Ne esistono centinaia di varietà, dai nomi esotici ed evocativi (occhio al Carolina Reaper), e per misurare quanto sono piccanti si utilizza la scala ideata da Wilbur Scoville a inizio Novecento
Si dice peperoncino, ma il plurale è d’obbligo: in base a un censimento del 2020 ce ne sarebbero oltre mille varietà. Ormai coltivate in tutto il mondo, anche se l’origine, che risale a più di 6.500 anni fa, è patrimonio delle culture amerindie. In Perù e in Messico il peperoncino era di uso quotidiano e le popolazioni precolombiane lo usavano anche, insieme alla farina di mais, nella preparazione del xocolatl, la bevanda degli dèi, aspra, densa, amara e speziata, molto diversa dalla cioccolata dolce e coccolosa a cui siamo abituati.
Dobbiamo a Cristoforo Colombo, e alla scoperta dell’America, la sua diffusione nel resto del mondo, che da allora è stata inarrestabile. Anche se, all’inizio, non sembrava annunciarsi un successo e le aspettative di grandi guadagni del navigatore e dei Reali di Spagna furono deluse: il sapore troppo piccante non era gradito ai ricchi e ai nobili, abituati a gusti più delicati; inoltre, la pianta era adattabile, di facile coltivazione e resistente al freddo. I peperoncini, infatti, possono essere raccolti quasi tutto l’anno perché il ciclo vegetativo delle piante prosegue sino al freddo e non è raro avere frutti anche a ottobre-novembre. Non occorrevano quindi spedizioni e commerci con la terra di origine. Infine, il peperoncino, con le sue proprietà riscaldanti e afrodisiache, non piacque alla Chiesa, e in particolare al gesuita Josè de Acosta, che lo bollò come «suscitatore di insani propositi».
Una volta acclimatato in Europa, però, il peperoncino divenne popolare proprio per la facilità di coltivazione e le tante possibilità di impiego; così si iniziò a essiccarlo e a macinarlo, usandolo per condire e colorare diversi tipi di salsicce e piatti.
Anche il nome cambiò. Noto nell’America centrale come axi, fu chiamato pepe d’India, pepe cornuto, siliquastro. Il nome scientifico, capsicum, si afferma solo a partire dal Seicento, nel 1700 viene definito peperone, da pepe e dalla sua forma latina, piper. E solo nel Novecento compare il termine peperoncino, come diminutivo di peperone. Furono gli spagnoli, forse per pigrizia, a dare ai frutti del capsicum annuum lo stesso nome che usavano per il pepe, pimienta, e la confusione si estese alle altre lingue europee, dall’inglese pepper al francese piment o poivron, fino al serbocroato p?par, da cui deriva il tedesco paprika.
In Italia, la novità proveniente dal continente americano fu detta inizialmente pepe d’India (la stessa “India” dei porcellini e dei fichi), poi, dal diciottesimo secolo, peperone; infine, dalla seconda metà dell’Ottocento, solo le varietà più grandi e non piccanti furono chiamate “peperoni”, mentre per le più piccole e piccanti si coniò peperoncino. Nessuno, però, pensò di comunicarlo agli anglosassoni, che proprio in quel periodo presero a chiamare pepperoni il salame piccante. Da qui una confusione che, ancora oggi confonde i vegetariani. Negli Stati Uniti e in America Latina si usa anche la parola ungherese paprika, così come in tedesco e olandese, in francese piments doux.
In alcune cucine, come appunto in quella ungherese, è ampiamente utilizzato per aromatizzare gulasch, salsicce e pollo ed è considerato la spezia nazionale.
Consumato fresco, fritto o arrostito, in scatola e in polvere, schiacciato o macinato a secco – ma il metodo di conservazione migliore è il congelamento, che mantiene inalterate le proprietà organolettiche, la piccantezza e il contenuto vitaminico – è un ingrediente tradizionale nelle cucine del Messico, dei Caraibi, della Thailandia, del Perù, del Cile e della Bolivia.
È un condimento molto diffuso anche nel Maghreb, in particolare sotto forma di harissa, una purea di peperoncino rosso essiccato originaria della Tunisia e perfetta con il cuscus, ma è anche ormai indissolubilmente associato alla cucina italiana del Sud, soprattutto a quella della Calabria, tanto nei sapori come nell’iconografia.
Usato solitamente come condimento, fresco o secco, macinato o intero, serve a insaporire grigliate, curry, o salse piccanti, ed è il tocco che rende speciali le penne all’arrabbiata, mentre, aggiunto all’olio di oliva, può essere usato ovunque, dalla pizza, alle bruschette, ai minestroni.
Ma c’è molto di più, perché le tante varietà permettono di combinare menu a base di peperoncino dall’antipasto al dolce. Anche in Italia, infatti, ormai se ne coltivano le varietà più note e pregiate. Peperita, un’azienda agricola toscana di Bibbona, in provincia di Livorno, ne propone una ventina di tipi diversi coltivati secondo metodi biologici.
Stretto parente del peperone, il peperoncino se ne differenzia poiché contiene la capsaicina, un composto chimico presente in diverse concentrazioni, a seconda del tipo, che stimola il recettore del calore, provocando una sensazione piccante sulle papille gustative. Una sensazione che si può anche misurare, grazie alla scala di Scoville, ideata agli inizi del Novecento da un farmacista statunitense e basata appunto sul contenuto di capsaicina. L’unità di misura è il grado SHU (Scoville Heat Units): un peperone dolce ha zero gradi SHU, mentre la capsaicina pura ha un valore di sedici milioni. Il cornetto, abitualmente consumato in Italia, ha un indice di circa cinquemila SHU.
Esistono diverse classifiche in proposito, ma il peperoncino più piccante del mondo è ufficialmente il Carolina Reaper, entrato nel Guinness dei primati nel 2013, con un valore fino a 2.200.000 unità Scoville. Originario della Carolina del Sud, nato da un incrocio tra un Naga Morich e un Habanero rosso, ha un sapore dolce e fruttato, ma con un’intensità che può durare minuti interi e che arriva fino alla gola. È così ustionante che anche solo sfiorarlo può far bruciare la pelle. Una caratteristica della capsaicina, infatti, è che può intorpidire la zona dell’epidermide dove si è depositata. Una caratteristica usata in medicina per applicazioni localizzate in grado di far scomparire il dolore nei pazienti con artrite, herpes zoster, neuropatia diabetica, mastectomia e cefalea. Nel 2007, infatti, è stata isolata la molecola QX-314, che ha la proprietà di attraversare la parete cellulare dei neuroni recettori del dolore, inibendo qualsiasi sensazione, senza intaccare il funzionamento degli altri neuroni. Per questo motivo può essere utilizzato come anestetico.
Il peperoncino favorisce anche una buona digestione perché aumenta la produzione di saliva e succhi gastrici.
Sotto l’aspetto dietetico, il peperoncino è un vero toccasana in quanto contiene vitamina A, che aiuta mantenere in perfetta salute gli occhi, i capelli e la pelle e soprattutto vitamina C, che non solo arresta la diffusione dei radicali liberi, ma è utile per rinforzare le barriere del sistema immunitario, abbassando il rischio di insorgenza di tumori e inibendo la sintesi di sostanze cancerogene. Inoltre, impiegare nella dieta per almeno quattro volte alla settimana il peperoncino dimezza il rischio di infarto.
Ma ci sono anche usi che non sono legati all’alimentazione. Gli agricoltori, in Africa e nel subcontinente indiano, lo usano attorno alle recinzioni, per difendere i raccolti dagli elefanti, che hanno un naso – la proboscide – particolarmente delicato. E naturalmente ci sono i famosi spray al peperoncino, usati per la difesa personale.
(Carla Reschia su Linkiesta del 02/04/2025)
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