I l Rapporto Draghi è stato accolto con vari gradi di entusiasmo, a volte superficiale, a volte ostentato, a volte di maniera. Con poche eccezioni - la più importante è il duro attacco del ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner - il corposo documento è stato interpretato come uno sprone a intervenire in profondità sulla politica economica e la governance dell'Unione europea, giudicate inadeguate alle sfide che dobbiamo affrontare. Ci sarà tempo per discutere nel merito le singole proposte, molte delle quali assai condivisibili, altre meno. È però fin da subito importante individuarne la filosofia di fondo.
Il punto di partenza è che l'Europa è una sorta di vaso di coccio tra i grandi vasi di ferro dell'economia globale, a partire da Stati Uniti e Cina. L'Europa rischia di venirne strangolata. Da qui derivano due conseguenze fondamentali: in primo luogo, è necessario dilatare l'estensione e la profondità dell'intervento pubblico, sia attraverso un aumento sostanziale e permanente della spesa (per arrivare al target di 800 miliardi di euro di investimenti annui tra pubblico e privato), sia attraverso il ricorso muscolare agli strumenti della politica industriale e della politica commerciale. Secondariamente, gli Stati nazionali non hanno né i mezzi né la dimensione per giocare tale partita: quindi questa maggiore spesa e, in generale, questa maggiore capacità di indirizzo degli investimenti anche privati va centralizzata a Bruxelles.
Il problema, prima ancora che teorico, è empirico: la storia è piena di precedenti di centralizzazione ed estensione del perimetro pubblico, ma raramente essi hanno avuto successo. I due esempi che ricorrono nel rapporto, cioè Usa e Cina, dimostrano ben poco: negli Usa, l'innovazione e lo sviluppo sono stati trainati da investimenti privati in un contesto di vasta deregolamentazione (Draghi stesso fa l'esempio dei settori tecnologici) mentre il decollo economico della Cina ha sfruttato proprio gli elementi di decentralizzazione presenti nel suo sistema politico.
Inoltre, il Rapporto è pervaso da critiche (spesso assai sensate) ad alcune scelte compiute dalla stessa Ue, per esempio nell'iper-regolamentazione che ha segnato la nostra versione della transizione ecologica. Ma non è questo un esempio di politica industriale europea, i cui esiti sono quanto meno discutibili? Oltre tutto, proprio mentre scriviamo gli Stati membri faticano a mettere in atto gli investimenti previsti dai rispettivi Pnrr, ed è tutt'altro che ovvio che questi avranno un effetto tangibile sulla produttività. Non è questo un esempio di aumento e centralizzazione della spesa?
Prima di reiterare questi strumenti, forse sarebbe meglio tentare di misurare l'efficacia di tali sforzi. E' un peccato che, nelle quasi 400 pagine del rapporto, non vi sia traccia di tale tentativo.
(Carlo Stagnaro - Direttore Ricerche e Studi dell'Istituto Bruno Leoni)
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