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La pulce nell'orecchio di Annapaola Laldi
27 luglio 2013 9:28
 
 Sono dal fornaio a comprare il pane. Dal campanile della Collegiata i rintocchi del mezzogiorno.
Mezzogiorno … improvviso e immediato il richiamo ad antica rima: “Da la chiusa al pian rintrona/Solitario un suon di corno”.
Lo riconosco. Sta all’inizio della Leggenda di Teodorico di Giosuè Carducci, che in anni ormai lontani, forse in seconda media, mandai a memoria. La quale, evidentemente, ha conservato quel patrimonio e adesso me lo restituisce fresco e intero.
Ma per sicurezza, e un supplemento di curiosità, vado a controllare sulla Antologia carducciana del Mazzoni/Picciola, che, leggo nelle diverse prefazioni, fu compilata nel 1907 e riedita più volte (l’edizione in mio possesso è del 1920 – ma io sono abbastanza più recente!). La carta è piuttosto grezza e conserva l’odore particolare che già da bambina mi colpì; la stampa è ottima, la rilegatura, con cui ho conosciuto questo libro, tiene ancora egregiamente.
Forse è un’idea balzana, ma mi fa piacere trascriverla qui sotto e offrirla alla lettura di eventuali passanti. A me sembra bella, anche per la sua lingua a tratti desueta, da cui possiamo farci portare con ragionevole fiducia. Prima, però, per una migliore comprensione, riporto quanto scrisse su di essa lo stesso Carducci: “Il primo re degli Ostrogoti in Italia [Teodorico il Grande- 454-526] è nell’antica poesia tedesca denominato Teodorico di Verona; ed entra nei Nibelunghi e da ultimo nei miti odinici del cacciatore demoniaco. La leggenda cattolica italiana, certo per quella breve tirannia che macchiò la fine del regno di lui, lo fa portato via dal diavolo e gittato dalle anime di Simmaco e del pontefice Giovanni nelle caldaie di Lipari. I miei versi raccolgono, o, come dicevano i commediografi romani, contaminano, le due leggende, la germanica odinica, l’italiana cattolica”. E se non basta, resta sempre la comodità di Wikipedia e dintorni.
Ecco il testo di questa romanza pubblicata nella “Domenica del Fracassa” il 1° febbraio 1885.

La leggenda di Teodorico

Su 'l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l'aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.

Pensa il dí che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.

Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventú,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.

Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
— Sire, un cervo mai sí bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i pié d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr.
— Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.

— I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo — egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.

Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.

In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può.

Il più vecchio ed il più fido
Lo seguía de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
— O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dí,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai cosí.

Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta? —
— Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò. —

Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covría,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.

Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.

Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.


 
 
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