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Per Alexey Navalny
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
19 febbraio 2024 11:26
 
 “Infelice il Paese che ha bisogno di eroi!”.

Alla notizia della improvvisa morte di Alexey Navalny nella colonia penale a regime speciale IK-3, volgarmente chiamata 'Lupo Polare', posta nella Yamalo-Nenetsia (Jamalo-Nenec) , una regione della Siberia oltre il Circolo polare artico, a oltre 2000 chilometri da Mosca, mi sono immediatamente venute in mente due cose.

Subitissimo le parole che Bertolt Brecht fa dire a Galileo nel dramma dedicato al grande, indomabile scienziato. “Infelice il Paese che ha bisogno di eroi!”.

La frase si può capire intuitivamente: se un Paese ha bisogno di eroi, vuol dire che il suo governo esige dalla gente sempre e comunque l’assenso e non tollera chi non glielo dà. Quindi, ci vuole eroismo per dire di NO, per avanzare la proposta di un altro modello di governo e di politica.
Nella Russia ammaestrata (non è un refuso!) da molti, troppi anni, dal folle, sanguinario  tiranno che risponde al nome di Vladimir Putin, e che sempre di più somiglia a Adolf Hitler, la statura di Alexey Navalny si rivela quella di un eroe. E non solo perché ha fatto resistenza alle sirene letteralmente velenose del despota che ha scatenato la sua guerra personale contro l’Ucraina e che, adesso, corre per il suo terzo mandato di governo. (E c’è da chiedersi: per smaniosa, insaziabile avidità di potere oppure per la paura che, perdendolo, possa venire chiamato a rispondere di tutti i suoi misfatti? E io propendo per questa seconda ipotesi).

Il secondo motivo per cui, a mio avviso, Navalny è davvero un eroe, me lo suggerisce la sua decisione di rientrare in Russia non appena guarito dei postumi dell’avvelenamento (20 agosto 2020) grazie alle cure prestategli in un ospedale tedesco, dopo che Putin era stato “costretto” a lasciarlo partire subito, dopo una brevissima resistenza dei medici russi, per l’insistenza della moglie, Julia Navalnaja, le pressioni di Macron e di Merkel, e altro ancora.

Alexey Navalny sapeva bene che ormai Putin lo considerava un nemico mortale e che non gli avrebbe perdonato di essere sopravvissuto al gas nervino identificato nella clinica di Berlino.

Eppure, nonostante questo, nel gennaio 2021, decise di tornare nella sua Patria, e lo annunciò con un video su Youtube,  in cui asseriva: “Ho fatto i miei esercizi e ho capito che il momento che stavo aspettando è arrivato, forse sono quasi in salute e posso tornare a casa”.

Appena messo piede sul suolo russo venne arrestato, condannato a una  detenzione di poco più di due anni, che poi è stata prolungata di qualche altro anno, fino ad arrivare all’ultima condanna a 19 anni e al trasferimento nella colonia penale siberiana dove è morto.

A Berlino, una volta guarito, poteva chiedere asilo politico – penso che glielo avrebbero concesso. E poi, se la Germania era troppo vicina alla Russia, trasferirsi in Gran Bretagna oppure anche negli Stati Uniti. Insomma, nel gennaio del 2021 poteva restare un uomo libero, sempre impegnato nella lotta alla tirannia putiniana sui social e ogni altro mezzo possibile … ma libero e (quasi) in salvo.

E invece no! Tornò fra la sua gente – segno massimo del grande amore che aveva, e che ha mantenuto, per essa ; una versione laica del detto gesuano che si trova nell’evangelo di Giovanni (15,13) «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici».

Ci tornò pur sapendo che nel suo Paese, umiliato dalla tirannide putiniana, la sua vita sarebbe stata sempre in pericolo.

E qui vi è l’allacciamento con il secondo pensiero che mi è venuto in mente, cioè il ricordo del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), inviso al folle despota tedesco, Adolf Hitler, fino all’odio più feroce che portò Bonhoeffer alla morte per impiccagione nel lager di Flossenbürg,  ad appena trentanove anni.

Il suo “reato”? Essersi dissociato, con altri pastori, dai Cristiani Tedeschi, che avevano scelto di obbedire a Hitler anziché a Dio, tanto da aver fatto passare sotto silenzio la distruzione dei negozi di proprietà degli ebrei (“Notte dei cristalli”, notte tra il 9 e 10 novembre 1938), alla quale invece Bonhoeffer reagì asserendo: “Una cacciata degli Ebrei dall’Occidente comporterà inevitabilmente l’espulsione di Cristo, poiché Gesù Cristo era ebreo". Lui aderì alla “Chiesa Confessante” e tenne dei seminari per giovani pastori a Finkenwalde, pubblicò Sequela, una lunga, severa riflessione su ciò che comporta per il cristiano seguire le orme di Gesù di Nazaret – tutte cose severamente proibite.

Ma la sua fama di teologo lo aveva fatto invitare negli Stati Uniti, dove era già stato anni prima, proprio nel 1939. Quando la Germania di Hitler invase la Polonia, lui era oltre oceano, e ci sarebbe potuto restare con un buon margine per la sua sicurezza personale (si sa che quando si ha a che fare con i tiranni, la certezza di stare al sicuro non c’è mai). Ma non lo fece. Anzi, si affrettò a tornare in Patria, anch’essa una Patria umiliata dal feroce tiranno e dai suoi accoliti, nonché dalla massa del popolo che se ne era fatta sedurre. A maggior ragione, pensava Bonhoeffer, questo popolo aveva bisogno di lui, del suo amore, del suo impegno fino al dono della vita.

E anche per lui, non subito, ma nell’aprile 1943, si aprirono le porte della prigione –dapprima quella di Berlino-Tegel, ma, dopo l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 e la prova provata che Bonhoeffer faceva parte della congiura, il pastore fu trasferito nei sotterranei della Prinz-Albert-Strasse, da cui uscì solo per essere portato alla morte – su preciso ordine di Hitler. Era il 9 aprile 1945. Una ventina di giorni dopo (30 aprile) lo stesso tiranno ai sarebbe suicidato, e l’8 maggio la Germania avrebbe firmato la resa senza condizioni.

 
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