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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
23 dicembre 2012 16:47
 

Come ho fatto altre volte per Natale, offro all’attenzione di chi vorrà soffermarsi qui un istante, il testo di una omelia del teologo cristiano (uscito dalla chiesa cattolica il 20 giugno 2005) Eugen Drewermann. Questa predicazione risale al Natale 1983, e, nel rileggerla, sono rimasta colpita da un suo tema essenziale: il nostro cuore che può farsi mangiatoia (ovverosia rifugio) per un’altra persona.
Vi premetto perciò, con tranquillità, un’invocazione che partì da me nella primavera del 1972 e che successivamente ho letto anche come invocazione che mi arriva da altri. Per questo mi permetto di mettere in evidenza, in particolare, i passaggi relativi.

Tieni aperta la porta
del tuo cuore.
Non ho che
questo rifugio
.

In nessun giorno dell’anno il nostro desiderio di pace e di protezione è tanto grande quanto alla vigilia di Natale. Perché in nessun periodo dell’anno i nostri ricordi si spingono tanto indietro, fino ai tempi in cui noi stessi da bambini abbiamo sperimentato o almeno atteso pace e protezione. Perciò mai come nei giorni che precedono il Natale ci preoccupiamo tanto di dire alle persone a cui ci sentiamo legati che le amiamo e di chiedere con tutto il cuore il loro amore. Abbiamo bisogno del senso di pace e di sicurezza, e non lo troviamo in altro luogo al mondo che non sia il cuore di altri esseri umani. E per questo motivo ce la mettiamo tutta per essere degni di amore. Eppure è paradossale: spesso quanto più sono preziosi i regali che scegliamo, quanto più disperatamente spesso ci sforziamo, tanto più ci allontaniamo dalla semplice verità di questo giorno, poiché essa consiste nel lasciarci vivere come bambini e nel restituirci l’opportunità di diventare bambini. La nostra redenzione comincia con la venuta al mondo di Dio nelle sembianze di un bimbo. E a ogni persona che lo accoglie nel suo cuore sarà data poi la possibilità di diventare ella stessa un bambino figlio di Dio.
In che cosa consiste questo miracolo della nostra liberazione nel giorno di Natale, e attraverso quale miracolo può avvenire che Dio stesso scelga il nostro cuore come mangiatoia, per maturare in esso verso la sua vera forma e verso la nostra umanità?
In fondo sono solo due le cose che dobbiamo imparare nel giorno di Natale. La prima è il potere salvifico del rispetto. Noi chiamiamo la nascita di Gesù a Betlemme un miracolo divino, e questo in effetti è stato. Ma nella nostra vita tale miracolo può ripetersi soltanto se facciamo interamente nostro l’atteggiamento che contraddistingue tutti i personaggi coinvolti nell’evento di Betlemme. Il miracolo della nascita nella purezza virginale da quel momento in poi viene a determinare il nostro comportamento, l’uno nei confronti dell’altro, in vista della redenzione.
Di chi è figlio un essere umano quando viene al mondo? Naturalmente, si dirà, è figlio dei suoi genitori. Ma a Betlemme ciò non era vero, e da allora non vale più in assoluto. Perché ogni volta che i genitori dicessero a un figlio: “Tu sei nostro figlio”, diminuirebbero lo splendore di Dio in questo mondo gettandovi sopra un’ombra. I genitori sono chiamati ad accompagnare il miracolo di Dio che passa e diviene possibile attraverso di loro. Ma ciò non conferisce loro alcun titolo di proprietà o possesso e non giustifica alcuna pretesa. I genitori di Gesù avrebbero avuto molti motivi di pretendere il diritto all’amore del loro figlio. Hanno affrontato più difficoltà del consueto per causa di questo figlio. La lista sarebbe lunga: angoscia e tribolazione, fuga e persecuzione, derisione e scherno, ostilità e tristezza. Sette spade che li trafiggono non appena egli viene al mondo potrebbero essere sufficienti perché i genitori dicano: “Tu sei nostro figlio e abbiamo diritto alla tua gratitudine”.
Il miracolo del Natale è che per la prima volta ci viene detto che un figlio non appartiene ad alcun uomo, appartiene esclusivamente a Dio. Considerando ciò che Gesù più tardi ci insegnerà, fin dal primo giorno della sua esistenza egli dovrebbe dire alla madre e al padre: “Continuando a dire ‘figlio mio’, mi impedite di diventare bambino e mi costringete troppo presto a essere adulto. Così facendo restringete lo spazio in cui ciò che vuole vivere potrebbe vivere e soffocate il miracolo divino attraverso i contorti meccanismi dell’animo umano”.
Vi è qualcosa di meraviglioso nel modo in cui la donna che chiamiamo Madre di Dio si rapporta al figlio nella scena di Betlemme. Essa custodisce nel suo cuore la visione di un angelo che le ha annunciato l’essenza del bambino che sta mettendo al mondo. Ma dopo averlo partorito sta di fronte a lui stupita e come ignara di tutto. Lei stessa trasale quando i pastori di Betlemme le raccontano la loro apparizione dell’angelo. Non risponde, non commenta, accoglie la notizia nel suo cuore per riflettervi. Il figlio di Dio vive in questo mondo perché nessuno ha affermato: “Noi siamo i suoi genitori”, perché coloro che avrebbero potuto affermarlo lo hanno lasciato libero e lo hanno accompagnato sul miracoloso cammino che Dio soltanto aveva deciso per lui, un cammino di costante apprendimento insieme a lui, un cammino di continuo ascolto delle sue parole, un cammino che li costringe ad abbandonare l’abitudine a credere di sapere che cosa sia giusto per questo figlio. Così Gesù è cresciuto, e più tardi, appena più grande, dirà ai suoi genitori, persino a questi stupendi genitori: “Non sapevate che io devo essere soltanto in ciò che è del padre mio?”. E a noi dirà: “Se non diventerete come bambini, pieni di fiducia e di coraggio, pieni della forza che potrebbe vivere in voi, non comprenderete mai quanto Dio sia vicino al vostro cuore”.
Questa è la prima cosa che possiamo imparare dal messaggio del Natale: l’assoluto rispetto di fronte alla vita di ogni essere umano, all’inesprimibile bellezza del suo essere e all’inimmaginabile vocazione che vorrebbe vivere in lui.
A questo si aggiunge direttamente un secondo elemento: la scoperta della gratitudine per l’esistenza dell’altro, in cui ciò di esprime e si manifesta. Così più tardi Cristo volle raccomandarci con il suo esempio e la sua parola di riscoprire nell’altro le tracce di Dio e di imparare a gioire dell’esistenza dell’altro. Ogni volta che amiamo un’altra persona al punto di essere grati a Dio per averla creata, ci immergiamo nuovamente nel miracolo di divenire esseri umani, nel miracolo della nostra redenzione. Infatti, in questo atteggiamento di gratitudine ritroveremo nell’altro il bambino, l’essere autentico. Ci rifiuteremo di accettare l’altro a determinate condizioni e di respingerlo in base a determinate esigenze; al contrario sentiremo e sapremo quanto siamo legati a lui e quanto il suo essere tocchi il nostro cuore. E ovunque gli esseri umani si fondono nell’amore, dirà Cristo, Dio prende di nuovo dimora in questo mondo, tra di noi. Nell’amore si smetterà di pretendere l’uno dall’altro ciò che solo gli adulti richiedono: abilità, perfezione, capacità di fare ogni cosa come si deve, ricchezza, potere, rendimento, onore o almeno ambizione, quindi avidità, meschinità e distruzione. Se il messaggio del Natale dice il vero, noi cercheremo di consentire l’uno all’altro di vivere, e la ricerca di un rifugio avrà fine.
Poiché il cuore di ogni essere umano è capace di diventare per l’anima di un altro la mangiatoia in cui questi può incarnarsi, prendere forma, vivere. Se abbiamo un amico che non ha l’uso delle gambe, lo inviteremo a sedere al nostro tavolo, non pretenderemo che si metta a ballare. E se abbiamo un amico muto, non pretenderemo che tenga un discorso. Se è triste non pretenderemo che rida, e se ride non pretenderemo che pianga. Si ritornerà al miracolo del Natale: prestare ascolto a ciò che non può essere fatto derivare da qualcos’altro. Ed essere bambini significherà potersi abbandonare alle follie dei propri sentimenti, non dover più rinnegare la poesia dell’amore, non dover più proibire il miracolo di ciò che solo Dio dispone, non dover più ricondurre forzatamente alla logica apparente e superficiale del comprensibile la capacità universale del cuore umano di capire ogni cosa. E ogni volta che gli adulti si liberano dall’abitudine a esibirsi in acrobazie sovrumane e a essere persone che pretendono sempre troppo da se stesse e dagli altri, ogni volta che si ripete il miracolo per cui un adulto diventa bambino, il bambino di Betlemme ritorna sulla terra, apre gli occhi e dice parole di bontà che fanno vivere. Da questo momento si comincia a sognare il messaggio degli angeli, ha inizio la visione di stelle che guidano attraverso le tenebre e la notte, e cresce la capacità di non perdere mai di vista in mezzo alla miseria la grandezza nascosta di Dio. In ciò, che è incompiuto prende forma Dio stesso, per umiliare i grandi, i presuntuosi, i perfetti. Siamo autorizzati a vivere così come siamo, con tutta fiducia, con tutta la passione del desiderio di pace e di sicurezza che si trova in Dio quando egli prende forma nella sorella e nel fratello con cui condividiamo la nostra fede e speranza".

(da: Eugen Drewermann, Il cielo aperto, traduzione di Claudia Murara, Queriniana, Brescia 1997, pp. 187-192, con il cortese permesso della Casa editrice, che vivamente ringrazio).
 
 
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