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Cincinnato non abita più qui. Masaniello invece sì
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
13 aprile 2013 11:02
 
Cincinnato non abita più qui. Nessuna traccia nella nostra repubblica di un emulo del probo servitore della Res Publica romana Lucio Quinzio Cincinnato, eletto due volte Dictator (traduzione superflua!) nel 458 a.C. e nel 439 a.C., e tornato sempre a vita privata dopo aver compiuto la missione assegnatagli.
E’ famosa la storia del suo primo incarico, che conosciamo dalle Storie di Tito Livio. Roma è in pericolo a causa di una conduzione errata della guerra contro gli Equi; i senatori si recano ai Prata Quinctia, dove Cincinnato sta arando il suo non grande pezzo di terra, dei cui frutti vive lui e la sua famiglia. I senatori lo conoscono, è uno di loro ed è anche stato console due anni prima; adesso manda a prendere in casa la toga adatta a ricevere questi importanti visitatori e ad ascoltare la loro richiesta. Che è: accetta la dittatura. Tu solo puoi salvare la repubblica (Tito Livio dice che era la “spes unica populi romani –l’ultima speranza del popolo romano).
Lucio Quinzio accetta, si reca a Roma coi senatori, assume i pieni poteri, raduna l’esercito e va in soccorso di quello del console assediato nel suo stesso accampamento. In 16 giorni (sedici!) sconfigge gli Equi, divide il bottino fra i soldati, riceve in premio dalla Repubblica una corona d’oro di una libbra e … torna al suo campicello.
Nessuno avrebbe potuto rimandarlo a casa prima dello spirare dei sei mesi della dittatura, ma lui decide di avere fatto tutto quello che doveva fare. Missione compiuta. Un veni, vidi, vici (venni, vidi, vinsi) prima di Cesare e con un esito ben diverso!

Una storia esemplare: ragazzi, facciamo quello che si deve e torniamo alla nostra vita di sempre. Solo così saremo utili davvero, solo così salveremo davvero, se è necessario, la patria. E infatti Cincinnato sarà richiamato alla dittatura dopo molti anni, nel 439 – e aveva, dice Tito Livio, più di ottant’anni!

N.B. Non si deve essere ricordato di questa storia il buon Mario Monti, sennò avrebbe agito diversamente. Peccato! Eppure la deve aver sentita almeno alla scuola elementare; allora questi racconti edificanti erano di moda.

E poi c’è quell’altro, Masaniello. Altro tempo, altra storia – ma sempre edificante. Un vero e proprio monito.
Con Masaniello siamo nella Napoli della prima metà del 1600, munta e logorata oltre ogni misura dal governo spagnolo. Ci sono tasse, dazi e gabelle su tutto; la parte povera della popolazione (la stragrande maggioranza) geme letteralmente sotto questi pesi. La goccia che fa traboccare il vaso la versa nel 1646 Rodrigo Ponce de León, duca d’Arcos, il nuovo viceré, un tipo frivolo e inesperto per la carica chiamato a ricoprire: non trova di meglio che rimettere la gabella sulla frutta che rappresenta l’alimento consumato dai ceti più umili. Il popolo pazienta un anno, ma il 6 giugno 1647 la sua collera (o era solo disperazione?) registra una prima esplosione. A guidare la rivolta è Tommaso Aniello (Masaniello, appunto), col fratello Giovanni: ne fanno le spese i banchi del mercato rovesciati dal gruppo ribelle. La situazione si trascina per un mese. Il 7 luglio c’è la vera e propria sollevazione popolare. Al grido di «Viva 'o Rre 'e Spagna, mora 'o malgoverno», un programma che tanto rivoluzionario non è, Masaniello guida la gente fin dentro il palazzo del viceré. Che una cosa la capisce: bisogna trattare (o far vista)! E allora, racconta la leggenda (la storiografia dice cose un po’ diverse), Masaniello è ammesso a corte, rivestito, equipaggiato come un nobile; gli si affida il governo e in effetti compie alcuni atti che piacciono al popolo, ai poveri. E non è difficile: basta levare un po’ di gabelle, di dazi, di tasse … Ma si dà subito alle vendette personali. E questo non piace a nessuno. Lo accusano di essere pazzo (gli storici pensano che sia stato avvelenato a corte), e il popolo in cinque giorni gli si rivolta contro. Figuriamoci il viceré! Il 16 luglio viene ucciso ad archibugiate dai soldati nella cella del convento, in cui si era rifugiato, il suo corpo è decapitato e gettato in un fosso. Anche le conquiste del popolo svaniscono come brina al sole.

Un’altra storia esemplare: ragazzi, attenzione, il potere dà alla testa! Gli arruffapopolo hanno vita breve. Il popolo che li osanna per le promesse fatte di cambiamento è lo stesso che li annienta quando verifica che tutto quel cambiamento, alla fin fine, non c’è stato davvero.

N.B. E il buon Beppe Grillo – se la ricorderà questa storia? E quando evoca i forconi del popolo contro un eventuale “governissimo”, se ne rende conto che quei forconi potrebbero essere rivolti contro di lui, perché tradisce anche lui le promesse del cambiamento invocato? Il potere, sia pure nella forma del puro e semplice successo elettorale, non sta dando alla testa anche a lui?

Posso aggiungere un’ulteriore chiosa che ci porta a una storia ancora più vicina. Ho in mente i Giacobini napoletani della fine del Settecento e anche un personaggio come Carlo Pisacane, una sessantina di anni dopo. E’ vero, lì lo scenario è sempre il Mezzogiorno, ma, visto l’andamento della nostra storia recente anche nel Settentrione, mi pare lecito chiedersi se, in generale, gli italiani discendano da Giuseppe Mazzini (genovese pure lui, Giuseppe pure lui, ma forse un tantino più educato e aperto al dialogo) o non piuttosto dai sanfedisti. Insomma, di materia di riflessione ce n’è e ne avanza. Per tutti quanti – leader più o meno eletti ed elettori.
 
 
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