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DEI DELITTI E DELLE PENE (1764/1766). INVITO ALLA LETTURA DI UN'OPERA ANCORA ATTUALE
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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
1 dicembre 2007 0:00
 
Quando, una quindicina di giorni fa, stavo preparando lo scritto dello scorso 15 novembre sull'abolizione della pena di morte in Toscana clicca qui, sentii la necessita' di rileggere Dei delitti e delle pene, il saggio di Cesare Beccarla, che aveva ispirato quell'autentica rivoluzione del diritto penale messa in atto dal Granduca Pietro Leopoldo, cosi' come anche altre riforme (o tentativi di riforma) intraprese da numerosi sovrani europei, fra cui va annoverata Caterina II di Russia, che fu talmente conquistata da quest'opera da sollecitare (peraltro invano) l'autore a recarsi in Russia per aiutarla a ristrutturare il diritto penale di quell'impero.
Ebbene, questo breve trattato mi e' sembrato ancora una volta non solo limpido e conseguente nelle sue dimostrazioni, ma anche, per certi aspetti, estremamente attuale, e cosi' ho deciso di dedicargli uno spazio tutto suo, come semplice premessa e invito ad avvicinarsi direttamente al testo integrale, che si trova facilmente su pagine stampate ed elettroniche (vedere la breve bibliografia alla fine).

Va detto subito che Dei delitti e delle pene(1764/1766) non si limita alla circostanziata dimostrazione del fatto che la pena di morte e' assolutamente ingiusta sul piano del diritto e anche inutile come deterrente per chi tende o vuole delinquere in modo grave. Senz'altro questo aspetto dovette rappresentare l'innovazione piu' ardita in quell'epoca; infatti a quel tempo era ancora diffusa l'idea che l'autorita' emanasse dalla volonta' divina (e quindi fosse dotata di tutti i poteri attribuiti a Dio, fra cui quello di dare la morte), mentre la concezione della societa' basata su un "contratto sociale" stava muovendo i suoi primi passi. Per comprendere bene la rottura con la tradizione e l'abitudine, che si attua in quest'opera, non occorre avere molta fantasia: basta guardare con quanta tenacia in diversi Stati del mondo si resti ancora oggi abbarbicati a questo potere di dare la morte ai propri simili; oppure piu' semplicemente e forse piu' efficacemente osservare i moti del nostro stesso animo quando ci sentiamo smarriti alla sola notizia di un delitto efferato.
In effetti, nei 47 paragrafi dell'edizione definitiva di questo libretto (1766) si trovano affrontati numerosi altri temi di estrema attualita' anche e proprio qui da noi, quali, fra l'altro, la necessita' di una legislazione puntuale e comprensibile a tutti, di un processo serio e veloce e della certezza della pena, la distinzione tra delitto e peccato, l'importanza della prevenzione, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge penale. Il tutto organizzato a formare un solido sistema animato da una logica quasi sempre stringente.
Senza la minima pretesa di esaurire l'argomento, cerchero' di presentare alcune idee guida del saggio, fra cui, naturalmente, quella contenuta nel paragrafo 28, Della pena di morte, che e' comunque la trattazione alla quale Beccaria dedico' un numero di pagine superiore a quello di ogni altro paragrafo.

Le leggi come patto tra uomini liberi: le leggi, comprese quelle penali, contemperano il bisogno della liberta' e quello della sicurezza insiti in ogni individuo. Dice Beccaria: "Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in societa', stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una liberta' resa inutile dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillita'. La somma di tutte queste porzioni di liberta' sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranita' di una nazione, ed il sovrano e' il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. [.]" (par. 1: Origine delle pene).
Ma nella difesa dalle "private usurpazioni", cioe' nelle leggi penali, occorre sempre rispettare la misura delle porzioni di liberta' sacrificate: "L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il piu' e' abuso e non giustizia, e' fatto, ma non gia' diritto. [.] E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere tutti gli interessi particolari" (par. 2: Diritto di punire).

Certezza del diritto. Ovvero: solo il legislatore puo' decretare le fattispecie dei delitti e le pene: e' una delle logiche conseguenze di quanto detto sopra. Un'altra conseguenza e' che chi fa le leggi non puo' fare al contempo da giudice. Questa si chiama "divisione dei poteri" e a noi, oggi, appare scontata, ma nel 1764/66 non lo era affatto, anzi era rivoluzionario affermarla. Ma c'e' di piu': che le fattispecie dei delitti e le pene siano stabilite per legge e' essenziale affinche' le persone non si trovino alla merce' dei singoli giudici, quando a loro fosse consentito "interpretare lo spirito della legge", e non semplicemente applicare la legge. "Ciascun uomo", afferma Beccaria, "ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll'offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo. [.]" (par. 4: Interpretazione delle leggi). Una legge penale non giusta fa un danno che si puo' correggere, afferma Beccaria, mentre "l'interpretazione" dei giudici si risolve in molte piccole tirannie che sono "tanto piu' crudeli quanto e' minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire" e scuote la fiducia della gente nella legge.

Chiarezza delle leggi: Le leggi non devono essere scritte "in una lingua straniera al popolo", perche' in questo modo la maggior parte delle persone dipenderebbero da quelli che noi oggi chiamiamo "addetti ai lavori", e cio' in un aspetto importantissimo della loro vita. Una conoscenza diretta di cio' che la legge considera reato e delle conseguenti pene fa si' che le persone possano valutare spassionatamente i pro e i contro di una loro azione, mentre "non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza delle pene aiutino l'eloquenza delle passioni" (par. 5: Oscurita' delle leggi).

Misura dei delitti: e' questo uno dei punti piu' audaci del saggio, perche' vi si opera esplicitamente la distinzione tra "reato" e "peccato". Infatti Beccaria afferma che "[.] l'unica e vera misura dei delitti e' il danno fatto alla nazione", e in quest'ottica, per lui, non conta neppure l'intenzione con cui e' stato compiuto il reato.
La distinzione tra "reato" e "peccato" e' ripresa anche altrove, ma qui mi pare che sia espressa piu' compiutamente e cosi' riporto tutto il brano del par. 7 (Errori nella misura delle pene): "Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risaltera' agli occhi d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessita' ha fatto nascere dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilita' comune, che e' la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si e' riserbato a se' solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perche' egli solo puo' esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sara' l'insetto che osera' supplire alla divina giustizia, che vorra' vendicare l'Essere che basta a se stesso, che non puo' ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non puo' senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prendera' norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo, possono anche esserlo col punire".
Questa distinzione fu ulteriormente chiarita da Beccaria nella prefazione "A chi legge", pubblicata nell'edizione del 1766 per rispondere soprattutto all'accusa di empieta' sollevata dal monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei in uno scritto stampato a Venezia ai primi del 1765.
Qui dunque si legge: "Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della societa'. Non vi e' paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicita' di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima non e' l'escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benche' divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtu' in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosi' sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione cio' che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessita' ed utilita' comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sara' sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piu' pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in societa'. Sonovi dunque tre distinte classi di virtu' e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall'una risultano dalle altre. Non tutto cio' che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, ne' tutto cio' che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli e' importantissimo di separare cio' che risulta da questa convenzione, cioe' dagli espressi o taciti patti degli uomini, perche' tale e' il limite di quella forza che puo' legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell'Essere supremo. Dunque l'idea della virtu' politica puo' senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtu' naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l'imbecillita' o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtu' religiosa e' sempre una costante, perche' rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata. Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perche' non parla di queste [.]". (Tuttavia le precisazioni contenute nella prefazione non impedirono che il saggio fosse messo all'Indice dei libri proibiti della Chiesa cattolica il 3 febbraio 1766 e li' vi restasse fino al 1966, anno dell'abolizione dell'Indice stesso, all'indomani della conclusione del Concilio Vaticano II.

Equita' del processo, certezza della pena e inutilita' della tortura: il processo deve mirare a stabilire se l'imputato ha commesso il fatto attribuitogli, comminandogli la pena relativa o mandandolo assolto. Anche questo, oggi, a noi sembra scontato, ma non lo era nel passato, quando "i delitti degli uomini erano il patrimonio del principe" e "il giudice era [.] un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero". Sgombrato il campo da un tale interesse venale, il giudice, meglio se assieme a dei giurati estratti a sorte, deve raccogliere le prove e le testimonianze, ignorando le accuse segrete, un costume che "rende gli uomini falsi e coperti", e procedere senza inutili e dannosi indugi. Infatti un processo rapido assicura una serie di benefici al singolo e alla societa'. Prima di tutto garantisce che l'imputato innocente sia liberato al piu' presto dal carcere in cui e' stato rinchiuso necessariamente ma comunque ingiustamente. Inoltre, nel caso della condanna, la vicinanza tra reato commesso e pena comminata produce nell'animo della gente un'impressione forte, manda, per cosi' dire il messaggio che il reato viene prontamente punito. Anche qui le parole di Beccaria sono molto efficaci (e attuali) e vale la pena leggerle direttamente: "Egli e' dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l'idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di sempre piu' disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d'un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli animi degli spettatori l'orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena" (par. 19 Prontezza della pena).
Ma un processo che voglia appurare davvero i fatti e condannare il vero colpevole non puo' avvalersi della tortura dell'imputato che resta innocente fino alla sentenza. Alla tortura Beccaria dedica un lungo e articolato paragrafo 16, di poco piu' breve di quello dedicato alla pena di morte. Del resto anche la tortura, per l'autore, non e' che "una crudelta' consacrata dall'uso" e come tale egli vuole smascherarla e dichiararla inutile ai fini della corretta applicazione delle leggi e dell'accertamento della verita'. Prendendo in esame i diversi motivi su cui si basa l'uso della tortura, Beccaria si sofferma anche su quello che indica la tortura come "purgazione dell'anima". L'idea "che il dolore, che e' una sensazione, purghi l'infamia, che e' un mero rapporto morale" e' ripresa "dalle idee religiose e spirituali". Mettere sullo stesso piano il fuoco del purgatorio voluto dal grand'Essere e la tortura voluta dagli uomini e', secondo lui, un abuso della Rivelazione e non c'entra niente con l'accertamento della verita' dei fatti a cui deve mirare il processo. E proprio guardando allo scopo del processo la tortura si rivela non solo inutile ma anche controproducente. Riassumendo con estrema brevita', l'innocente debole e impaurito soccombera' al dolore, si accusera' di tutto e sara' condannato, il colpevole di forte struttura fisica e d'animo tracotante resistera' al dolore, non ammettera' niente e sara' scagionato.
A proposito delle pene, anch'esse devono essere proporzionate alla gravita' dei reati. In generale, per Beccaria, "perche' una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto [.]". Del resto lo scopo delle pene "non e' altro che d'impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali" (cap.12: Fine delle pene).
Vi sono delitti, come quelli contro la persona, che devono essere puniti con "pene corporali", escludendo la possibilita' che il colpevole se la cavi con una pena pecuniaria, perche', sostiene Beccaria, "non vi e' liberta' ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa". Solo per i furti fatti senza violenza il nostro autore ritiene che la pena piu' adatta sarebbe quella pecuniaria, anche se questo puo' valere solo per chi ha denaro e non per i poveri per i quali "la pena piu' opportuna sara' quell'unica sorta di schiavitu' che si possa chiamare giusta, cioe' la schiavitu' per un tempo delle opere e della persona alla comune societa', per risarcirla [.]" (par. 22: Furti), e cio', paradossalmente, proprio per evitare che sia tolto il pane agli innocenti, cioe' alla famiglia del condannato che, dovendo risarcire in denaro, si impoverirebbe ancora di piu'.

Pena di morte: "Non e' dunque la pena di morte un diritto [.], ma e' una guerra della nazione con un cittadino". Tale drastica affermazione viene alla fine di un esame del "patto sociale" su cui si fondano la sovranita' e le leggi, che, come gia' detto nel primo capitolo del saggio, rappresentano la "somma di minime porzioni della privata liberta' di ciascuno". Stando cosi' le cose, prosegue Beccaria, "chi e' mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della liberta' di ciascuno vi puo' essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se cio' fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non e' padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla societa' intera?".
L'autore non nega pero' che vi siano casi in cui divenga necessaria la pena di morte, e ne individua uno che si situa in una condizione di emergenza, e cioe' "quando la nazione recuperi o perda la sua liberta', o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi". Su questo non ha niente da dire.
Ma adesso il suo interesse si appunta piuttosto sul normale svolgimento della vita "durante il tranquillo regno delle leggi", "dove il comando non e' che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorita'". E qui egli prende in esame il secondo (e ultimo) motivo che potrebbe giustificare la morte di un cittadino e cioe' "quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti". Ma e' un motivo ipotetico, che Beccaria prende in considerazione proprio per dimostrarne la falsita': la pena di morte non funziona affatto da deterrente per gli altri, come la storia di ogni societa' passata e presente insegna con dovizia di esempi.
Rimandando al testo integrale (Allegato 1), in cui le argomentazioni prodotte sono illustrate anche sul piano psicologico, ne riassumo qui solo i punti essenziali:
In primo luogo si osserva che il freno piu' forte contro i delitti "non e' il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di liberta', che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella societa' che ha offesa [.]". (Queste parole molto forti si capiscono pensando che alla pena di morte si sostituiva quella dei lavori forzati a vita nella prospettiva, appunto, che chi si era macchiato di colpe gravissime dovesse pagare il suo debito in modo concreto).
In secondo luogo Beccaria fa notare che "la pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piu' l'animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare [.]".
Se i primi due punti guardano la pena di morte dal punto di vista dello spettatore, una terza osservazione la considera invece dalla prospettiva di chi valuta il rapporto costi/vantaggi di un'eventuale delitto, e anche qui, sostiene Beccaria, "[.] non vi e' alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria liberta' per quanto avvantaggioso possa essere un delitto", tanto piu' che "moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanita', che quasi sempre accompagna l'uomo al di la' dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma ne' il fanatismo ne' la vanita' stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia". Vi e' anche una quarta considerazione importante, quando si dice: "Non e' utile la pena di morte per l'esempio di atrocita' che da' agli uomini. Se le passioni o la necessita' della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piu' funesto quanto la morte legale e' data con istudio e con formalita'. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volonta', che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio".
Si puo' concludere questa carrellata mettendo in rilievo un quinto punto contro la pena di morte, che e' rappresentato dal sentire profondo di ciascuno. Osserva infatti Beccaria: "Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d'indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che e' pure un innocente esecutore della pubblica volonta', un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual e' dunque l'origine di questa contradizione? E perche' e' indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perche' gli uomini nel piu' secreto dei loro animi, parte che piu' d'ogn'altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potesta' di alcuno fuori che della necessita', che col suo scettro di ferro regge l'universo". In altre parole: solo Domineddio può togliermi la vita.

Mi fermo qui, ma come ho gia' detto questi pochi appunti rendono una pallida giustizia della ricchezza e dell'interesse di Dei delitti e delle pene e sperano soltanto di aver fatto venire voglia di leggerlo direttamente. Per questo segnalo subito una breve bibliografia: Su Internet il testo integrale si trova a questo indirizzo:
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Per quanto riguarda la carta stampata, segnalo due volumi:
CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano 2007, euro 6 (con prefazione di Stefano Rodota', a cura di Alberto Burgio, questo volume offre una serie di note preziose).
CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Einaudi 1965 e 1994, euro 14,80 (a cura di Franco Venturi, questa edizione contiene, oltre a una bella introduzione, una ricchissima scelta di documenti dell'epoca di varia provenienza, dall'Italia alla Francia, dalla Russia all'Inghilterra).

NOTA
Cesare Beccaria (Milano, 15 marzo 1738 -28 novembre 1794) si occupo' di economia, politica, filosofia e letteratura. Contro il volere della famiglia, molto attaccata agli antichi privilegi e piena di pregiudizi, e dalla quale aveva ricevuto una educazione "fanatica" sposo' nel 1761 Teresa de Blasco, da cui ebbe due figlie, una delle quali, Giulia, fu la madre di Alessandro Manzoni. In quello stesso periodo si avvicino' con entusiasmo al pensiero illuminista; lesse, fra gli altri, Montesquieu e Rousseau. Frequento' l'Accademia dei pugni, il gruppo milanese guidato dai fratelli Alessandro e Pietro Verri, che l'avevano notato dopo la pubblicazione di un suo saggio di economia, e fu su loro suggerimento e col loro sostegno che si interesso' alle leggi penali dell'epoca. I suoi appunti furono oggetto di approfondimenti e discussioni nel gruppo, e presto fu pronto quel saggio, Dei delitti e delle pene, che doveva assicurare all'autore una fama secolare. Di natura schiva, fu alquanto frastornato dal successo ottenuto; accetto' l'invito di recarsi a Parigi per incontrare molti illuministi francesi che lo ammiravano, ma declino' quello di Caterina II di Russia, preferendo restare nella sua Milano. Li' fu nominato docente di economia politica nelle Scuole Palatine. Dal 1771 ebbe anche altri incarichi pubblici sempre legati al tema delle finanze.

Dei delitti e delle pene comparve per la prima volta anonimo nell'estate del 1764 a Livorno senza divisione in paragrafi e suscito' immediatamente un grande interesse. Dal 1764 al 1766 si susseguono nuove edizioni con aggiunte e modifiche. La seconda edizione, sempre del 1764, conta invece 40 paragrafi, la terza, del 1765, 45 e, infine, l'edizione definitiva, del 1766, la cosiddetta "edizione Harlem" ne contiene 47 e la premessa di Beccaria: "A chi legge". L'edizione del 1765 e' interessante perche' riporta sul frontespizio l'incisione di Giovanni Lapi, in cui si vede la Giustizia che allontana il boia, che le offre un grappolo di teste umane, per rivolgere il proprio sguardo a un cumulo di attrezzi da lavoro, a indicare il suo diniego alla pena di morte e la necessita' di sostituirli coi lavori forzati (vedi foto in alto).
(Una curiosita': anche se la citta' in cui fu stampato e' sempre Livorno, tuttavia, per depistare la polizia, il nostro libro, cosi' come tanti altri dell'epoca, porta come luogo di edizione i nomi di citta' diverse, preferibilmente straniere, una volta la svizzera Losanna, un'altra, appunto, l'olandese Harlem).
Moltissimi furono gli estimatori, diversi e temibili i detrattori, fra cui si annoverano non solo i detentori del potere civile, come, per esempio, la Repubblica di Venezia, ma anche e soprattutto del potere della Chiesa di Roma che mise l'opera all'"Indice dei libri proibiti" il 3 febbraio 1766 ne' mai ve la tolse fino all'abolizione di questa istituzione avvenuta nel 1966, dopo il Concilio Vaticano II. Non bisogna pensare, pero', che tutti i governanti temessero le idee presentate dal giovane e schivo milanese; il fatto che Pietro Leopoldo di Toscana si ispirasse al saggio di Beccaria per la riforma del codice penale toscano (1786) non rappresento' un'eccezione. Anzi, si potrebbe anche dire che arrivasse "buon ultimo", visto che gia' sua madre, Maria Teresa d'Austria e suo fratello l'imperatore Giuseppe II lo avevano preceduto sulla strada di alcune sostanziali riforme, pur non abolendo la pena di morte. L'altra grande imperatrice dell'epoca, la zarina di Russia, Caterina II, apprezzo' talmente l'opera di Beccaria da inserirne vere e proprie sintesi nella sua "Istruzione" (in russo: Nakaz) rivolta alla Commissione da lei convocata per compilare un nuovo codice penale.
Oltre a queste personalita' il libro piacque e ispiro' un grande numero di persone non solo in tutta l'Europa, dalla Francia alla Scozia alla Svezia, ma anche nelle Colonie inglesi d'America (i futuri Stati Uniti) e in America latina. Ebbe molte traduzioni, prima fra tutte quella in francese del Morellet che fece una rielaborazione dell'opera spostando alcuni paragrafi e dandole la forma (e il nome) di un "trattato". In questa forma riapprodo' anche in Italia nel 1774 e fu cosi' conosciuta fino al 1958, allorche' Franco Venturi riprese il testo della edizione di Harlem del 1766 che risultava l'ultima effettivamente curata dall'autore.
In anni piu' recenti, sulla scorta di nuove ricerche d'archivio, alcuni studiosi si sono chiesti se la paternita' dell'opera sia da attribuirsi davvero a Beccaria o non piuttosto a Pietro Verri. Su questo tema si veda l'interessante articolo di Elio Palombi Luci e ombre sulla paternita' dell'opera "Dei delitti e delle pene" che si trova a questo indirizzo:
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(a cura di Annapaola Laldi)
 
 
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