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Dazi e il vicepresidente Usa Vance in Italia
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Articolo di Marco Mayer
7 aprile 2025 8:41
 
 Il viaggio del vicepresidente Usa in Italia e in Vaticano avrà diversi punti fondamentali nel suo programma. Si parlerà di dazi, ma non solo

L’imminente visita del vicepresidente JD Vance a Roma dovrebbe svolgersi tra il 18 e il 20 aprile prossimi. In attesa della data definitiva la diplomazia vaticana e la Farnesina (in stretto collegamento con Bruxelles) stanno alacremente lavorando per preparare in modo adeguato l’agenda dei lavori e i dossier sui temi più sensibili su cui si concentreranno gli incontri.

Per Giorgia Meloni e per il ministro Antonio Tajani (e per i ministri Urso e Giorgetti per la loro parte di competenza) il tema più difficile da affrontare sarà quello dei nuovi dazi americani perché avranno effetti molto negativi su comparti strategici del made in Italy provocando crisi settoriali e conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro.

“Per fortuna” ci ha pensato Elon Musk a rendere più facile la posizione negoziale dell’Italia e di Bruxelles. Ieri, infatti, Elon Musk in collegamento con Firenze (nel suo intervento al congresso della Lega) ha delineato una prospettiva nuova e condivisibile sia da Roma che da Bruxelles: “La costituzione di una area di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti a dazi zero nonché un accordo per la libera circolazione dei cittadini americani ed europei” (una specie di Shengen tra Usa e Ue).

Su entrambi i fronti le diplomazie hanno già lavorato in passato e ora le decisioni spettano ai vertici politici. Se Vance e Donald Trump ascolteranno i suggerimenti di Musk il difficile negoziato tra Europa e Stati Uniti potrebbe riprendere in tempi relativamente rapidi offrendo alla presidente Meloni una piattaforma preziosa per esercitare un ruolo importante in termini di leadership europea.

In caso contrario il negoziato sarà molto più complesso, ma per parafrasare Giorgia Meloni questa volta non sarà l’Europa, ma gli Stati Uniti che “si sono un po’ persi”.

L’incontro in Vaticano per il vicepresidente JD Vance si presenta ancora più difficile perché i grandi tagli lineari e indiscriminati ai progetti umanitari e di cooperazione allo sviluppo di Usaid stanno già provocando numerose vittime in molti Paesi del mondo. Bill Gates ha parlato della possibilità che il blocco immediato e totale dell’assistenza umanitaria di Washington agli stati più poveri provochi 10 milioni di morti.

Al di là dell’indebolimento del soft power americano a tutto vantaggio dell’influenza cinese in Africa e nei Paesi più fragili la sospensione delle attività umanitarie appare in aperto contrasto con la dottrina universalitica della Chiesa di Roma ed in particolare con l’appello alla Speranza di Papa Francesco. In questi giorni ho anche ricevuto drammatiche testimonianze dirette della assenza di farmaci retrovirali a migliaia di bambini affetti da Aids in Africa (in Tanzania in particolare).

Un ultimo chiarimento necessario riguarda la polemica sul free speech, uno dei cavalli di battaglia del vicepresidente Vance. La prima osservazione è ovvia. Per usare la felice espressione di Machiavelli, la “verità effettuale” è la seguente. L’assenza (o la limitazione della libertà parola) non riguarda certo i 450 milioni di cittadini europei, ma come dimostra simbolicamente il caso Navalny, più due miliardi di persone che vivono in Cina, Russia, Iran, Venezuela e tanti altri regimi dittatoriali in giro per il mondo.

Il secondo punto è che la libertà di espressione comprende l’accertamento fattuale delle informazioni e lo sviluppo del dibattito pubblico proprio di ogni società aperta come teorizzato da Karl Popper.

Sul tema del free speech il mese scorso ho avuto un lungo colloquio con Aryeh Neier (classe 1937). Neier è stato direttore di American Civil Liberties e di Open Society (Soros Foundation) e ha fondato Human Rights Watch. Nel 1979 Neier ha pubblicato un libro famoso in cui ha raccontato la sua esperienza quando ha difeso il diritto di un gruppo di neonazisti americani di manifestare in una cittadina abitata in maggioranza da cittadini di religione ebraica.

Neier pertanto non può essere accusato di aver mai censurato nessuno, ma mi ha confermato che il freedom of speech è tale se comprende la libertà di parlare di disinformazione. Da questo punto di vista è incomprensibile perché JD Vance ne neghi l’esistenza (la definisce “so called disinformation“) quando ci sono mille evidenze empiriche che essa costituisce un’arma della guerra ibrida e uno strumento con cui il Cremlino cerca di manipolare l’opinione interna e internazionale.

(articolo pubblicato su Formiche.net del 06/04/2025)

 
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