Ma anche qui, c’è più di questo semplice punto di buon senso. Coca Cola acquista, ogni anno, oltre un terzo della produzione di arance siciliane destinate alla trasformazione e, da qualche mese, ha lanciato un’aranciata con il 100% di succo di arance rosse, da esportare nel resto del mondo. Bisognerebbe informare il ministro Di Maio, allora, del fatto che l’industria dei soft drink è, in verità, un alleato prezioso per l’agricoltura di qualità italiana.

3. Ma allora il problema è il made in Italy? (Un appunto in tema di sviluppo economico)
A questo punto, il sospetto è che la preoccupazione del ministro sia mossa dal desiderio di proteggere i confini dell’economia italiana dall’invasore straniero: Di Maio lo ha detto chiaramente, associando la Coca Cola ai «prodotti non made in Italy». Ma come abbiamo già visto, sarebbe sufficiente ricordare il dato dell’acquisto di oltre un terzo della produzione di arance siciliane destinate alla trasformazione per smontare la narrazione “autarchica”. Ma, ormai lo avrete capito, c’è sempre dell’altro. Dal 1927, infatti, le bottiglie Coca Cola sono prodotte direttamente nel nostro Paese, all’interno di cinque stabilimenti presenti in Lombardia, Veneto, Abruzzo, Campania, Basilicata e Sicilia. Secondo i risultati di una ricerca condotta da SDA Bocconi (2017), Coca Cola ha un impatto occupazionale diretto ed indiretto di circa 26.000 posti di lavoro (pari allo 0,11% della forza lavoro totale in Italia): per citare solo due esempi, ciò vuol dire che in Lombardia, Coca Cola genera 147 milioni di euro, pari allo 0,04% del PIL regionale, e ha un impatto occupazionale di 15.805 lavoratori, pari allo 0,37% della forza lavoro regionale; mentre in Basilicata, l’azienda genera 7 milioni di euro, pari allo 0,06% del PIL regionale, e ha un impatto occupazionale di 278 lavoratori, pari allo 0,15% della forza lavoro regionale. Si pensi, ancora, al fatto che nel 2015, Coca Cola ha generato e distribuito risorse per un totale (compreso del valore dell’IVA versata) di 813 milioni di euro, pari allo 0,05% totale del PIL italiano (vd. tabella 2). Considerare come non «made in Italy» una compagnia che usa prodotti italiani, impiega forza lavoro italiana e paga le imposte in Italia lascia un amaro in bocca che nessuna bevanda zuccherata può cancellare. Dal ministro dello sviluppo economico sarebbe lecito attendersi una maggiore consapevolezza sulle dinamiche del mercato interno e su ciò che contribuisce a muovere l’economia italiana.

4. I guasti del paternalismo di Stato
C’è un problema di fondo più grande e importante dei termini dell’infelice dichiarazione di Di Maio, che – come chiarito in apertura – è rappresentato dalla banalizzazione del tema dell’educazione alimentare. È un peccato che un argomento così importante sia non solo svilito per il fine di inseguire qualche applauso a una convention o qualche titolo sui giornali, ma anche trattato secondo una direttrice che è facile riassumere in “meno libertà, più obblighi”. Un paio di anni fa, abbiamo analizzato le proposte di legge e gli emendamenti presentati nel corso del XVII legislatura che hanno riguardato, tra gli altri, il tema dell’educazione alimentare (qui la ricerca). Il nostro studio ha dimostrato come anche le proposte all’apparenza più condivisibili (come quelle, per l’appunto, aventi ad oggetto l’educazione alimentare nelle scuole) fossero in verità espressioni di visioni ideologiche (marcatamente “passatiste”, in cui l’“attenzione alla salute” nasconde in realtà un atteggiamento anti-progresso, anti-industria e anti-scienza), che si traducevano in un senso «di stima di una certa rilevanza dell’educazione di Stato e di disistima della capacità dei cittadini di regolarsi autonomamente in maniera responsabile». Il “paternalismo” (soft o hard) che i nostri politici esibiscono ogni qualvolta si parla di educazione alimentare è dannoso sotto più profili: a parte il profilo della dubbia efficacia per il miglioramento della salute individuale, l’esempio delle dichiarazioni del ministro Di Maio – che, comunque, è il ministro dello sviluppo economico, non quello della sanità – dimostra che esso può rappresentare una minaccia anche alla crescita (seria e sostenuta) del paese.

(Di Giuseppe Portonera Fellow dell’Istituto Bruno Leoni)
 
 
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