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Clima. L'Accordo di Parigi entra in vigore, ed ora?
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Articolo di Redazione
4 novembre 2016 13:01
 
 Concordia e felicita': oggi venerdi' 4 novembre dell'anno 2016 entra in vigore l'Accordo di Parigi, che mira a contenere l'aumento della temperatura e lottare contro la deregolamentazione climatica. Trenta giorni dopo -il 5 ottobre- che e' stato raggiunto l'obiettivo della ratifica da parte di 55 Paesi rappresentanti almeno il 55% delle emissioni di gas ad effetto serra. E meno di undici mesi dopo l'adozione a conclusione della COP21 a meta' dicembre a Parigi. Una entrata in vigore folgorante, un “segnale forte per l'insieme degli attori della societa': il mondo sta per cambiare”, scrive Ségoléne Royal, ministro francese dell'Ambiente e presidente di COP21. Che “mostra alle imprese ed agli investitori la via di uno sviluppo sobrio in carbone, che e' ormai in disuso da parte degli Stati attraverso il mondo”.
Cosa succedera' veramente con l'entrata in vigore?
A parte le luci verdi e gli smile proiettati sui monumenti di Parigi, niente di che... Nei 94 Paesi che hanno ad oggi ratificato l'accordo, nessuno andra', questo venerdi', a scollegare le centrali a carbone del mondo (44% delle emissioni di CO2, gas che contribuisce a quell'effetto serra responsabile del cambiamento climatico, accanto al metano e al monossido di carbone), ne' rinunciare a salire su un aereo (3% delle emissioni mondiali di CO2).
Ma questa entrata in vigore permette di dare una mossa alle tentacolari negoziazioni sul clima. La COP22, che si tiene dal 7 al 22 novembre a Marrakech pota' anche entrare nel vivo della materia per la messa in opera dell'accordo (registri, trasparenza, finanziamenti...) e non servire come arena alle pressioni diplomatiche per un incoraggiare un Paese o l'insieme dei Paesi ad entrare nella danza della ratifica.
“Forse questa entrata in vigore obbliga la Francia o altri Paesi a prendere dei nuovi impegni? La risposta e' no, dice Pascal Canfin, direttore di WWF France. “Ma da un punto di vista giuridico, l'entrata in vigore chiarifica la situazione e consolida l'accordo. E da un punto politico, si e' ormai certi della robustezza del valore universale dell'Accordo di Parigi”. L'ex-deputato europeo ecologista, ed ex-ministro con delega allo Sviluppo, ricorda che "tutti i grandi Paesi emergenti, la Cina, l'India e il Brasile, indispensabili perche' la dinamica politica perduri, hanno ratificato”. “Bisogna che tutto il mondo ne sia coinvolto, e che questo non assomigli ad una battaglia di alcuni Paesi contro gli altri”. Il precedente accordo che mirava a ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, il Protocollo di Kyoto, riguardava solo i Paesi del Nord.
Gli Stati rispetteranno i loro impegni?
Pietra angolare dell'accordo, i contributi nazionali degli Stati -i loro impegni in materia di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, di adattamento, dei piani di finanziamento, etc..- non figurano nella parte vincolante dell'accordo. Essi sono stati annessi all'accordo di Parigi, essenzialmente per permettere a Barack Obama di convincere il Congresso a maggioranza repubblicana, che avrebbe probabilmente bloccato il testo, di invece ratificarlo con un semplice ma efficace decreto presidenziale. Nessuno potra', quindi, in nome dell'Accordo di Parigi, trainare questo o quel Paese che abbia ratificato il testo davanti ad un tribunale, accusandolo di non aver rispettato i propri impegni.
Dopo il fallimento del Protocollo di Kyoto, che prevedeva sanzioni (mai applicate), e il naufragio di Copenaghen nel 2009, i diplomatici del clima hanno deciso di rovesciare la tavola. “Ci si e' resi conto che tutto quello che puo' vincolare la sovranita' dei popoli non funzionerebbe -dice l'idrologo Thierry Lebel, direttore della ricerca all'Istituto di ricerca per lo sviluppo (IRD), specialista delle relazioni tra il clima e il ciclo dell'acqua nelle regioni tropicali e che segue i negoziati sul clima da diversi anni. “I contributi che vengono dagli Stati stessi, ed il resto, funziona sul principio 'name and shame', cioe' del cappello dell'asino. Su alcuni Paesi, questo ha dei limiti, evidentemente. Ma al contrario, non dimentichiamo che alcuni trattati che impegnano, sono largamente violati dagli Stati che li ratificano”.
Giudicati insufficienti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul clima (CCNUCC) stessa, gli impegni nazionali sulle emissioni di gas ad effetto serra conducono ad un riscaldamento del Pianeta vicino ai 3 gradi centigradi (o di piu', secondo alcune ONG), in rapporto all'era pre-industriale, mentre l'Accordo di Parigi vuole contenere questa crescita di temperatura sotto i 2 gradi, se non gli 1,5. Un rapporto del Programma delle Nazioni Unite sull'ambiente (PNUE) messo in circolazione ieri 3 novembre, rimette un livello: secondo le proiezioni, con gli impegni di riduzione delle emissioni, l'aumento delle temperature si situerebbe quantomeno tra 2,9 e 3,4 gradi durante tutto il secolo. L'Accordo di Parigi prevede invece dei cicli di revisione di questi impegni, per tutti i cinque anni, per tentare di rispondervi.
Poiche' non vedono ancora molto chiaro al momento come dare il loro contributo, “alcuni Stati hanno fatto delle proposte conservatrici. Ma essi potrebbero ormai essere piu' ambiziosi”, vuole credere Laurence Tubiana, l'ambasciatrice incaricata dei negoziati sul cambiamento climatico. “Una forma di pressione si deve esercitare fra gli Stati. Quello che e' stato virtuoso a Parigi, e' l'effetto di reciproco contagio”.
Che faranno gli Americani?
C'e' soprattutto un'incognita, e non secondaria: il risultato dell'elezione presidenziale americana, il giorno dopo della COP22. La forza di stimolo del testo e' stata modellata per piacere agli americani... che potrebbero, se fosse eletto Donald Trump, semplicemente uscire dall'Accordo. E annientare, o almeno disequilibrare, tutto quanto messo in piedi a Parigi. “Io annullero' l'accordo di Parigi sul clima”, ha in effetti promesso il candidato repubblicano a maggio scorso. Secondo Trump, le regole adottate dalla COP21 vanno “ad uccidere il commercio e il lavoro”, e l'accordo “da' a dei burocrati stranieri il controllo sul modo e la quantita' di energia che noi possiamo consumare nel nostro Paese: il problema non esiste”.
“E una minaccia” -dice Pascal Canfin-. L'accordo di Parigi non e' una costruzione giuridica, ma una costruzione politica. Se un grande Paese esce dal gioco, come puo' l'insieme ricompensare questa mancanza?”. Il successo, piu' o meno diplomatico, della COP21, stabilisce essenzialmente una nuova asse sino-americana sul clima -i due Stati hanno anche ratificato l'Accordo congiuntamente, all'inizio di settembre, mettendo un colpo di acceleratore al processo di entrata in vigore. Qual e' quindi la contropartita di questa alleanza? E quale posizione prendera' la Cina? “Xi Jinping non ha fatto questo per fare piacere ad Obama: la lotta contro il cambiamento climatico e' nell'interesse dei cinesi, essenzialmente per la loro sicurezza alimentare, e loro lo sanno”, dice Canfin. Comunque, l'elezione di Hillary Clinton “leverebbe l'ultima ipoteca sull'Accordo di Parigi”.
La COP22 di Marrakech sara' un cattivo remake della COP6 de L'Aja? Durante questi negoziati nei Paesi Bassi nel 2000, George W. Bush fu eletto presidente degli Usa. Due mesi dopo il suo investimento, a marzo del 2001, annuncio' che finalmente gli Usa non avrebbero ratificato gli accordi di Kyoto, compromettendo questo primo tentativo storico di regolamentazione delle emissioni mondiali. Tecnicamente, gli Usa possono uscire dall'Accordo di Parigi. Ma la procedura e' lunga e complicata. Trump non potrebbe denunciare l'accordo prima di tre anni, che e' quando dura il preavviso. “Non e' perche' si dice qualcosa in campagna elettorale che poi lo si fa! Si vede bene che tutta l'economia si e' indirizzata verso le energie rinnovabili. Non e' detto che un'amministrazione Trump voglia certamente rimettere cio' in discussione”, spiega David Levai, ricercatore sulla cooperazione internazionale per il clima a l'IDDRI. Per questo ex-membro dell'équipe francese dei negoziati, “nel peggiore dei casi, gli Usa saranno su uno strapuntino per quattro anni nei negoziati, come il Canada lo e' stato durante gli anni Harper”.
 
(articolo di Isabelle Hanne, pubblicato sul quotidiano Libération del 04/11/2016)
 
 
 
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