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Il senso di appartenenza nel 2010
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Editoriale di Vincenzo Donvito
16 giugno 2010 8:43
 
Che l'Italia non sia culturalmente una nazione, non e' una novita'. E' stata unificata con atto d'imperio e conquista: la breccia di Porta Pia a Roma e' una sorta di simbolo, come la stretta di mano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano. Ma nonostante questo doppio simbolismo di conquista con la violenza (la breccia) e pace (la stretta di mano), l'Italia dei Comuni e' sempre esistita e continua ad esistere. A parte alcune eccezioni, comunque con radici storiche e culturali e linguistiche (Sicilia, Sardegna, Toscana, Veneto, Alto Adige e Valle d'Aosta e altre minoranze un po' sparse), le regioni e le province sono state e sono un mero ordinamento amministrativo. Poi qualcuno, col tempo e grazie al potere politico che si e' preso (anche col consenso elettorale) si e' inventato una cultura, una tradizione, una lingua anche li' dove, invece, si trattava di dialetti e tradizioni locali; ed ecco che quella che era una caratteristica di uno specifico Comune viene trasformata in regione, se non addirittura nazione.
Questo per capire una proposta del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che vuole rendere obbligatorio in ogni dove il canto e l'esecuzione dell'inno di Mameli (per il quale “grazie alla grazia” della Siae non si dovra' piu' pagare per i diritti d'autore).
E qui sono cominciati i “distinguo” e “differentio”, leghisti del ministro Umberto Bossi in testa, per cercare di sgaiattolare, come gia' mediaticamente fanno da anni, da questo impegno istituzionale.
Io ricordo quando ero bambino, alla scuola elementare col grembiulino nero e il fiocco azzurro, tutti in riga a cantare “che schiava di Roma, Iddio la creo'... zi..pum!”: era il momento preferito per tirarci calci e pizzichi, con una sorta di gara a chi riusciva a storpiare meglio le parole senza farsene accorgere dal maestro che, quando lo notava, rimproverava col ditino in aria appuntendo il proprio muso. Stessa scena accadeva alla messa delle nove di mattina la domenica, quella dei bambini, tra un'ave maria e un pater nostro, il gioco era a chi storpiava meglio senza farsene accorgere... e i preti erano abbastanza distratti nelle loro funzioni che non se ne accorgevano mai, gli bastava la nenia di sottofondo insieme all'incenso.
Oggi ci sono i calciatori (gli altri non contano perche' non hanno presenza mediatica, anche perche' ai giornalisti della Rai non corre ancora l'obbligo del canto nazionale all'inizio delle loro informazioni): coi mezzi a disposizione (essenzialmente Youtube e “moviole” varie) e' tutta una ricerca se l'attaccante o il terzino abbia storpiato o e' stato zitto quando “inneggiava” al centro del campo.
Tra ieri e oggi c'e' una differenza. I bambini di sopra erano fieri delle loro gesta e si era visti di buon occhio quando la storpiatura riusciva meglio ed era piu' singolare: simili gesta erano narrate ovunque (nell'ovunque di un mondo in cui c'era solo un canale Rai e pochi privilegiati possedevano un apparecchio tv). I calciatori e gli altri di oggi (tra cui in prima fila i leghisti con piu' o meno responsabilita' istituzionali) se ne vantano solo nei circoli ristretti, per il resto e' tutto un negare “non avete capito” “ero distratto” “stavo recuperando il ritmo”, etc.
Io, ragazzino che faceva le storpiature alla scuola elementare, ho continuato a non cantare l'inno di Mameli e ad evitare tutti i luoghi in cui non ne avrei potuto fare a meno (coscrizione militare obbligatoria in primis). Cantavo invece i Beatles, i Rolling Stone, Bob Dylan, l'eterno Lucio Battisti, Fabrizio De Andre', Giorgio Gaber, etc... E mi sono sempre sentito in comunanza di ideali con le persone con cui intonavo (e ancora intono e suono) queste canzoni, mentre mi sembrava decisamente fuori luogo e tutt'altro che cameratesco se avessi dovuto intonare l'inno di Mameli.
Cos'altro dovrebbe essere un inno nazionale, che darti il senso di appartenenza a partire dal cuore, se non quello che si fischietta volentieri mentre ci si fa la barba mattina o si va spensieratamente in bicicletta. Vi ci vedete la mattina davanti allo specchio che fischiettate l'inno di Mameli? Qualcuno in casa vi prenderebbe sicuramente per matto. Davanti a questo specchio, invece, magari con la radio accesa, fischiettate o canticchiate altro che vi da' si' il senso di appartenenza, ma a qualcosa di bello, armonioso, condivisibile. Quando dopo la scuola elementare sono andato alle scuole medie, nell'ancora ingenuita' che caratterizza quell'eta', tra gli amici con cui ci trovavamo a cantare, ballare e suonare, ci domandavamo perche' il nostro inno nazionale dovesse essere cosi' brutto, marziale e qualcuno -senza scherzare- sosteneva che avremmo dovuto mandare una lettera al presidente della Repubblica per chiedere di cambiarlo con una canzone di Bob Dylan.. ci mancava il senso di appartenenza all'Italia o volevamo solo che non continuasse ad essere una beffa? Puntavamo al cuore di ognuno e non alle mostrine, e altri avrebbero potuto avere altri cuori per altra musica.
E' obbligatorio, a maggior ragione nel 2010 con la globalizzazione ovunque e nove anni dopo “2001 Odissea nello spazio”, che il senso di appartenenza debba rifarsi a guerre, conquiste, confini, vittorie e non si debba limitare ad un pezzo di carta, che di per se' non scontenta nessuno?
 
 
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